Joseph Halevi | Reddito di cittadinanza? Forget it!
Di fatto redditi di cittadinanza esistono in molti paesi, anche in Australia. Sono tutti stati concepiti come ammortizzatori in un contesto di piena occupazione. Quando questa è saltata il reddito di cittadinanza è stato messo sotto pressione. E’ ovvio. Durante le fasi di piena occupazione il gettito fiscale è alto e la graduazione delle tasse era molto progressiva. Con la disoccupazione il gettito fiscale si abbassa notevolmente anche perchè con la scusa di stimolare gli investimenti viene detassato il capitale. L’insieme delle finanze pubbliche viene messo sotto pressione.
Il reddito di cittadinanza viene frenato, certamente in termini reali (in Australia negli anni 60 con la disoccupazione allo 0,5% il sussidio era pari al 60-65%% del salario ed era indicizzato, oggi è pari al 35%. Notare che era un vero reddito di cittadinanza cui aveva diritto chiunque non lavorasse a partire dai 16 anni fino ai 65, idem per la Nuova Zelanda).
In questo quadro il reddito di cittadinanza diventa il polo di gravitazione dei salari più bassi: cioè questi scendono verso il livello del reddito di cittadinanza e si allarga il divario salariale. Man mano che procede la zombificazione dell’occupazione col part-time. i casual, ecc, il reddito di cittadinanza assume importanza crescente, sia come fall back position, sia come fondo di garanzia se si considera, realisticamente, che una parte dei lavoretti è in nero; ovunque non solo in Italia.
Un’intera società può scivolare su questa china, come è successo in Australia e Nuova Zelanda e come sta succedendo in Svezia. Tutto l’orientamento è al ribasso. Non penso sia sano lottare per l’elemosina.
Notare che si può, in linea ipotetica, “lottare” per il reddito di cittadinanza ma è praticamente impossibile lottare per il mantenimento del suo valore reale e per innalzarlo. Semplicemente non crea alcuna condizione di coagulo perchè i percettori sono ormai atomizzati.
Non ditemi che in Italia sarà diverso perchè l’Italia è il paese col minor coagulo sociale e di lotta in Europa: Lo spappolamento è totale. La proposta 5* fa già partire il reddito di cittadinanza da livelli inferiori a quelli di sussistenza (600 euro al mese). Se passa sarà ad un livello di compromesso, diciamo di 500 euro. FORGET IT. Da quel momento in poi ogni governo lo giocherà al ribasso. Guardate bene a quello che succede in Scandinavia, specialmente in Danimarca, Svezia, Finlandia. Come spiegare l’aumento vertiginoso di povertà in questi paesi? (povertà non assoluta, ma calcolata sulla base del livello di reddito di povertà).
Il reddito di cittadinanza è concepibile solo se fortemente agganciato al salario secondo una media da calcolare e contrattare fra sindacati e governo. Ma questo è possibile solo con sindacati forti e sindacati forti esistono solo in situazione di elevata occupazione e si rafforzano con la lotta per la piena occupazione. Tutto il resto – avrei detto una volta- è fuffa.
Oggi dico: è decisamente reazionario e va combattuto come ogni radicalismo piccolo borghese. Per saperne di più posso rimandare ad una serie di interventi di Giovanna Vertova, Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi sul manifesto di alcuni anni fa proprio su quest’argomento. Vi avrei rimandato all’ottimo archivio elettronico del vecchio giornale. Ma il gruppo di controllo attuale lo ha trasformato in una larva e l’archivio elettronico è chiuso essendo tra gli asset da vendere nella liquidazione della vecchia cooperativa.
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Con i potenti mezzi di cui dispone (ops..) la redazione di Contropiano ha rintracciato gli articoli citati da Halevi. E ringrazia naturalmente la Odradek Edizioni per aver conservato online l’intersa discussione.
