Giulio Palermo | Cenni di storia del pensiero economico (da Dispense di Economia Politica)
da Dispense di Economia Politica
1. Cenni di storia del pensiero economico
[Bibliografia di riferimento: Roncaglia, paragrafi 1-7]
LA NASCITA DELL’ECONOMIA POLITICA CLASSICA
Il termine “economia politica” viene dal greco: oîkos = casa, nómos = legge, pólis sono le città stato dell’antica Grecia.
La nascita dell’economia politica come scienza autonoma si deve, secondo alcuni storici del pensiero economico, a William Petty, nel XVII secolo: il suo obiettivo è di descrivere, non di giudicare, il funzionamento della società, misurando i fenomeni economici e individuando “leggi economiche”, cioè relazioni sistematiche tra i diversi aspetti della realtà economica che operano indipendentemente dalla volontà dei soggetti economici. Petty usa i termini di aritmetica politica o anatomia politica.
Molti storici individuano nello scozzese Adam Smith (XVIII secolo), più che in Petty, la nascita dell’economia politica classica. Nella rappresentazione di Smith, la società è divisa in tre classi sociali: capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori. Il reddito nazionale, cioè il valore di quello che viene prodotto in un anno nell’economia, si distribuisce tra le tre classi sociali sotto forma di profitti, rendite e salari. Secondo Smith, i rapporti tra classi sociali non sono conflittuali, ma armonici. Il mercato è lo strumento che permette di conciliare il perseguimento dell’interesse personale con la desiderabilità sociale.
Secondo l’economista inglese David Ricardo (tra il XVIII e il XIX secolo) il compito principale dell’economia politica è lo studio delle leggi che regolano la distribuzione del reddito tra le classi sociali. A differenza di Smith, Ricardo considera i rapporti tra classi sociali come necessariamente conflittuali e, nello scontro capitalisti – proprietari terrieri, prende posizione in difesa dei capitalisti.
Marx (XIX secolo) sviluppa la visione conflittuale della società, schierandosi apertamente dal lato dei lavoratori. La sua critica riguarda non solo il capitalismo, ma anche la rappresentazione che ne fornisce l’economia politica borghese. Oltre a cercare di spiegare i meccanismi di funzionamento del sistema economico, Marx cerca di spiegare anche le ragioni per cui gli economisti tendono a rappresentarlo sposando il punto di vista delle classi dominanti.
In generale, secondo la definizione degli economisti classici, l’economia politica è una scienza sociale che studia le caratteristiche di un sistema sociale dal punto di vista della produzione, distribuzione e impiego del reddito.
LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA E LA MICROECONOMIA
[Bibliografia di riferimento: Cassetti, capitolo 5]
Nel 1870, compaiono tre testi di autori di diverse nazionalità, Léon Walras, Stanley William Jevons (fondatori della scuola neoclassica) e Carl Menger (fondatore della scuola austriaca) che diventano rapidamente i nuovi riferimenti teorici in materia economica, soppiantando gli approcci ricardiano e marxiano, allora assai diffusi.
Il cambiamento radicale a livello teorico e metodologico rispetto all’approccio classico e marxiano porta a definire questa svolta teorica come una rivoluzione scientifica: la “rivoluzione marginalista”.
Il termine “marginalista” fa riferimento all’uso del calcolo differenziale come metodo universale di analisi delle questioni economiche. Secondo un importante economista e storico del pensiero economico, Joseph Schumpeter, ciò che accomuna la scuola neoclassica e quella austriaca è il rifiuto dell’approccio classico e marxiano basato sulla teoria oggettiva del valore e la proposta di una teoria del valore di tipo soggettivo. L’uso del calcolo differenziale è invece sviluppato unicamente dalla scuola neoclassica, dato che la scuola austriaca mantiene una posizione critica nei confronti del formalismo matematico. Da questo punto di vista sarebbe più corretto parlare di “rivoluzione soggettivista”, piuttosto che “marginalista”.
L’approccio marginalista-soggettivista si basa su due aspetti fondamentali: (1) l’utilità soggettiva come fondamento della teoria del valore; (2) l’ipotesi che i soli soggetti economici rilevanti siano gli individui, il che significa che tutte le proposizioni economiche devono essere costruite a partire da postulati riguardanti le regole di comportamento individuali (non c’è posto per soggetti aggregati quali le classi sociali, centrali nell’impostazione classica).
Rispetto all’impostazione classica, basata sul concetto di classi sociali (e, in particolare nelle teorie di Ricardo e di Marx in cui tale rapporto è di natura conflittuale), la scuola marginalista implica un cambiamento radicale di prospettiva in cui apparentemente non esiste alcun conflitto di interessi, ma un comune interesse allo scambio da parte di tutti gli individui. L’obiettivo economico per eccellenza diventa la soddisfazione del consumatore (dato il suo potere d’acquisto). L’individuo conta quindi innanzi tutto in quanto consumatore e non, come ad esempio nella teoria marxista, in quanto lavoratore. Secondo questa impostazione, un sistema economico che funziona bene è un sistema in cui gli individui che hanno soldi per comprare trovano sul mercato i beni che essi desiderano. Il fatto che altri individui possono non avere mezzi per esprimere sul mercato i propri bisogni non incide sulla valutazione del buon funzionamento del sistema.
