Ernesto Screpanti | Uscire dalla crisi, ma come?
È in libreria per le Edizioni Alegre un’opera collettanea dal titolo ambizioso: “Come si esce dalla crisi”. Senza punto interrogativo. Dunque vuole essere una risposta alla domanda che tutti ci poniamo: Come si esce dalla crisi? Però, forse turbati dall’eccesso di ambizione, gli autori ridimensionano subito le aspettative nel sottotitolo: “Per una nuova finanza pubblica e sociale”. In realtà né il titolo né il sottotitolo sono del tutto veritieri: Il primo promette troppo il secondo troppo poco.
In questo articolo non voglio fare una semplice recensione. Piuttosto proverò a sviluppare una riflessione su alcune problematiche sollevate dal libro e dare qualche suggerimento. E comincerò con l’enucleare le proposte di riforma, rielaborandole nella veste di un programma politico. Non credo di andare lontano dalla realtà se dico che questo libro presenta una bozza di programma di un’area di movimento che gravita intorno ad ATTAC.
Tuttavia non sarebbe corretto considerarlo come il programma di ATTAC, non solo perché quest’associazione non è un partito politico, ma anche perché solo alcuni degli autori del libro vi appartengono. Ciononostante, perpetrando una sineddoche che mi sembra più chiarificante che deformante, mi riferirò alla bozza di programma come se fosse ispirata alla visione politica dei compagni attacchini.
La proposta
1. Il primo punto riguarda “il non pagamento del debito, la sua ristrutturazione selettiva”, trovando tuttavia “delle forme per la tutela del micro-risparmio” (Bertorello e Corradi). Sulle modalità non si approfondisce molto. Ed è giusto, perché una ristrutturazione del debito pubblico può essere fatta in molti modi diversi, adattandosi alle circostanze di mercato prevalenti nel momento in cui si attua la politica.
Millet e Toussaint si spingono oltre, e propongono di accompagnare il default con un audit democratico che porti a identificare la parte illegittima del debito pubblico.
“In tutti i casi è legittimo che le istituzioni private e gli individui con redditi più elevati… portino il fardello dell’annullamento dei debiti sovrani”, mentre ai creditori il cui credito non è illegittimo “converrebbe imporre uno sforzo in termini di riduzione dello stock e dei tassi d’interesse, così come un allungamento del periodo di pagamento”. E solo i “piccoli portatori di titoli… dovrebbero essere normalmente rimborsati”.
In linea di principio non avrei obiezioni, se mi si spiegasse qual è il criterio di legittimità. Sembrerebbe che la legittimità sia garantita dal carattere democratico dell’audit. Il che vuol dire che si applica unteorema di Pigou: poiché la maggioranza dei cittadini non è ultraricca, la decisione democratica porta a una redistribuzione equa. Bertorello e Corradi sono abbastanza espliciti: “l’audit e la ristrutturazione del debito non sono una soluzione tecnica, ma se agiti da energie collettive possono essere la premessa necessaria per uscire dalla crisi e imboccare una nuova strada.”
Dunque “il piatto non è già pronto, ma gli ingredienti sono in campo: il rifiuto del debito, la democrazia, il primato della giustizia sociale e ambientale”.
Stando così le cose, mi permetto di avanzare un suggerimento.
Basterebbe che il governo democratico decretasse l’assicurazione di tutti i conti titoli (solo per i titoli del debito pubblico) detenuti dalle famiglie per un valore, diciamo, non superiore ai 200.000 euro; e poi annunciasse l’intenzione di ridurre drasticamente il debito. A quel punto i “mercati” e le agenzie di rating comincerebbero a lavorare per i cittadini: i titoli verrebbero declassati a spazzatura, il loro valore si ridurrebbe pesantemente e il governo potrebbe ricomprarli o rinegoziarli a prezzi di saldo. La liquidità necessaria per finanziare la manovra potrebbe essere reperita emettendo quasi moneta (BOT a brevissima scadenza con valore garantito) e imponendo alle banche un vincolo di portafoglio che le induca ad acquistarla.
