Antiper | Note di lettura a José Saramago, La caverna
Antiper | Note di lettura a Jose Saramago, La caverna, Einaudi | A4, PDF
“Strana immagine è la tua – disse – e strani sono quei prigionieri”.
“Somigliano a noi – risposi” [1].
È questa una delle citazioni più rappresentative de La Caverna, il libro con il quale il grande scrittore e drammaturgo portoghese Josè Saramago rivisita il mito platonico della Caverna in chiave moderna, attualizzandone la forma e le categorie di riferimento. L’antro, nel romanzo, assume i caratteri del Centro, costruzione infinita e maligna in continua espansione che tende ad sussumere sotto di sé ogni cosa, in un continuo accrescimento il cui fine è l’accrescimento stesso.
Non è difficile scorgere dietro queste caratteristiche la critica radicale che Saramago rivolge al capitalismo, al consumismo e alla globalizzazione.
La Caverna è la storia di una lotta: in particolare, della lotta tra un mondo che tramonta ed un mondo che è già sorto e che avanza, inarrestabile. Cipriano Algor e la sua famiglia, la sua fornace, il suo vasellame, le sue statuine… sono il mondo che tramonta, un mondo artigiano, “fatto con le mani”, non in serie; il mondo che viene avanti è quello del Centro e della sua logica di mercificazione totale.
Sono sempre i personaggi, e soprattutto Cipriano, a parlare; ma è il Centro il vero protagonista della storia. E dunque, partiamo dal Centro che è, evidentemente, una metafora. Ma la metafora di cosa? Del capitalismo, della sua spietata logica di ‘mercato’ in cui tutto ciò che non sta sul mercato deve morire, non importa quanto sia bello o quanta fatica sia costato. È il mercato che decide della vita delle cose (e delle persone, suggerisce Saramago).
Il Centro è la metafora della sottomissione di ogni ambito della vita, della distruzione delle forme artigianali di produzione, della sottomissione completa dell’uomo che finisce per godersi la spiaggia dentro il Centro quando avrebbe potuto godersela fuori (il che si potrebbe leggere, fuor di metafora, come il passaggio dal godimento libero e gratuito delle ricchezze naturali alla loro privatizzazione e compravendita; o anche il passaggio dalla realtà alla sua rappresentazione).
Il Centro sembra dotato di vita propria e indifferente alla sorte delle persone che vi abitano e lavorano. “Sceglie” e “agisce” secondo logiche che sembrano totalmente disumanizzate e puramente funzionali. E anche in questo è possibile riscontrare un’eco della riflessione filosofica che ha attraversato tutto il Novecento: Heidegger e, soprattutto, la Scuola di Francoforte, Althusser, Anders…
Una riflessione sull’uomo che ha perso il timone della storia, sostituito da apparati economico-finanziari chiamati eufemisticamente tecnici. La ragione, che doveva “illuministicamente” liberare l’uomo dall’ignoranza, consegnandogli un futuro di benessere e di felicità, si è trasformata in “razionalità calcolante” capitalistica e in strumento di controllo della vita e di assoggettamento di ogni forma di pensiero.
Il Centro – ovvero la logica del profitto, la “razionalità calcolante” del capitale – detta legge sugli uomini espellendo tutto ciò che non è “utile” nel mondo della globalizzazione capitalistica. Ed infatti, il libro inzia proprio con la comunicazione al protagonista – Cipriano Algor – che la sua collaborazione con il Centro è terminata e che esso non acquisterà più il vasellame artigianale di sua produzione.
Quando, più avanti nel libro, si proporrà la possibilità della vendita delle statuine e la cosa non andrà in porto, non sarà perché qualcuno nel Centro ha deciso che così non sia, ma perché è il Centro stesso a deciderlo, attraverso il “sondaggio” mediante il quale Saramago sembra dire: è il mercato che decide ciò che può e ciò che non può stare sul mercato stesso, non le persone. E se il mercato decide che una cosa non funziona, questa cosa deve essere espulsa, qualsiasi sia il cuore con cui è stata costruita.
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Saramago riesce, con grande maestria, ad intrecciare questo sfondo filosofico e politico con riferimenti più o meno palesi al pensiero platonico perché, in fondo, La caverna è anche un omaggio al grande filosofo greco.
Il nome del protagonista – Algor (che significa “freddo”) -, ad esempio, sembra un riferimento all’idea greca del corpo umano, troppo caldo, che porterebbe l’uomo alla morte se non intervenisse l’anima a raffreddarlo e a consentirne il proseguimento in vita. E il nome del genero, Gacho, che è il nome del giogo appoggiato sul collo del bue che traina l’aratro nei campi, può essere visto come la catena che trattiene i prigionieri dentro l’antro platonico (e infatti Gacho è il personaggio del libro che con maggiore difficoltà si distacca dal Centro continuando per lungo tempo ad illudersi della sua funzione positiva). Questi semplici nomi creano un doppio rapporto tra le due persone e il “Centro” poichè, pur essendo entrambi dipendenti del e dal Centro, il vasaio lo sfida mentre il genero ne rimane indubbiamente più legato. Il mestiere di Algor – artigiano vasaio – allude abbastanza esplicitamente al mito del Demiurgo contenuto nel Timeo [2]. Come è noto, il Dio artigiano modella il mondo a partire dalla “Chora”, materia caotica e informe prendendo a modello le “idee” platoniche. Saramago parla dell’atto divino di modellare o dare “forma” alle statuine a partire dalla materia informe – la “chora” del Timeo o la polvere della Genesi [3].
