Maria Chiara Pievatolo | Il mito di Protagora
C’era una volta – favoleggia Protagora – un’epoca in cui esistevano gli dei, ma non le specie mortali (320c) [1]. Quando giunse il tempo stabilito dal destino per la loro nascita, gli dei le modellarono in seno alla terra [2], usando la terra stessa, il fuoco e i loro composti [3]. Prima di farle uscire alla luce, incaricarono i due fratelli titani Prometeo ed Epimeteo – i cui nomi contengono rispettivamente il pensiero previdente e il senno del poi – di distribuire in modo appropriato le varie facoltà. Epimeteo si offrì di compiere la distribuzione, lasciando al fratello il compito di rivederla (320d). Convinto Prometeo, il titano cominciò a distribuire fra gli esseri viventi le facoltà connesse alla loro struttura corporea – dimensioni, velocità. forza, artigli, pellicce, pelli, zoccoli, radici, fecondità, dieta – cercando di ottenere un bilanciamento, in modo che nessuna specie si estinguesse (321a). Epimeteo, però, possedendo soltanto il senno del poi, non era completamente sapiente (321b) ed esaurì senza rendersene conto la scorta delle risorse fra gli animali privi di ragione (logos). Prometeo, giunto a controllare, vide che l’uomo era rimasto debole, nudo e indifeso, mentre si approssimava già il giorno in cui sarebbe venuto alla luce (321c).
Per permettergli di sopravvivere, rubò rispettivamente ad Athena ed Efesto il sapere tecnico (entechnos sophia) e il fuoco e li donò all’uomo. In questo modo gli esseri umani acquisirono la competenza necessaria per la vita (peri ton bion sophian), ma non quella politica, che, appartenendo a Zeus, era conservata nell’acropoli [4] e sorvegliata da terribili custodi (321d-e).
“Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: “Dopo che avrò distribuito – disse – tu controllerai”. Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce. Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo” (Platone, Protagora, 320 C – 322 A).
Così l’uomo divenne partecipe di un destino divino (theia moira) [5]. In quanto imparentato con la divinità, fu l’unico essere vivente a riconoscere gli dei e a praticare il culto. Grazie alla sua techne imparò ad articolare la voce in parole e inventò case, sandali, letti, vesti, nonché l’agricoltura (322a). Ma gli uomini continuavano a vivere separati, e non riuscivano a unirsi neppure per difendersi dagli animali feroci perché non avevano la techne politica, di cui è parte anche quella bellica (322b). Allora Zeus, per salvarli dalla rovina, inviò Hermes a portar loro aidos (vergogna) e dike (giustizia) [6] perché costituissero ordinamenti delle città e vincoli di philia che li tenessero insieme. Hermes chiese se doveva distribuire aidos e dike soltanto ad alcuni, come avviene per le technai come la medicina, oppure a tutti (322c). Zeus gli rispose di darle a tutti, perché senza aidos e dike non potrebbe esistere la comunità politica: «istituisci dunque in mio nome una legge per la quale chi non è capace di condividere aidos e dike sia soppresso come una malattia della città» (322d).
“Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia». [323] Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici – naturalmente, dico io – se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos’altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza – dire la verità – in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato”. (Platone, Protagora, 322 C – 324 A)
Note
[1] Gli dei, nella visione antica, sono potenze immanenti al mondo, che si distinguono dagli altri esseri viventi – le specie mortali (thneta gene) – in primo luogo per la loro immortalità.
[2] La nascita dalla terra era un motivo tipico dei miti di fondazione greci, usato anche dal Socrate della Repubblica nel racconto fenicio. Il mito di fondazione del III libro della Repubblica è dichiaratamente falso perché fa passare la cultura, che è un processo storico, come un dato naturale.
[3] La teoria secondo la quale i due elementi fondamentali sono la terra e il fuoco è di Parmenide (Diogene Laertio, IX, 21).
[4] L’acropoli era l parte alta delle città greche, anticamente sede del potere politico e del culto religioso. Il mito immagina la sede degli dei dotata, come le città umane, di una parte bassa per le divinità ordinarie e di un’acropoli dove abita il loro re.
[5] La moira è il destino, in quanto porzione o parte che ci è assegnata nella vita: la moira degli uomini è divina perché è stato dato loro, come parte, un dono della divinità.
[6] Dike designa la giustizia in senso oggettivo, come complesso di regole di condotta sociali, indipendentemente dalle intenzioni individuali. Nel mito, aidos – la vergogna – fa sì che queste regole vengano, soggettivamente, rispettate.