2. Ciò metterebbe in difficoltà le banche, che sarebbero costrette a svendere titoli a lunga scadenza per acquistare titoli a breve privi di rendimento. Molte andrebbero sull’orlo della bancarotta. No problem, poiché il programma prevede la nazionalizzazione del sistema bancario (eccetto le casse rurali e le banche etiche). Suggerimento: anche qui ci penserebbe il mercato a risolvere il problema. Le azioni delle banche tenderebbero a zero, e il governo (con l’aiuto della Cassa Depositi e Prestiti?) potrebbe comprarle coi soldi dei cittadini e dei piccoli risparmiatori. I vecchi azionisti ci perderebbero molto. Di fatto verrebbero espropriati di gran parte del loro capitale. I cittadini non regalerebbero niente a nessuno: ogni euro speso per salvare una banca sarebbe una quota d’acquisizione di proprietà pubblica. Insomma “le banche che dovessero necessitare di interventi pubblici per il loro salvataggio, devono trasformarsi in banche pubbliche”.
3. Oltre a ciò, verrebbero messi in campo vari provvedimenti volti ad assicurare l’equità fiscale, in realtà una vasta riforma del sistema finanziario (Lovera, Baranes, Tricarico):
a. Una Financial Transaction Tax, del tipo già in discussione al parlamento europeo
b. Demercificazione di tutti i beni comuni universali e di tutti i servizi collettivi essenziali
c. Divieto di tutte le attività speculative sulle commodities e sui derivati, anche con la proibizione delle vendite allo scoperto e la regolamentazione dei mercati over the counter
d. Chiusura di tutti i paradisi fiscali
e. Lotta al riciclaggio dei capitali di provenienza illegale
f. Smembramento delle grandi concentrazioni bancarie (però mi domando: a che servirebbe smembrarle, una volta che fossero diventate pubbliche? semmai, a quel punto converrebbe concentrarle ancora di più per attivare economie di scala e per avere uno strumento centralizzato di programmazione e di sostegno alle politiche industriali e ambientali)
g. Separazione della gestione del risparmio da quella degli investimenti, tenendo conto del sia pur deludente esperimento messo in atto negli USA con la Volker rule e soprattutto puntando sul più innovativo Rapporto Liikanen
h. Proibizione delle società veicolo e progressivo azzeramento dello shadow banking, oltre alla fissazione di un limite massimo per la leva finanziaria
i. Nazionalizzazione delle banche centrali, che devono assumere anche la funzione di prestatori di ultima istanza per i governi
j. Istituzione di agenzie di rating europee
k. Aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e abbassamento delle tasse che incidono sulla riconversione ecologica e sui livelli occupazionali
l. Aumento della progressività delle imposte dirette, sul reddito e sul patrimonio, specialmente finanziario
m. Controllo dei movimenti di capitale a livello nazionale
n. Politiche fiscali espansive per rilanciare lo stato sociale e ridurre la disoccupazione; presumo si tratti di politiche di aumento della spesa pubblica, eventualmente con aumento del deficit (non sarebbe un problema, una volta ridotto il debito e nazionalizzata la banca centrale); senonché leggo che “la riduzione del deficit pubblico… può essere per esempio utilizzata per rilanciare l’attività economica e la spesa pubblica” (p.232); o è un errore di traduzione o è la lezione di Monti
4. Particolare attenzione viene riservata alla Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Vari capitoli toccano l’argomento, ma quello di Bersani lo approfondisce quanto basta per giustificarne una radicale riforma. La proprietà deve essere pubblica, anche formalmente. Non più una SpA, fosse anche a maggioranza statale, bensì un ente di diritto pubblico. La giustificazione scientifica di fondo sembra essere quella avanzata da Stiglitz per il settore bancario nel suo complesso: l’esistenza di forti asimmetrie informative che impediscono una reale tutela dei risparmiatori da parte dei gestori privati. Ma c’è di più: il governo dovrebbe territorializzare il controllo della CDP per farla usare in modo partecipativo dalle comunità locali. Potrebbe così sostenere investimenti finalizzati a:
a. Riappropriare collettivamente i beni comuni e i servizi pubblici
b. Tutelare il territorio, il patrimonio pubblico, gli edifici scolastici
c. Realizzare opere pubbliche
d. Garantire il diritto all’abitare
e. Favorire l’occupazione e la riconversione della produzione in direzione dell’economia a km zero
f. Sostenere le aziende in crisi, con priorità agli esperimenti di autogestione operaia che contrastano i processi di delocalizzazione
g. Sostenere i processi di riconversione energetica finalizzati al risparmio energetico e all’autoproduzione diffusa di energia pulita e rinnovabile
h. Sostenere i processi di riconversione del trasporto urbano ed extra-urbano in direzione di una mobilità pulita e sostenibile.
