Francesca Sironi | Noi, i nuovi proletari digitali. Ecco chi sono i gli operai 2.0
Lavorano al computer, senza orari né tutele, per realizzare video, software, siti web. Creativi? Mica tanto. Ecco i manovali del nuovo millennio, che in Italia sono già mezzo milione
Click click. Digita, schiaccia, salva, invia. Click click. Guarda, sposta, cambia esporta. Occhi aperti davanti al monitor, mano sul mouse, comandi da eseguire su un software: se oggi chiedessero a Charlie Chaplin di raccontare il proletario contemporaneo, i suoi Tempi Moderni forse li illustrerebbe così, con uno schiavo del click click. Al computer, più che tra gli ingranaggi di una catena di montaggio.
Perché di operai stiamo parlando, ma di operai digitali. Ovvero di quei manovali che tengono in piedi i siti web, che sudano perché film e serie tv arrivino in tempo nei nostri salotti, che alimentano il flusso di app, news, streaming e database su cui si appoggiano ormai molti servizi essenziali. Negli Stati Uniti la loro schiera conta già 4 milioni e 700 mila addetti; secondo le stime del governo Obama da qui al 2022 i posti aumenteranno di un milione e mezzo. Per l’Italia, l’ultimo censimento Istat è del 2011, e di impiegati nella fabbrica virtuale ne fotografava 450.606: mezzo milione.
L’identikit
Gli operai 2.0 sono programmatori, “content editor”, montatori, addetti al “buzz marketing”, tecnici della post produzione, “social media manager”, grafici e specialisti degli effetti sui video. Voci come queste inondano le bacheche di annunci di lavoro. Tanto da esser diventate la speranza di un’intera generazione di giovani (e meno giovani), per i quali le offerte sono doppiamente allettanti: oltre a uno stipendio promettono infatti di essere mestieri creativi. Innovativi quanto le tecnologie che maneggiano.
Ma è una promessa vera solo in parte. Perché se le condizioni proposte da questi impieghi non si possono certo paragonare al sudore dell’industria pesante, dietro ai loro profili ammiccanti si celano spesso mansioni ripetitive, meccaniche; in una parola: alienanti. I diritti conquistati dai sindacati, poi, sono spesso solo un ricordo del passato: i galoppini della Rete sono abituati ad andare avanti senza orari, a cottimo, a sgobbare da casa come le sarte di una volta e infine ad accettare, nei casi estremi, mini-attività virtuali pagate due dollari l’ora, o addirittura in gettoni da spendere online.
«È un Far West», sospira Patrizia Tullini, docente di diritto del lavoro all’università di Bologna: «In cui il grosso del potere contrattuale è nelle mani dei committenti». Così, anche se le sirene delle fabbriche sono lontane, le tute blu scomparse, le ciminiere solo archeologia, pure l’industria eterea e rampante dell’informatica ha i suoi manager, i suoi creativi. E i suoi operai. Come quelli di cui abbiamo raccolto le storie.
Libero. O meglio cottimista
Davide Rovere ha 36 anni. Comincia ad avere qualche capello bianco, ma indossa ancora felpe col cappuccio e jeans oversize. Tredici anni fa si è laureato in “Industrial design” a Treviso. Dopo mesi di colloqui a vuoto è partito alla ricerca di miglior fortuna a Milano. Il primo ingaggio lo ha trovato subito, da una casa editrice, come “web editor”. Suonava bene. «Mi hanno dato una scrivania di fianco al magazzino», racconta: «Il mio compito era copiare online gli articoli che uscivano sul giornale». Autore, almeno, dei sommari? «No. Dovevo solo riempire i campi con i testi che mi mandavano via mail». Pagato? «A ore anche se ero il più giovane per cui mi chiedevano di restare per dare una mano coi computer».
È andata avanti per otto mesi. Poi ha deciso di mettersi in proprio. L’ufficio allora è diventato camera sua: una stanza di venti metri quadrati che condivideva in periferia con Matteo Toffalori, un ragazzo di vent’anni anche lui smanettone e aspirante grafico freelance. «Spesso non uscivamo di casa tutto il giorno», ricorda: «Ci accorgevamo alle tre di non aver pranzato. O continuavamo di notte». Sul suo computer, ai piedi del letto, disegnava siti web e dépliant per piccole aziende o artisti emergenti. «Le commesse più noiose sono sempre quelle più redditizie», spiega: «Alle richieste più creative invece mi capita di non chiedere nulla in cambio. Solo perché mi diverto». Stipendio? Come per la maggior parte dei suoi colleghi, ogni volta lo attende una via crucis di fatture pagate a lavoro ultimato, normalmente in ritardo, oppure direttamente in nero.