Tutto il dibattito avvenne con queste scadenze (ci limitiamo a ricordare che la crisi finaziaria non era ancora esplosa; la sua gestione pratica spiega quasi meglio di ogni altro argomento teorico come funziona il rapporto tra capitale, salario, welfare o “reddito di cittadinanza”):
Il dibattito, a partire dall’articolo di Vertova si è poi così sviluppato: Fumagalli-Lucarelli, 16giugno; Edoarda Masi, 21 giugno; Sacchetto-Tomba, 30 giugno; Morini, 5 luglio; Chainworkers, 8 luglio; Bellofiore-Halevi, 11 luglio; Tajani, 11 luglio; Gambino-Raimondi, 23luglio; Enzo Valentini, 27 luglio; Anna Carola Freschi, 8 agosto; Giovanna Vertova, 15 agosto; lettera off-topic di Fumagalli, 19 agosto.
Abbiamo selezionato gli articoli che seguono, citati da Halevi [Contropiano].
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4 giugno 2006
Giovanna Vertova
E’ uscito recentemente il libro Reddito garantito e nuovi diritti sociali, frutto di una ricercadell’Assessorato al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio. L’idea è di offrire delle linee guida alle amministrazioni regionali che intendono proporre forme di basic income.
Il volume è importante per due motivi. Formula una proposta politica precisa di reddito garantito, all’interno di una visione più complessa che mira alla revisione edall’aggiornamento di un sistema di welfare per adeguarlo al nuovo capitalismo flessibile. Fornisce, inoltre, una dettagliata analisi di simili iniziative a livello europeo.
La proposta nasce dall’esigenza di pensare ad un nuovo sistema di welfare che tenga conto della precarietà, ormai dilagante. La nuova organizzazione del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato mette in discussione la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero, occupazione e inoccupazione. Occorre, quindi, inventare nuove forme di protezione sociale.
Nel capitolo “Il reddito per chi, quando, quanto, come e da chi” si suggeriscono le risposte alle domande che un amministratore dovrebbe porsi nel caso volesse introdurre una misura come quella di un reddito garantito: per chi? quanto? quando? come? da chi?
Per chi: a “coloro che vivono sotto una certa soglia di reddito (sia esso il salario minimo, la pensione sociale o altro)” (p.76). E, comunque, per tutti i precari in condizioni di non lavoro e per i soggetti in stato di povertà che permangono sotto una soglia minima accettabile. Si pensa così di riuscire anche a frenare la corsa verso il basso dei salari reali: i lavoratori avrebbero l’opportunità di rifiutare lavori servili e poco remunerati, riducendo l’offerta di lavoro e spingendo la retribuzione del lavoro ‘tradizionalè verso l’alto.
Quanto: non viene data una risposta precisa, ma si ricorda chel’ammontare deve essere calcolato tenendo in considerazione i suoi effetti sul livello della spesa pubblica.
Quando: “nei casi di squilibrio sociale indotto dalla precarietà, laddove gli individui sono posti di fronte ad una disuguaglianza di opportunità dovuta all’assenza di un reddito adeguato” (p. 80). Come: “l’erogazione potrebbe comporsi sia di una parte monetaria, sia di una parte offerta in natura” (p. 93). Il reddito garantito dovrebbe essere articolato siacome reddito diretto (erogazione monetaria) che come reddito indiretto (erogazione di beni in natura, quali beni e servizi primari), includendo l’allargamento delle tradizionali forme di garanzia del lavoro così detto ‘fordista’ (ferie, malattie, maternità, etc.) ai lavoratori precari.
Da chi: le Regioni sarebbero maggiormente attive sul piano dell’erogazione dei beni e serviziprimari, lo Stato centrale sul piano dell’erogazione monetaria.Condivido l’urgenza di ripensare un sistema di welfare adeguato al nuovo cosiddetto ‘capitalismo flessibilè. Se ci si muove nella direzione del basic income mi sembrerebbe però più ragionevole pensare ad un reddito di esistenza per tutti, incondizionato. Si tratta, è chiaro, di una idea di difficile applicazione in Italia, perché richiederebbe un sistema fiscale molto progressivo, capace di combattere davvero evasione ed elusione.