5. Un ampio capitolo (Viale) riassume i provvedimenti per la politica ambientale e propone un “nuovo paradigma” di politica industriale che realizzi:
a. La decrescita
b. La salvaguardia degli equilibri e della sostenibilità ambientali
c. La ripresa dell’occupazione soprattutto nei settori di rilevanza ecologica
d. La riqualificazione ecologica dei consumi
e. Una gestione congiunta di produzione e consumi con la partecipazione diretta delle comunità coinvolte
f. La rinuncia alle economie di scala generate dai grandi impianti per privilegiare il decentramento e la differenziazione territoriale
g. L’autoproduzione energetica da parte delle comunità locali usando un mix di fonti rinnovabili
h. Una gestione efficace dei rifiuti basata sulla raccolta differenziata, il recupero degli scarti e la prevenzione
i. La sicurezza alimentare basata sull’agricoltura biologica, la salvaguardia della biodiversità e la distribuzione a km zero
6. Per i provvedimenti di rilevanza sociale si distinguono gli interventi di Malabarba e Gesualdi, che prevedono:
a. Il sostegno pubblico alle iniziative operaie di autogestione
b. Una drastica riduzione dell’orario di lavoro senza riduzione del salario
c. Il soddisfacimento a prezzi nulli di bisogni fondamentali quali acqua, cibo, trasporti, alloggio, energia domestica, sanità, istruzione, comunicazioni
d. Lo sviluppo di un terzo settore che assicuri gli elementari servizi alla persona col lavoro volontario
e. Una sorta di tassazione del lavoro (invece che del reddito) con un servizio civile obbligatorio per tutti i giovani, in cambio del quale si otterrebbe il diritto a percepire
f. Un reddito di cittadinanza perpetuo
7. Infine c’è un tema su cui insistono un po’ tutti i capitoli: La democrazia partecipativa. Forse sarebbe stato utile dedicare un capitolo all’approfondimento del problema, perché non ci viene detto nulla su come dovrebbe essere strutturata questa democrazia: comitati locali di cittadini che decidono l’audit, i consumi, gli investimenti, i finanziamenti per le iniziative comunali? web-democrazia alla Casaleggio? democrazia referendaria? mandati elettorali imperativi con diritto di revoca? abolizione della politica professionale? Ma capisco che forse non sarebbe bastato un solo capitolo. Mi aspetto dunque che le Edizioni Alegre dedichino un prossimo impegno a questo fondamentale problema.
Ecco dunque, in estrema sintesi, la proposta presentata in questo libro per uscire dalla crisi. Forse ho trascurato qualche idea, forse ne ho travisate altre. E può darsi che gli autori si lamenteranno per il modo sbrigativo con cui ho tagliato le analisi con cui hanno cercato di giustificare le varie idee. Ma credo di aver fatto un servizio al lettore proprio con la sinteticità della mia ricostruzione. Ora voglio fargliene un altro portando alla luce vari problemi che gli autori non trattano o non trattano in modo esauriente. Non vuole essere una critica, piuttosto un contributo al chiarimento e all’approfondimento.