Da dicembre però qualcosa è cambiato. Ha messo su famiglia. E con Toffalori ha avviato una società, “Reactio”, specializzata in effetti speciali e animazioni 3D: «Non è un’occupazione molto più gratificante o creativa in sé», spiega Matteo: «Passo ore allo schermo, a spostare linee, modificare figure. La soddisfazione dipende tutta dal risultato: se ne posso andare fiero, ne è valsa la pena. Se invece sono costretto a modificarlo trenta volte perché “qui non piace” e “rifai questo”, alla fine mi viene la nausea». Qualche mese fa un’azienda gli ha chiesto di togliere l’immagine di una bottiglietta d’acqua da un filmato di un’ora e mezza. Compenso: 800 euro. «Una follia! Si trattava di passare con il cancellino su ogni fermo immagine, venticinque volte al secondo». Dopo 35 giorni, ha rinunciato. Senza cavarci un euro.
È il futuro o il ritorno al passato?
Digitando “I am a developer” (“Sono uno sviluppatore”) su Google, il motore di ricerca suggerisce di chiudere la frase con “I have no life” (“Non ho una vita”). E la pagina Facebook intitolata così vanta in effetti 867.225 “mi piace”. Persiste l’immagine del programmatore-nerd tagliato fuori dal mondo, chino sullo schermo a digitare comandi per inventare l’applicazione del futuro. Ma insieme a questa figura inizia a farsene strada un’altra. Più concreta e disincantata. Su un forum Marco D. scrive: «Noi programmatori siamo gli operai del nuovo millennio. A meno di non essere geni, è così». Il mito di una generazione insomma è passato dal fondare una start up miliardaria al ritagliarsi un buon lavoro qualunque sia.
Le tute blu digitali sanno però di avere dei vantaggi rispetto al Cipputi caustico inventato da Altan: «L’orario di solito lo gestisci tu», spiega Marco D.: «E poi più aziende cambi, più usi piattaforme diverse, più acquisisci esperienza e quindi ti confronti con competenze nuove». Insomma: non è la pura ripetitività della catena di montaggio. Ci sono in gioco logica, ragionamento, inventiva. Ne è convinto anche Francesco Wil Grandis, autore di una testimonianza su “Nomadi Digitali” : «Ho vissuto il mio mestiere di programmatore senza stress», racconta. Il padrone l’ha incontrato online, in una piattaforma di outsourcing, ovvero una piazza virtuale in cui le aziende possono trovare professionisti di tutto il mondo e viceversa. Con il suo committente, americano, è stata intesa al primo colpo; per quattro anni ha lavorato per la stessa azienda: buono stipendio, libertà ritagliate su misura, richieste sempre più raffinate. Un caso da manuale.
La grande illusione
I lavori digitali sono invitanti per molti motivi. Perché danno l’idea di essere innovativi. E perché sembrano facili: la quasi totalità dei giovani sa usare benissimo Facebook, ad esempio, per stare con gli amici. E allora perché non farlo diventare un lavoro? Ed ecco nascere un potenziale “social media editor”, una persona il cui compito è alimentare discussioni online su un prodotto. La competizione però è altissima. Con diverse conseguenze.
La prima, ovvia, è l’abbassamento dei salari. La seconda sono le minori garanzie (il classico: «Non ti piace? Vai. Tanto c’è la coda fuori»). E poi c’è un terzo inganno: «Visto che spesso mancano un riconoscimento o un buono stipendio, i lavoratori si autoconvincono sia giusto essere un po’ sfruttati pur di fare un mestiere così innovativo», sostiene Matteo Tarantino, giovane sociologo dell’Università Cattolica di Milano: «In realtà sono operai, ma né le aziende né loro stessi si definiscono così». Perché «l’immaginario è cambiato», spiega: «Ma la sostanza capitalistica resta, anche per l’industria digitale: pochi posti per i veri creativi. Molti per la manodopera a basso valore aggiunto».