La proposta, tuttavia, non convince né teoricamente né politicamente. Dal punto di vista teorico, i limiti che credo di poter rilevare sono infatti i seguenti. Erogare un reddito garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare la frammentazione del lavoro. Il nuovo capitalismo è riuscito pienamente a dividere il lavoro, ad individualizzare la prestazione lavorativa e a mettere in contrapposizione gli interessi dei ‘garantiti’ (anche se quantitativamente decrescenti) con quelli dei ‘precari’. Occorre piuttosto ricomporre il mondo lavoro e disegnare interventi politici che sottolineino come la precarizzazione, sia pure in forme diverse, sia un fenomeno trasversale.
Bisogna evitare la divisione della società in due sfere, poiché la precarietà non colpisce solo certe fasce di popolazione. Siamo di fronte ad una precarizzazione generale. Se si vuole capirne il significato, non ci si può limitare a registrare che i nuovi entranti sul mercato del lavoro sono sempre più figure con contratti atipici. Infatti, a seconda del ciclo economico, è possibile che si abbia una successiva regolarizzazione di questi lavoratori: e si rimane sguarniti rispetto ad obiezioni alla Ichino (Corriere della Sera, 15/05/06) che chiedono una riduzione delle garanzie dei lavoratori a tempo indeterminato per combattere davvero la precarietà dei ‘giovani’. La vera funzione della precarizzazione sta in altro: nello stabilire un permanente potere di ricatto che rende difficilmente contestabile il comando del capitale dentro il processo immediato di valorizzazione, dentro i luoghi di lavoro. Si noti, questo è spesso vero quale che sia la qualità del lavoro, e talora addirittura quale che sia il salario.
Si può aggiungere che il reddito garantito rischia di spingere tutta la struttura dei salari verso il basso, contrariamente a quanto sostenuto nel volume. I ‘padroni’ avrebbero tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il reddito garantito. Si indebolisce così, contro le intenzioni, la capacità contrattuale di tutti i lavoratori. Si favorisce, di conseguenza, l’istituirsi di un compromesso malsano tra lavoratori e padroni: i primi offrono salari e posti saltuari, i secondi li accettano perché intanto c’è il reddito garantito. Così i ‘lavori buoni’ spariscono e i ‘lavori cattivi’ dilagano.
Oltretutto, misure redistributive di questo tipo (come il reddito garantito, di esistenza, di cittadinanza, etc.) assumono, più o meno esplicitamente, che il capitalismo contemporaneo produca valore e plusvalore in modo stabile, e si basano su interpretazioni del medesimo quanto meno approssimative, anche se diventate ormai luoghi comuni (l’economia della conoscenza, il post-fordismo, etc.). Le classiche forme di redistribuzione hanno funzionato (laddove hanno retto) quando collocate in un contesto macroeconomico ben più sostenibile di quello presente. Basti ricordare i ricorrenti fenomeni di instabilità sia reale che finanziaria che si sono susseguiti negli anni più recenti, che rendono le misure meramente redistributive alquanto illusorie, salvo l’illusione nutrita da qualcuno che così si possa davvero sostenere la domanda effettiva.
Si riproduce così un vecchio errore del sottoconsumismo, e si dimentica che la dinamica macroeconomica è sostenuta dalle componenti autonome della domanda: investimenti, esportazioni nette, spesa pubblica, oggi il consumo gestito ‘dall’alto’ dalla politica monetaria. La redistribuzione potrà spingere verso l’alto la domanda effettiva solo dentro una politica economica alternativa caratterizzata da una ridefinzione strutturale molto più forte della domanda e dell’offerta, ben diversa dalla pallida ri-regolazione e politica industriale per incentivi e disincentivi, di cui il nuovo governo sembra farsi promotore.