La gabbia dell’eurocrazia
C’è un problema politico che grava come un macigno su ogni proposta di trasformazione della società europea, e non è solo quello dell’euro, cioè di una moneta che genera divergenze dei saldi delle bilance commerciali e dei tassi di crescita e di disoccupazione tra i paesi “virtuosi” e quelli “non virtuosi”. È che la politica monetaria e la politica fiscale sono state sottratte ai governi nazionali, le politiche industriali e sociali sono considerate peccati mortali, le politiche di privatizzazione virtù teologali.
C’è qualcuno che pensa di poter realizzare anche soltanto una minima parte delle proposte di cui sopra senza rompere la gabbia eurocratica? Senonché tutti i capitoli del libro svicolano, a dir poco, su questo problema. Prendiamo Viale. Passa in rassegna tre ricette, che sono state proposte da vari riformatori, e le giudica tutte inadeguate o irrealizzabili. Condivido in gran parte le sue argomentazioni, e cercherò anzi di arricchirle con qualche considerazione personale che forse lui non condividerà.
La prima ricetta è proposta dal gruppo che potremmo definire degli euro-illusi, coloro che sperano in “un allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dall’UE e dalla BCE”, un sottoinsieme del quale gruppo è costituito dai super-illusi, coloro che sperano che la Germania si decida a fare la locomotiva dell’economia europea adottando politiche fiscali espansive che azzerino il surplus del suo conto corrente così aiutando i paesi non virtuosi ad azzerare i loro deficit.
Perché illusi? Perché le attuali classi politiche europee, di centro-destra e di centro-sinistra, sono così imbevute di ideologia neoliberista che la possibilità di quell’allentamento dell’austerità non rientra nelle loro capacità intellettuali. Perché, a parte le ideologie, quelle classi politiche sono così legate agli interessi del grande capitale, finanziario e industriale, che verrebbero sfiduciate non appena osassero solo proporre un abbandono delle politiche d’austerità finalizzato alla redistribuzione del reddito e del carico fiscale a favore delle classi subalterne. Perché il blocco capitalistico dominante in Europa, quello tedesco, non accetterà mai una politica che rilanci occupazione e salari a detrimento del suo profitto e del suo potere.
La seconda ricetta è quella proposta dai protezionisti, coloro che s’illudono di poter usare barriere tariffarie e non tariffarie per difendere l’economia nazionale dalla concorrenza sleale (dumping sociale, fiscale, ambientale, civile) dei paesi emergenti. “È ovvio che da una politica del genere, che solleverebbe le ritorsioni dei paesi colpiti dalle nuove barriere doganali, l’economia italiana, che dipende da molte importazioni irrinunciabili, avrebbe da perdere ben più che da guadagnare”. Troppo tenero è Viale con i protezionisti. Il vero problema è che buona parte delle esportazioni italiane vanno in Europa, cosicché le ritorsioni più forti verrebbero dai nostri partner europei, i quali non avrebbero da fare nulla per contrastare quel tipo di politica dell’Italia. Basterebbero gli euro-burocrati per far fioccare multe e procedure d’infrazione e autorizzare politiche ritorsive che metterebbero in ginocchio la nostra economia. Ai protezionisti si porrebbe dunque il problema dell’uscita dall’Unione. Il che ci porta ad affrontare la terza ricetta.
Quella proposta dai sovranisti, coloro che vogliono uscire dall’euro, in modo da poter svalutare la lira e recuperare sovranità monetaria e fiscale. Viale considera un’illusione anche quest’idea, ma non ci spiega perché, a parte un’osservazione sul fatto che “i costi operativi di una misura del genere adottati unilateralmente sarebbero molto alti”. In altri capitoli si tocca l’argomento e in tutti si rifiuta l’opzione sovranista, ma con argomentazioni piuttosto deboli.