Dalla mia stanza senza finestre
«Quanno dico che lavoro faccio, la gente subito: bello! E io imbarazzato spiego: beh insomma, due cojoni. Certo nun faccio il manovale, ma è comunque un’attività zero creativa e molto ripetitiva». Roberto (il cognome no, ha un contratto e non lo vuole perdere) fa il montatore in una società che importa dall’estero film e trasmissioni tv, a cui vengono aggiunte traduzioni e doppiaggio. Lui, in particolare, è la persona che deve ricevere i video, dividerli fra i colleghi, quindi assemblarli di nuovo controllando tutte le immagini prima che arrivino a milioni di telespettatori.
Di fatto la sua attività consiste nel muovere gli occhi e il mouse: guarda i filmati (ognuno almeno due volte), corregge, separa. E poi di nuovo: taglia, digita, salva, invia. Una routine meccanica. A cui lui, di suo, può aggiungere di rado qualcosa. «Ma non mi lamento», insiste: «Ho un ottimo stipendio, un contratto vero». Nel suo ufficio – senza finestre, e al buio: l’unica luce è quella dei monitor – non ha un gran rapporto coi colleghi: «Mi faccio i fatti miei». Grazie al tempo libero però, obbligatorio per via dei processi che bloccano il computer per ore, è diventato una star su Twitter, con decine di migliaia di followers e battibecchi in diretta con politici, attori, jet set.
«Sono fortunato», ripete.«Anche se lo ammetto, a volte non dormo. Quando arrivano certi cartoni animati mi vorrei impiccare: 130 puntate da 40 minuti, con le canzoncine, i pupazzetti che ballano, le coreografie, e io che mi devo guardare tutto tre volte. Quanno esco nun me se leva il jingle dalla testa». Nella sua stessa azienda c’è a chi va peggio: «Mi sono rifiutato di seguire alcuni documentari “chirurgici”», racconta: «liposuzioni, sangue, organi in vista. Nun je la posso fa. Ma ho colleghi obbligati a mettere i sottotitoli». Significa avere carni sbrindellate sotto gli occhi per giorni. Fermo immagine dopo fermo immagine. C’è a chi tocca anche questo.
Tecnici fantasma
Come nelle fabbriche, anche per la manovalanza digitale esistono i tecnici ultra-specializzati. Marco Perini, 33 anni, occhiaie croniche, è uno di questi. Il suo lavoro è far sentire nei video la voce di chi parla, e non quei brusii, fruscii, rumori che i microfoni inevitabilmente intercettano. Si chiama “post-produzione audio” oppure “sound design”. Ma se molti mestieri dell’universo digitale sono poco noti, il suo è proprio ignoto: «Ho ancora clienti che mi chiedono: “Ma non basta alzare il volume?”», commenta, accendendo una delle sue venticinque sigarette quotidiane: «Correggere l’audio significa invece fare almeno quaranta azioni per ogni minuto di registrazione, fra abbassare picchi, coprire, eliminare il sottofondo».
Dietro ogni scena di un film c’è questa meticolosa pulizia compiuta su un software. Una fatica che stentiamo a riconoscere. Come capita per molti altri mestieri digitali: dal moderatore dei commenti online alla massa di operai che ogni notte salva i miliardi di contenuti pubblicati su Facebook, ad esempio. Chi conosce il loro volto? «In Rete tutto deve sembrare naturale, immediato», spiega Ruggero Eugeni , docente di Semiotica dei Media: «Dobbiamo sentirci “utenti”, non consumatori. Ma perché questa retorica resti in piedi è fondamentale che non si avverta il lavoro che c’è dietro. Chi produce deve diventare invisibile». Un fantasma.
«Per l’ultima produzione a cui sono stato chiamato mi hanno offerto 50 euro a puntata», sospira Marco Perini: «Considerando che ogni volta erano quattro ore e mezza di lavoro, mi sono rifiutato di continuare». Il prezzo giusto? «Sarebbe 350 euro. Molti committenti, per fortuna, mi pagano così». Anche perché lui è considerato uno bravo: la Sae, la più grande scuola per queste professioni in Italia, l’ha chiamato come docente. «A me piace il mio lavoro», prova a spiegare: «Quando senti il risultato: è fantastico. Il problema è che per molti non esiste». Si rimette le cuffie: per dieci minuti avrà nelle orecchie la stessa frase – “no perchéee” – detta da una belloccia dello show business. Non può pensare ad altro, quando è su una traccia.