Misure come il reddito garantito possono forse rendere più sopportabile la precarietà nel breve periodo, ma non la eliminano veramente: semmai la cristallizzano e la congelano. Determinano condizioni di maggior debolezza per i lavoratori, poiché rendono più accettabile la frammentazione del lavoro e conducono all’abbandono della lotta per un lavoro vero e garantito per tutti. Politicamente un impianto del genere sembra fatto apposta per creare le basi di uno scambio con la sinistra ‘moderata’: accettazione più o meno dichiarata della flessibilità in cambio di un qualche sostegno al reddito. Magari affiancata alla riduzione del cuneo fiscale che, ancora una volta, riproduce una idea di ripresa basata sul basso costo del lavoro e che scarica gli effetti sulle politiche, appunto, assistenziali. La triste storia del programma dell’Unione circa la Legge 30 (superamento? cancellazione?) ci insegna qualcosa?
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Reddito garantito, un’utopia neoliberale
Devi Sacchetto – Massimiliano Tomba, Università di Padova
Il manifesto – 30 giugno 2006
L’articolo di Giovanna Vertova (il manifesto, 4.6.2006) [è riprodotto qui sotto], al quale hanno replicato sulle colonne di questo stesso giornale Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (16.6.2006), ha passato in contropelo alcuni luoghi comuni delle recenti proposte sul reddito di esistenza, mettendone in evidenza debolezze teoriche e politiche. Non senza però sottolineare il problema dal quale quell’esigenza sorge: precarizzazione del lavoro e ridefinizione del welfare.
La formula del “reddito di esistenza” (basic income) appartiene al quadro delle scommesse politiche che cercano di attuare una qualche ricomposizione di un ideale soggetto precario. Da un quindicennio, con un’accentuazione tutta italica, il dibattito sulle trasformazioni del lavoro si è concentrato sulla moltiplicazione delle forme contrattuali (scambiata erroneamente per deregolamentazione, quando si tratta invece di una maxi-regolazione perfino delle forme che un tempo sarebbero state illegali) e sulla virtuosità immateriale del lavoro. I processi produttivi della nuova epoca postfordista sarebbero legati alle reti di conoscenza che si estendono sul pianeta, nelle quali ognuno interviene portando la sua dose di intelligenza… e lasciando a casa le mani. L’espansione del settore dei servizi, così ampio da comprendere le pulitrici e i bancari, rappresenterebbe uno degli indicatori principali di questa nuova tendenza.
Il “reddito di esistenza”, prendendone sul serio la retorica, assume una mossa del secondo operaismo italiano, che liquidò – senza mai curarsi di fornirne alcuna analisi – la nozione marxiana di valore per far posto ad un’altra scommessa teorica: si trattava dell’operaio sociale, allora. Venne poi l’enfasi sul general intellect, e quindi sul sapere sociale generale, che ha funzionato come accattivante passe-partout per legittimare l’idea del carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale nella fase attuale, e del passaggio ad un lavoro immateriale, intellettuale, tecnologico. Ora viene fatto un passaggio ulteriore: sarebbe il tempo di vita ad essere messo al lavoro, e quindi il consumo, in quanto attività relazionale e immateriale, ad essere produttivo di valore.
Questo approccio, appoggiato su un “paradigma a stadi”, e quindi sulla successione temporale fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra estrazione di plusvalore assoluto e estrazione di plusvalore relativo, permette di individuare – con una mossa tipica di ogni filosofia della storia – nel lavoro ad alta tecnologia e nel “postfordismo” un tendenza rispetto alla quale altre forme di lavoro sono giudicate “residuali”.