Un problema, secondo Bertorello e Corradi, sarebbe che, se l’Italia svalutasse, si scatenerebbe una guerra di svalutazioni competitive. Ma questo sta già accadendo. Da più di un anno siamo in piena guerra valutaria mondiale, con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone che hanno svalutato pesantemente i loro cambi nominali, e i paesi dell’Unione Europea che continuano a deprezzare i loro tassi di cambio reali (politiche recessive alla Monti, per recuperare competitività riducendo il costo del lavoro e aumentando lo sfruttamento).
Un altro problema, sempre secondo Bertorello e Corradi, sarebbe che la svalutazione farebbe aumentare l’inflazione e diminuire i salari reali. Ma i salari reali stanno già diminuendo in Italia ed Europa proprio a causa del deprezzamento reale. Perciò i sovranisti avrebbero un argomento forte a loro favore: il deprezzamento reale fa diminuire i salari reali e l’occupazione, la svalutazione nominale fa diminuire i salari reali e la disoccupazione. Dunque se siamo in piena guerra valutaria mondiale, tanto vale combattere ad armi pari, direbbero i lavoratori… e i padroni.
I problemi dell’uscita unilaterale dall’euro sono altri.
Innanzitutto bisognerebbe mettere in conto un approfondimento della crisi dal momento in cui i mercati cominciassero a sospettare che il partito sovranista potrebbe vincere le elezioni al momento in cui verrebbe svalutata la lira: fughe di capitali e di liquidità, tesoreggiamento degli euro con sospensione dei pagamenti e riduzione della domanda aggregata, deflazione dei prezzi, aumento deglispread (a meno che il debito pubblico non sia stato già ristrutturato e la banca centrale nazionalizzata).
Questo periodo di catastrofe potrebbe essere piuttosto lungo (anche più di due anni) o molto breve. Dipende dall’abilità di Berlusconi (il probabile leader del futuro partito sovranista). In secondo luogo, l’effetto immediato della svalutazione è di aggravare il deficit del conto corrente, essendo le elasticità delle esportazioni e delle importazioni piuttosto basse nel breve periodo: le quantità esportate e importate non reagiscono prontamente alle variazioni dei prezzi relativi poiché ci vuole un po’ di tempo per modificare abitudini di consumo e tecniche produttive. In terzo luogo, dopo l’impatto negativo iniziale, la svalutazione potrebbe rilanciare le esportazioni e frenare le importazioni, contribuendo così alla ripresa della produzione, ma nell’arco di un anno o due produrrebbe una rilevante inflazione che porterebbe a ridurre le esportazioni, cosicché sarebbe necessaria una seconda svalutazione e successivamente una serie di altre svalutazioni. Senza contare che i nostri partner europei non starebbero a guardare. Come minimo si sentirebbero in dovere di mettere in atto misure ritorsive di tipo protezionistico.
Quanto all’inflazione, il governo potrebbe limitarla molto, ma non si vede perché dovrebbe farlo. Una ragione per cui la svalutazione piace ai padroni è proprio questa: che l’inflazione importata redistribuisce reddito dai salari ai profitti. Comunque, se volesse, il governo potrebbe farlo, ad esempio attaccando i salari (coma sta facendo Shinzo Abe in Giappone). Berlusconi lo farebbe, unsovranista di sinistra non potrebbe. Tuttavia c’è anche un modo per evitare gli effetti inflattivi di una svalutazione senza colpire i salari: detassare massicciamente i prodotti energetici e le materie prime d’importazione oltre al costo del lavoro. Dunque bisognerebbe sperare che l’uscita sovranista venisse attuata da un Comitato di Liberazione Nazionale invece che da Berlusconi.
In conclusione, l’opzione sovranista è poco attraente. Ma non bisogna trascurarla, se non altro perché, come osserva Viale, “è sempre più probabile che… l’euro sia destinato prima o dopo a dissolversi, per lo più in forme disordinate”. Io la terrei come piano B.