“Si narra che anticamente ci fu un dio che decise di modellare un uomo con l’argilla della terra che prima aveva creato, e subito dopo, perché avesse respiro e vita, gli soffiò nelle narici. Alcuni spiriti contumaci e negativi insegnano a denti stretti, quando non osano proclamarlo ai quattro venti, che, dopo quell’atto creativo supremo, il famoso dio non tornò mai più a dedicarsi alle arti della ceramica, una maniera contorta di denunciarlo per avere, semplicemente, smesso di lavorare. La questione, per la trascendenza di cui si riveste, è troppo seria per essere trattata semplicisticamente, richiede ponderazione, molta imparzialità, molto spirito obiettivo. È un fatto storico che il lavoro di modellatura, a partire da quel memorabile giorno, non è più stato un attributo esclusivo del creatore per passare alla competenza incipiente delle creature, le quali, inutile dirlo, non sono attrezzate di sufficiente soffio ventilatore. Il risultato è che si è demandata al fuoco la responsabilità di tutte le operazioni sussidiarie capaci di dare, tanto per il colore come per la brillantezza, e addirittura per il suono, una ragionevole somiglianza di cosa viva a quanto uscisse dai forni. Sarebbe un giudicare dalle apparenze. Il fuoco fa molto, e questo nessuno lo nega, ma non può fare tutto, ha serie limitazioni, e persino qualche grave difetto, come sarebbe, per esempio, l’insaziabile bulimia di cui soffre e che lo porta a divorare e ridurre in cenere tutto quanto si trova davanti”.
E qui Saramago sembra rimproverare un eccessiva attenzione all’esteriorità delle creature, alla loro apparenza – prodotta soprattutto dal fuoco – rispetto alla loro anima insufflata, alla loro essenza.
“Tornando, però, al tema che ci occupa, alla fornace e al suo funzionamento, sappiamo tutti che la creta umida infilata nel forno è creta crepata in men che non si dica. Una prima e irrevocabile condizione la stabilisce il fuoco, se vogliamo che faccia ciò che da lui ci aspettiamo, ed è che la creta entri nel forno essiccata, e ben essiccata. Ed è qui che umilmente torniamo al soffio nelle narici, è qui che dovremo riconoscere fino a qual punto eravamo stati ingiusti e imprudenti quando abbiamo delineato e fatta nostra l’empia idea che il tale dio avrebbe voltato le spalle, indifferente, alla sua stessa opera. Sì, è vero, dopo di ciò nessuno lo ha più rivisto, ma ci ha lasciato quello che forse era il meglio di se stesso, il soffio, il venticello, l’arietta, la brezza, lo zefiro, quelli che già stanno entrando dolcemente nelle narici delle sei statuine di creta che Cipriano Algor e la figlia hanno appena collocato, con ogni cura, sopra una delle assi a essiccare. Uno scrittore, insomma, non solo vasaio, il suddetto dio sa anche scrivere bene su righe torte, non essendo presente per soffiare personalmente, ha fatto fare il lavoro per suo conto, e tutto affinché la vita ancora fragile di queste terrecotte non debba finire per estinguersi domani nel cieco e brutale abbraccio del fuoco.” [4]
Il tema del soffio vitale ritorna ancora più esplicitamente più avanti. Come il Dio instilla la vita nel genere umano attraverso il soffio, così il vasaio, nel fare lo stesso gesto, si avvicina in certo qual modo ad esso:
“A mano a mano che la pala si avvicinava al fondo della fossa, le ceneri si facevano più calde, ma non tanto da bruciare, erano semplicemente tiepide, come pelle umana, e altrettanto soffici e soavi. Cipriano Algor mise da parte la pala e affondò le due mani nelle ceneri. Sfiorò la sottile e inconfondibile asperità delle terrecotte. Allora, come se stesse aiutando qualcuno a nascere, afferrò tra il pollice, l’indice e il medio la testa ancora occulta di una statuina e tirò verso l’alto. Per caso era l’infermiera. Ne scosse le ceneri dal corpo, le soffiò sul viso, sembrava le stesse dando una specie di vita, che le stesse passando il fiato dei propri polmoni, il pulsare del proprio cuore. Poi, a una a una, anche le altre statuine, l’assiro con la barba, il mandarino, il buffone, l’eschimese, il pagliaccio, furono tirate fuori dalla fossa e messe accanto all’infermiera, più o meno ripulite dalle ceneri, ma senza il beneficio supplementare del soffio vitale. Non c’era nessuno presente per domandare al vasaio i motivi della diversità di trattamento, determinati, a prima vista, dalla differenza di sesso, a meno che l’intervento demiurgico sia risultato semplicemente dal fatto che l’infermiera era stata la prima a uscire dalla buca, succede sempre così, da che mondo è mondo, che della creazione si stanchino i creatori nel momento in cui non sia più una novità.” [5]
Le sei statuine-modello sono la copia dei disegni nei libri (che a loro volta sono la copia di oggetti materiali o espressione della fantasia del loro autore ovvero forma materiale di un qualcosa che non esiste ‘materialmente’). Le duecento statuine che seguiranno per ciascun modello saranno copie della copia. Ancora un riferimento alle “copie delle copie” criticate da Socrate ne La Repubblica.
Note
[1] Platone, Repubblica, Libro VII
[2] Nell’antica Grecia il termine demiurgo si riferiva anche ai lavoratori liberi, coloro che vivevano liberamente dei frutti del loro lavoro
[3] Cfr. Genesi 2,4b-9; 19: “[4b] Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, [5] nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra [6] e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo – ; [7] allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”
[4] Jose Saramago, La caverna
[5] Jose Saramago, La caverna