Questa visione vale forse per un francobollo del pianeta terra, vale a dire per le aree più avanzate sul piano economico e tecnologico, ma taglia fuori con noncuranza i quattro quinti del pianeta, dove lavoratori salariati e coatti sono al centro di un’estorsione senza pari di plusvalore assoluto. Non si tratta, qui, di ragionare in termini “reattivi”, negando la presenza di cambiamenti rispetto al passato. Ma è senz’altro sbagliato – sia teoricamente sia politicamente – definire in termini di arretratezza o “residualità” lo sfruttamento assoluto ancora in espansione nel pianeta. I 300 milioni di lavoratori coatti oggi esistenti nel mondo non sono un residuo precapitalistico se la frusta del sorvegliante è comandata dall’intensità del lavoro socialmente necessario registrata nelle borse mondiali. Sarebbe forse più opportuno interrogarsi sulla compenetrazione dei diversi livelli di sfruttamento, abbandonando un fallace paradigma a stadi storici che vorrebbe l’epoca della sussunzione formale superata da quella della sussunzione reale.
Il problema di un’economia globalizzata, nella quale viene meno anche la distinzione tra centro e periferia, è la relazione tra i diversi tipi di sfruttamento, vale a dire il modo in cui enormi masse di plusvalore assoluto prodotte nelle più svariate parti del mondo sorreggono produzioni ipertecnologiche ed espansione dei servizi qui da noi.
Da questo punto di vista va messo a tema quanto Fumagalli e Lucarelli affermano: è all’esterno del processo di lavoro e dei rapporti di produzione che viene pensata una ricomposizione del lavoro precario. Essi non mettono in questione lo sfruttamento insito nelle dinamiche capitalistiche, ma ne richiedono una sorta di “regolazione istituzionale”: col reddito d’esistenza, infatti, si lascerebbe quantomeno inalterato (anche se probabilmente peggiorerebbe) il tasso di sfruttamento di coloro che dovrebbero effettivamente pagare il reddito d’esistenza a qualcun altro. Abbandonati i laboratori della produzione per le celesti sfere della circolazione e della distribuzione, l’immagine di una vita messa radicalmente al lavoro ci presenta, oltre che uno scenario postclassista, una sorta di olismo del capitale, rispetto al quale sono tutt’al più possibili riforme e nuove forme di redistribuzione della ricchezza.
Lungi dal costituire un allargamento delle lotte all’intera società, il reddito garantito significa innanzitutto la messa in mora di ogni discussione sulle forme della messa al lavoro. Mentre si continua a discutere impropriamente di mercato del lavoro, è assordante il silenzio sul contenuto del lavoro, a parte le ipotesi paradisiache relative ai lavoratori autonomi della conoscenza di seconda generazione. Se esiste una tendenza vera nei paesi occidentali, è lo sgretolamento del welfare state accompagnato alla precarizzazione del lavoro. E se ciò può avere come presupposto la critica di un’intera generazione operaia alla logica sacrificale del compromesso welfarista e laburista, ciò non toglie che la risposta padronale e governativa a quello scontro è stata in grado di capitalizzare quegli stessi comportamenti di insubordinazione operaia. Ma allora, cavalcando la tendenza e persuadendoci di averla noi stessi impressa – dalla fuga dal lavoro alla precarietà? – rischiamo di trovarci vicino alle posizioni neoliberali sul reddito garantito, certamente compatibile con un sistema nel quale welfare e servizi vengono immessi nel mercato, al quale il singolo sarà libero di accedere per via monetaria, scegliendo liberamente cosa comprare.
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Reddito garantito, fra illusione e diversivo
Riccardo Bellofiore – Joseph Halevi
11 luglio 2006
L’articolo di Vertova sul reddito garantito ha messo i piedi nel piatto di una discussione dove troppe cose vengono date per scontate. Gli interventi di Fumagalli e Lucarelli (FL) e di Morini ribadiscono le approssimazioni che Vertova aveva disperso.