C’è un piano A? Nel libro non se ne parla. Viale stesso è molto ermetico al riguardo. Sembrerebbe credere che il suo “nuovo paradigma” possa essere sufficiente per far uscire l’Italia dalla crisi senza uscire dall’euro. Comunque, se usciamo dal seminato del libro possiamo forse farci un’idea più precisa delle idee di Viale: il suo appoggio alla lista Tsipras per le elezioni europee è basato esplicitamente sull’opzione di restare dentro l’euro per forzare una rinegoziazione dei trattati e un cambiamento delle istituzioni. Se ci crede, buon viaggio. Ma mi domando: come fa allora a considerare illusi quegli euro-illusi che pretendono molto meno di quanto spera lui?
Vorrei aggiungere che le politiche industriali e ambientali che lui propone, oltre a molte altre riforme prospettate nel libro, devono passare per l’attuazione di provvedimenti che il WTO e gli euro-burocrati considerano protezionistici. Vengono sanzionate come barriere non tariffarie le politiche che mirano a determinare amministrativamente il valore delle transazioni (ad es. bollette sussidiate), il numero dei dipendenti (ad es. per favorire l’occupazione), il numero e il tipo di fornitori (ad es. imprese nazionali), il tipo di soggetto legale che gestisce la produzione (ad es. imprese no-profit o cooperative sociali), tutte cose che si trovano in contrasto con la regola WTO dell’Accesso al mercato, che l’Italia e i paesi europei hanno sottoscritto. E vengono sanzionati anche i provvedimenti che impongono agli investimenti dei requisiti di contenuto locale, di occupazione locale, d’esportazione, di bilancia commerciale, di trasferimento tecnologico, di azionariato locale, oltre alle restrizioni agli scambi valutari e alle esportazioni di profitti. Non parliamo del controllo dei movimenti di capitale e della nazionalizzazione delle banche.
Peraltro, basterebbe solo il tentativo di realizzare un punto qualificante delle proposte per rendere necessaria una forte politica protezionistica: la riduzione drastica dell’orario di lavoro senza riduzione dei salari. Il costo del lavoro schizzerebbe alle stelle, le esportazioni si ridurrebbero severamente e a molte nostre importazioni essenziali dovremmo rinunciare. Dovremmo tornare a bere il caffè di cicoria. E come pagheremmo i pannelli fotovoltaici che importiamo dalla Cina? Forse dovremmo rinunciare anche a una forte politica di riqualificazione energetica. A meno che non torniamo alle pompe idrauliche a mano e ai generatori elettrici a pedali.
Mi spiegate dunque, cari compagni attacchini, come farete ad attuare le vostre riforme se non siete pronti a sostenere una dura guerra economica con il resto dell’Europa e del mondo? E se foste disposti a impegnarvici, mi spiegate come potreste vincerla con le forze economiche di un paese piccolo come l’Italia?
Faccio osservare che i paesi che si sono impegnati con qualche successo in una guerra del genere, cercando di ottenere tutti i vantaggi possibili dalla globalizzazione e riducendone gli svantaggi con delle politiche industriali o commerciali o valutarie, hanno dimensioni continentali (Cina, India, Brasile, Indonesia, USA). Le dimensioni contano perché solo un mercato interno molto grande può assicurare al governo l’efficacia delle politiche economiche e alle imprese le economie di scala che consentono la crescita della produttività e il mantenimento della competitività. Viale non ama le economie di scala e le grandi dimensioni. Ma allora mi dovrebbe spiegare come faremmo a produrre pannelli fotovoltaici competitivi con quelli cinesi e con cui sostituire le importazioni.
Tutto ciò vuol dire che un piano A con qualche speranza di successo deve contemperare due esigenze: rompere la gabbia dell’eurocrazia e conservare una dimensione economica continentale. Avete pensato a un’Unione Monetaria Latina? Verso la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento fu sperimentata con qualche successo. Oggi dovrebbe essere un’unione non solo monetaria. Ma non posso approfondire un discorso del genere in un articolo come questo, che dopotutto è poco più che una recensione.
È tutta colpa del postfordismo?