Le ragioni dell’affermazione dell’approccio marginalista-soggettivista possono essere ricondotte, da una parte, ai problemi interni incontrati dalle teorie ricardiana e marxiana e, dall’altra, alle implicazioni politiche di queste teorie (in particolare di quella di Marx), le quali evidenziano gli aspetti conflittuali dei rapporti economici e politici del capitalismo con importanti implicazioni rivoluzionarie. Di fatto nel decennio 1870-80 diversi paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia) e gli Stati Uniti sono attraversati da moti rivoluzionari, seguiti da violente repressioni. In questo clima, gli ambienti accademici e borghesi accettano con favore la nuova impostazione basata su un rifiuto netto della teoria oggettiva del valore e i concetti ad essa legati di sfruttamento, e lotta di classe. Come nota Maurice Dobb, dei tre economisti protagonisti della “rivoluzione soggettivista”, solo Jevons è pienamente cosciente della portata politica del nuovo approccio.
Secondo una celebre definizione della scuola marginalista, l’economia è la scienza che studia la condotta umana come relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi (Lionel Robbins). Mentre i desideri umani sono illimitati, le risorse disponibili per soddisfare tali desideri sono limitate. Tutti i problemi economici sono problemi di scarsità. L’economia si occupa di stabilire il modo migliore per ottenere un certo scopo utilizzando le risorse scarse a disposizione.
Con questa definizione, l’economia perde il suo carattere di scienza essenzialmente storica (nel senso che le diverse forme di organizzazione economica nei diversi contesti storici funzionano secondo principi e meccanismi diversi) per diventare, o almeno pretendere di diventare, una scienza universale valida, al pari delle scienze esatte quali la matematica o la fisica.
Un tipico esempio di questo approccio economico è il problema del consumatore che dispone di un certo reddito e deve decidere come impiegarlo per soddisfare al meglio i suoi bisogni e le sue preferenze. Un altro esempio è il problema del produttore che deve decidere cosa e quanto produrre, che tecnica produttiva utilizzare nella ricerca del massimo profitto, utilizzando un certo capitale iniziale.
LA RIVOLUZIONE KEYNESIANA E LA MACROECONOMIA
Dal 1870 agli anni ’20, il dibattito economico è caratterizzato da una certa tranquillità che vede il consolidarsi della teoria neoclassica come scuola di pensiero dominante.
I problemi economici degli anni ’20 –la deflazione, la caduta salariale, la disoccupazione e la crisi economica, accentuatasi tra il 1929 e il 1932– producono forti polemiche teoriche che portano all’affermazione della teoria di John Maynard Keynes.
Dal punto di vista teorico, la rivoluzione keynesiana non può essere posta sullo stesso piano di quella marginalista. Essa infatti non si basa su un cambiamento profondo della struttura concettuale della teoria dominante, quanto piuttosto sulla proposta di un diverso modo di gestire i problemi economici del tempo. La teoria di Keynes non si oppone alla teoria del valore e della distribuzione allora in vigore (quella neoclassica-marginalista); anzi si muove al suo interno, contestandone tuttavia un aspetto fondamentale: l’assunto del pieno impiego delle risorse produttive (in particolare, del pieno impiego della forza lavoro disponibile). NB: nel linguaggio dell’economia ortodossa (non marxiana), la forza lavoro è l’offerta di lavoro, cioè la popolazione in età lavorativa occupata o in cerca di occupazione.
Sebbene la teoria neoclassica riconosca la possibilità di attriti che impediscano il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego, si suppone comunque che il sistema tenda verso di esso. L’implicazione di politica economica è che periodi prolungati di disoccupazione non possono che dipendere da un livello troppo alto dei salari rispetto al livello d’equilibrio di piena occupazione.
Keynes contesta questa proposizione sostenendo che non esistono tendenze necessarie a muovere il sistema dei prezzi verso l’equilibrio di piena occupazione e che l’equilibrio può invece fissarsi a qualsiasi livello di produzione e di occupazione.
Rispetto all’approccio neoclassico basato sull’analisi del comportamento dei singoli soggetti economici come premessa indispensabile per discutere tutti i fenomeni economici, Keynes sposta l’accento sull’analisi di variabili aggregate quali il consumo, l’occupazione e il reddito nazionale. In questo senso la teoria keynesiana costituisce il fondamento di quella che in termini moderni si chiama macroeconomia, contrapponendosi alla teoria neoclassica che mantiene un approccio di tipo microeconomico.
La teoria keynesiana si afferma soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con politiche di forte intervento pubblico nella maggior parte dei paesi occidentali. Anche a livello accademico, si delinea così una separazione tra due filoni di ricerca: la microeconomia e la macroeconomia. In realtà la distinzione indica soprattutto che ci troviamo di fronte a due approcci diversi alla scienza economica, l’approccio marginalista e quello keynesiano. I moderni libri di testo li presentano come complementari, ma in realtà essi nascono e si sviluppano come antagonistici.