FL ragionano così:
i) nel postfordismo dei paesi avanzati l’economia si terziarizza e l’occupazione è creata fuori dalla grande impresa manifatturiera;
ii) a ciò corrisponde una immediata produttività del tempo di vita e delle relazioni nel territorio;
iii) il capitale si appropria gratuitamente della più elevata ricchezza sociale;
iv) il tempo di vita deve invece essere remunerato (reddito), integrando la retribuzione da salario;
v) si tratta di una regolazione istituzionale che rende stabile il postfordismo, come la crescita del salario in proporzione della produttività (fisica) stabilizzava il fordismo;
vi) il basic income (BI), cumulabile e incondizionato, non solo aumenta la produttività sociale, ma ne ridistribuisce i frutti e fa crescere la domanda;
vii) è un compromesso tra capitale e lavoro, realistico (avvicina per passi al reddito di esistenza) e incompatibile (se elevato, il BI non è un mero sostituto dei sussidi di disoccupazione).
Tuttavia la maggiore ricchezza relazionale e cognitiva attiene al lavoro concreto, non al lavoro astratto. La sequenza per cui è il comando tecnologico e organizzativo sul lavoro vivo a creare neovalore vale ovunque e sempre nel capitalismo. Inoltre la crescita postbellica si deve alla domanda autonoma (spesa pubblica elevata, investimenti privati, esportazioni) in un contesto internazionale di capitalismo da guerra fredda irripetibile. Non, contrariamente al mito fordista, ai salari, che sono stati trascinati. Quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato. In contrasto con la visione di FL, il lavoro nel terziario è in gran parte legato al manifatturiero: l’economia della conoscenza si nutre di lavori “materiali”.
Eppure è senz’altro vero che il capitalismo è cambiato radicalmente:
i) una ‘centralizzazione’ finanziaria e produttiva gigantesca senza ‘concentrazione’ di lavoratori in grandi imprese, con riduzione della dimensione minima d’impresa;
ii) la dicotomia centro-periferia è saltata, il centro è anche dentro la Cina, la periferia è anche dentro la Germania;
iii) la forza-lavoro mondiale è raddoppiata in 15 anni; iv) il lavoro è sussunto alla finanza;
v) il consumo è sostenuto dalla politica monetaria e dall’indebitamento;
vi) è mutata la natura della prestazione lavorativa. Il lavoro precario è ‘continuo’ ma senza ‘posto fisso’; quello a tempo indeterminato è sempre più incerto e aggredito: un avvicinamento oggettivo delle due figure.
Intanto, il problema della realizzazione il nuovo capitalismo lo ha risolto senza BI. L’instabilità e insostenibilità dei nuovi processi di creazione di neovalore, che non sono ‘spontanei’, non consentono una ridistribuzione egualitaria.
Il BI non aumenta di per sé né ricchezza né valore. Ragionare altrimenti cancella un po’ di cose. E’ la domanda di lavoro a determinare la qualità dell’offerta di lavoro. La formazione diffonde oggi non cultura ma analfabetismo di ritorno. Solo la gestione politica della domanda (autonoma) traduce in realtà aumenti potenziali di produttività. FL rispondono che il lavoro è già frammentato, quasi Vertova sostenesse che il BI sia la causa della precarietà: ma Vertova spiega la precarietà come noi, e FL non sanno che al peggio non c’è mai fine. Il loro fine è il reddito di esistenza: intanto, ‘realisticamente’, si accontentano di un sussidio ai precari.
Di buone intenzioni è lastricata la via per l’inferno: il BI costituisce la sponda di politiche social-liberiste di aggressione a tutto il lavoro, dividendolo. FL prendono Vertova per una neoclassica per cui il BI creerebbe disoccupazione mettendo un pavimento rigido a salari o redditi. Vertova ha in testa, crediamo, una impostazione marx-kaleckiana. Il BI, se ‘realistico’, è più basso del salario, e crea un margine di flessibilità nel costo del lavoro. L’impresa assume pagando di meno, il lavoratore otterrà inizialmente lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Proprio perché oggi la realtà capitalistica si fonda sulla possibilità di chiusure e di precarizzazione, con il BI come “pavimento” il salario potrà essere ridotto sempre di più. Quando il salario si avvicina al BI, i governi abbasseranno, dove esiste, il salario minimo. Una dinamica che è più pronunciata in una società di servizi. Si crea una massa amorfa di persone che sopravvivono, frana la capacità contrattuale di tutti i lavoratori, i redditi manageriali schizzano verso l’alto. Tendenze già in atto da tempo in vari paesi.