«Dai, siamo una grande famiglia»
Poi, c’è l’età. Perché passare le notti alla tastiera, inseguendo l’ultimo software, è entusiasmante a 20 anni. A 30 ci si arrangia. Ma a 40… Chiara Birattari, che li ha appena compiuti, i 40, è una veterana dei mestieri digitali, e questo cambiamento di prospettiva l’ha vissuto di persona. «Il mio primo contratto è stato super: tempo indeterminato in un’agenzia di comunicazione online», racconta: «Quasi un miraggio, oggi». Era il 1998: non era ancora scoppiata la “bolla delle dot com”, il collasso del 2001 seguito alle speculazioni finanziarie sulla Silicon Valley, considerato una sorta di spartiacque dell’industria virtuale.
Prima, i siti web si costruivano “a mano”, programmando in html. Dopo sono nati i blog, i social network, i portali fai-da-te. «Io ho iniziato grazie a un corso della Regione Lombardia», racconta Chiara, occhi azzurri, un diploma all’Accademia di Brera e una seconda vita da attivista politica con il movimento di San Precario: «Era divertente».
Dopo la crisi l’agenzia non le ha pagato lo stipendio per un anno. Lei se ne è andata, facendo causa. E nel 2003 ha trovato un contratto a progetto in una società che si occupa di convention aziendali, con clienti del calibro di Publitalia. «Il mio compito era preparare le presentazioni», racconta: «I manager mandavano i testi. Il capo mi indicava le immagini da usare. E io componevo le schede. Poi, durante le mega-riunioni, ero la ragazza che cambiava slide al cenno del dirigente di turno».
Terribile? «In realtà non era così male. Il problema era l’ambiente», spiega: «Il clima era quello della “grande famiglia”. Secondo i soci ci saremmo dovuti divertire, perché era un lavoro “creativo”, perché le convention erano “begli eventi”. Eppure era pesante. Non me ne rendevo conto, ma stavo anche 15 ore di fila davanti al monitor». A fermarla è stata l’ennesima proposta di un rinnovo precario, insieme a malattie da stress che sono state un allarme. Ora collabora con una rete di professionisti che aiuta piccoli artigiani a presentarsi sul Web: «Siamo partite Iva, ma abbiamo un manifesto comune», spiega: «Farsi pagare il giusto. Costruire un buon rapporto coi clienti. E soprattutto: non fare orari folli».
Stipendi virtuali
Fin qui, non è che la superficie. L’avanguardia del lavoro digitale nel frattempo è andata ben oltre. L’oltre si chiama crowdworking – letteralmente, “lavoro di folla”, collettivo – ed è un’avanguardia che ha piantato solide basi anche qui: 100 mila italiani racimolano uno stipendio grazie ai mini-job virtuali. Di che lavori si parla? Di guardare centinaia di video per censurare quelli pedopornografici, ad esempio. Oppure di commentare la pagina web di un politico. O ancora di controllare fogli pieni di dati. Tutto per rimborsi che vanno dai 50 centesimi ai pochi dollari l’ora.
Pioniere del settore è Amazon, col suo Turco Meccanico, ma le fabbriche globali sono numerose: CrowdFlower, un concorrente, vanta cinque milioni di iscritti in 280 Paesi. L’ultima novità riguarda i soldi. Virtualizzati, anche quelli: sulla piazza di Amazon i lavoretti sono pagati spesso non con dollari veri, ma con monete immateriali da spendere dentro la stessa piattaforma per acquistare libri, scarpe, dvd.
E se i dipendenti usa-e-getta che vivono negli Stati Uniti possono scegliere fra il ricevere un bonifico concreto oppure solo un tagliandino regalo, per gli stranieri (indiani esclusi) non c’è scampo: tutto lo stipendio va speso dentro il negozio del boss. Come nelle piantagioni coloniali anni Trenta. Mentre in Rete inizia a spuntare anche chi paga in punti-gioco da utilizzare nei videogame. La premessa di un futuro dove anche lo stipendio rischia di diventare virtuale.
L’Espresso, 19 giugno 2014