LE “LEGGI ECONOMICHE” NELLE DIVERSE IMPOSTAZIONI METODOLOGICHE
Una fondamentale differenza tra l’approccio classico e quello marginalista riguarda il metodo d’analisi.
Secondo la scuola classica, la società si modifica nel tempo ed è perciò naturale studiare società diverse nello spazio e nel tempo secondo teorie diverse. Le leggi economiche che l’economia politica cerca cambiano infatti anch’esse nelle diverse forme sociali (o, secondo la terminologia di Marx, che è l’economista che più ha insistito sul carattere storico delle diverse forme di organizzazione della società, modi di produzione). Le leggi di funzionamento della società schiavistica sono diverse da quelle della società feudale, da quelle della società capitalista e da quelle della società socialista.
Secondo l’approccio marginalista invece, anche se le forme sociali cambiano nel tempo, il problema economico di fondo rimane sempre lo stesso in ogni società e in ogni epoca: come utilizzare nel migliore dei modi le risorse a propria disposizione. Si tratta evidentemente di domande diverse che vengono sollevate dai due approcci, ognuna delle quali porta ad assumere determinate ipotesi come punto di partenza dell’analisi. Come vedremo, nella teoria marginalista si insiste sul ruolo delle preferenze individuali, le quali determinano i criteri di scelta all’interno di un ventaglio di opzioni disponibili. Questo porta ad assumere sia le preferenze, sia il set di scelte a disposizione di ciascun soggetto come un dato da cui partire, non come fenomeni da spiegare.
Il fatto che i diversi approcci teorici si pongano domande diverse rende difficile parlare di progresso teorico come nelle altre scienze.
IDEOLOGIA E TEORIA ECONOMICA
Parallelamente all’affermazione dell’approccio marginalista si sviluppa la convinzione che la teoria economica debba essere estranea ad ogni tipo di giudizio di valore. Questo porta alla distinzione netta tra “economia positiva” ed “economia normativa”: la prima produce analisi descrittive (di ciò che è), mentre la seconda produce analisi prescrittive (di ciò che dovrebbe essere secondo particolari posizioni etiche).
Secondo questa impostazione, solo a livello normativo è necessario introdurre giudizi di valore, mentre nell’analisi positiva la teoria non riflette altro che giudizi di fatto.
Questa distinzione ha dato luogo ad un lungo dibattito nel quale si è evidenziato come la stessa economia positiva, non possa considerarsi estranea alla visione ideologica e ai giudizi di valore dell’economista. Come sostiene l’economista svedese Gunnar Myrdal, premio Nobel nel 1974, l’oggettività nella ricerca sociale non può mai essere assoluta e universale poiché necessariamente riflette, se non altro nella definizione del problema da analizzare e nella scelta degli strumenti d’analisi (ma a volte anche nelle conclusioni teoriche), le convinzioni e i valori del teorico, i quali non possono considerarsi al di sopra delle parti.
Le categorie analitiche di qualsiasi teoria positiva riflettono necessariamente una particolare visione del mondo. Non è possibile immaginare una teoria economica che sia indipendente da una particolare visione del mondo poiché l’economista è egli stesso parte della società che studia e la posizione che egli ricopre nella società influisce necessariamente sul suo modo di vedere le cose, di individuare i problemi economici e di definire le priorità della ricerca teorica.
L’oggettività nella ricerca sociale non può mai essere assoluta e universale poiché necessariamente riflette, se non altro nella definizione del problema da analizzare e nella scelta degli strumenti d’analisi (ma a volte anche nelle conclusioni teoriche), le convinzioni e i valori del teorico, i quali, in un mondo fatto di interessi contrastanti, non possono in alcun modo considerarsi al di sopra delle parti.
Spesso, tuttavia, la visione (di parte) delle teorie economiche è presentata dai loro sostenitori come se fosse invece super partes, cioè come se si trattasse di un punto di vista neutrale, unanimemente condivisibile, ispirato al semplice perseguimento del bene comune. Il problema è che, il bene comune, ammesso che esista in una società fatta di interessi contrastanti quale è il capitalismo, non è facilmente identificabile.
Da un punto di vista marxista, la teoria economica borghese non è affatto neutrale ma riflette semplicemente la visione, le aspirazioni e le preoccupazioni della classe dominante del capitalismo: la borghesia. Il motivo per cui le proposizioni della teoria borghese appaiono neutrali sul piano dei valori è che implicitamente la teoria prende per dato il sistema capitalista e sposa il punto di vista della sua classe dominante.
Secondo Marx ed Engels la storia dei rapporti economici è storia di lotta di classe e, così come la società evolve secondo gli interessi contrastanti delle diverse classi sociali, la morale stessa è sempre una morale di classe. Chiaramente, secondo l’approccio marxista, è la classe dominante che ha interesse a presentare la propria morale come eterna e universale ed è sempre la classe dominante che ha interesse a rivendicare la neutralità della propria visione dei rapporti economici sostenendo che la (propria) teoria si fonda sul principio del bene comune.