FL ragionano come se il BI dia accesso di per sé ai beni e alla scelta del lavoro. Ma è chi comanda finanza e domanda autonoma che definisce livello e composizione della produzione, consumo reale, quantità e qualità del lavoro. Perché non partire dalla constatazione che l’esigenza è quella di stabilizzare il posto di lavoro, trasformando il precariato in lavori a tempo indeterminato, dando sicurezza dentro il lavoro dipendente? Saggiamente Masi ricorda una verità elementare. Come collettività possiamo ridistribuire solo la produzione corrente. Quest’ultima, aggiungiamo, sarà tanto più elevata quanto più alta è, oggi e nel passato, l’occupazione, e l’occupazione stabile; e quanto più alta è, oggi e nel passato, qualità e quantità dei mezzi di produzione. Senza gestione politica della domanda e senza conflitto sociale nella produzione sussidi come il BI sono acqua fresca, perché domanda e produttività non aumentano per magia.
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Reddito e salario: si parte dal lavoro e dal conflitto
Giovanna Vertova
15 agosto
Una mia critica al basic income ha dato vita ad una accesa discussione su tre questioni-chiave: le novità del capitalismo contemporaneo; il lavoro cognitivo; la centralità della lotta dentro e contro il capitale.
Le posizioni di Fumagalli/Lucarelli, da un lato, e Bellofiore/Halevi e chi scrive, dall’altro, sono alternative. Per Fumagalli la vita produce ricchezza e valore: unico problema, la redistribuzione. Il capitalismo contemporaneo è accettato così com’è. Non un riferimento all’instabilità dei nuovi processi di valorizzazione, alle metamorfosi monetarie, ai conflitti geo-politici, all’insostenibile dinamica macroeconomica, alla nuova politica economica, quasi fossero irrilevanti.
Fumagalli e Lucarelli, contraddittoriamente, vogliono essere realisti (un reddito di esistenza universale “può essere raggiunto solo gradualmente a partire da chi si trova nella condizione più sfavorevole di intermittenza di reddito o con lavori magari continuativi ma sottopagati”) e incompatibili (il basic income deve essere elevato).
La debolezza attuale fa elargire il basic income soltanto ad alcuni lavoratori, crea diritti differenziali, apre al ribasso del salario su cui ho insistito.
Il desiderio fa sognare che quella debolezza mascheri una forza tale da infrangere le compatibilità strette del capitalismo flessibile. La fantasia secondo cui la vita è “produttiva”, sicché si retribuisce qualcosa di già dato, dovrebbe eliminare la contraddizione.
Fumagalli e Lucarelli ragionano come se fossimo di fronte ad una appropriazione meramente politica da parte del capitale di una produttività che “naturalmente” spetta al solo lavoro sociale, e l’unico compito politico è riappropriarsi di quanto è già nostro. Peccato che, così come non esiste il capitale senza il comando sul lavoro, non esiste “produttività”‘ del lavoro fuori dall’inclusione nel capitale. Questo è il capitalismo: una classe decide cosa, come, quanto produrre; un’altra deve necessariamente vendere la propria forza-lavoro, “materiale” o “immateriale” che sia il lavoro erogato.
L’antagonismo è possibile, ma ha come centro la produzione. Ciò non contrasta con l’introduzione di ammortizzatori sociali contro la precarietà, su un asse diverso da quello del basic income, per la indisponibilità della forza-lavoro a far dipendere la propria esistenza dalle convenienze del capitale. La divisione tra economisti è, dunque, tra chi ritiene che si debba guardare in faccia il capitalismo di oggi così com’è, e chi preferisce rivolgersi al mondo dei sogni.
Morini e Tajani si tengono al concreto. Peccato che ci diano una immagine discutibile della realtà del lavoro, con lo scivolamento discorsivo per cui l’analisi della precarietà (fenomeno che, in vario grado, investe tutti i lavoratori) si concentra solo sui lavoratori della conoscenza, per una loro presunta centralità empiricamente contestabile. Anche nel terziario la gran parte delle assunzioni è in lavori a bassa qualifica e basso salario. Nello stesso lavoro cognitivo la taylorizzazione procede spedita, e così i modi più o meno sofisticati di controllare e misurare il tempo di lavoro. La fine della teoria del valore per la presunta non misurabilità del lavoro affascina i teorici post-operaisti: non sarebbe male che la notizia arrivasse ai padroni che sembrano esserne all’oscuro.
Anche Morini e Tajani si contraddicono: il lavoro cognitivo è alienante e ripetitivo, ma creativo. Il ragionamento è noto. Lo strumento di produzione è oggi la testa, non il braccio: dunque lavoro e vita si confondono. La natura totalizzante del capitale può essere così rovesciata. Il lavoro immateriale è oppresso, ma possessore della conoscenza e delle condizioni di comunicazione/coordinazione.
L’intervento di Freschi è prezioso perché ricorda che il mondo del lavoro è eterogeneo. Ridurre forzatamente all’unità un mondo plurale nega l’esigenza della riunificazione tra soggetti del lavoro differenti e con pari dignità, e sostituisce astrazioni vuote all’inchiesta concreta. Dentro il lavoro cognitivo è paradigmatico il caso del ricercatore precario. Le sue competenze sono sempre più riproducibili, codificabili, valorizzate selettivamente in processi organizzativi e regolativi segnati da rapporti di potere. Chi non crede ad una taylorizzazione spinta della conoscenza, dove si misura ciò che si pretende senza misura, dia una occhiata alle nostre università. Non ci si può attendere un cambiamento dalla mera garanzia del reddito, ma solo da una azione che sappia entrare nelle relazioni di lavoro per contestarne le asimmetrie di potere.
Sacchetto-Tomba e Gambino-Raimondi toccano il nodo centrale. Individuando, i primi, lo sfondo categoriale dietro il basic income. Un paradigma a stadi per cui dall’estrazione di plusvalore assoluto, tipico del primo capitalismo e oggi della periferia, si passa all’estrazione di plusvalore relativo nel capitalismo attuale. Ciò taglia fuori quattro quinti del pianeta, e cancella (come notano Bellofiore e Halevi) due cose.
Primo: la periferia è ormai dentro il centro (e viceversa), anche qui da noi. Secondo: il capitalismo ipertecnologico e il lavoro cognitivo si nutrono di plusvalore assoluto e di lavoro materiale, nei
vari angoli del pianeta.
Il nuovo capitalismo si gioca sul controllo dei tempi e sull’incremento dell’intensità di lavoro, attraverso il progresso tecnologico, la diffusione spaziale e la frantumazione del lavoro. A ragione Gambino e Raimondi mettono in risalto la natura transnazionale del problema e le condizioni materiali del lavoro “migrante”.
E’ vero: mi sarà contrapposta la dialettica tra “ottimisti” e “pessimisti”. Ma la chiarezza su come stanno le cose è il nostro primo dovere. Mi preoccupa la progressiva discesa nell’idealismo. Ancor di più tra gli economisti della sinistra radicale. Sul debito pubblico, sul conflitto distributivo, ora sulla precarietà, non si parte dal rapporto capitale-lavoro, dalla composizione di classe, dall’inchiesta, ma dalle buone intenzioni. Io rimango testardamente convinta che è dalle lotte nel lavoro, e contro questo lavoro, che si deve ripartire.
Da Contropiano.org