Una proposta credibile per uscire dalla crisi presuppone una corretta analisi della crisi stessa. Ora, non è che in questo libro non ci siano elementi di analisi. Il problema è che ce ne sono troppi, alcuni validi, altri discutibili, non tutti coerenti. Mi soffermerò solo su due degli approcci che mi sembrano meno convincenti.
Il primo richiama la narrazione postfordista, una delle classiche cantonate ideologiche della sinistra. Questa narrazione si era affermata negli anni ’70 e ’80, e imperversa ancora oggi, sebbene sia ormai passata un po’ di moda. Nel libro compare più o meno velatamente, ma per fortuna non molte volte. Bertorello e Corradi ad esempio ci spiegano che dopo l’epoca degli aumenti salariali degli anni ’60 e ’70, “seguì un progressivo ingolfamento della crescita, dovuto a una tendenziale saturazione dei mercati e al prevalere di merci di sostituzione piuttosto che al diffondersi di nuovi prodotti”. È una versione del postfordismo: per ragioni tecnologiche il ciclo del prodotto entra nella fase di flessione e ciò genera depressione economica, ovvero “un’impasse da sovrapproduzione di merci”. Così abbiamo mercati dominati da “una minoranza di consumatori che, nell’arco di qualche decennio, avevano sostanzialmente acquistato già tutto” (Bersani).
Un’altra versione della narrazione postfordista è quella incentrata sul toyotismo, la lean production, la flessibilità produttiva, la fine del taylorismo e della produzione di massa. La produzione flessibile – narra la favola – richiede lavoro flessibile. La classe operaia viene smembrata e disarticolata. Il monte salari diminuisce e di conseguenza i consumi di massa ristagnano. Anche per questa via si giunge a dare una giustificazione tecnologica alle tendenze depressive delle economie avanzate.
Così le crisi si spiegherebbero come crisi da sovraccumulazione e sovrapproduzione, e la finanziarizzazione come l’escamotage monetario con cui il capitale tenterebbe di fare comunque profitti depredando il mondo con i movimenti di capitale speculativo invece che con la produzione di plusvalore.
Sarebbe ora che la sinistra si rendesse conto che l’ideologia del postfordismo è stata la razionalizzazione consolatoria di una sconfitta di classe, quella sconfitta, tutta politica, consumata negli anni ’70 e ‘80, e di cui trattano molto accuratamente gli stessi Bertorello e Corradi. In quell’epoca il capitale è passato al contrattacco, col thatcherismo, il reaganismo, il neoliberismo, la stagflazione etc. etc. Gli operai ne sono usciti con le ossa rotte: più flessibili, più precari, più sfruttati, più poveri, più disoccupati. I filosofi del postfordismo hanno poi cercato di convincerli che non si è trattato di una sconfitta politica, ma solo delle conseguenze inevitabili di un’evoluzione tecnologica.
Se si capisce ciò, si comprende che l’ulteriore torchiatura consumata a partire dagli anni ’90 è anch’essa la conseguenza di una sconfitta politica, questa però ottenuta con l’imperialismo globale delle multinazionali, il WTO, il Washington consensus, la troika e le “riforme” dei figli di troika, che hanno creato le condizioni per mettere la classe operaia di ogni paese in competizione con quelle di tutti gli altri, e quella del Nord del mondo in competizione con quelle dei paesi emergenti e in via di sviluppo. In quest’ottica, la superfetazione finanziaria verificatasi negli ultimi vent’anni non va vista come un tentativo disperato del capitale di sopravvivere alla sovraccumulazione, bensì come la conseguenza di precise scelte politiche messe in campo dalle principali potenze economiche mondiali, gli Stati Uniti in primis, per perpetuare la propria egemonia globale, e come un metodo usato dal capitale per disciplinare gli stati e gli operai con la crisi.
O è tutta colpa della finanziarizzazione?
Due anni fa uscì un libro scioccante intitolato Uscite di sicurezza. Scioccante perché conteneva un attacco ferocissimo e molto ben argomentato al capitale finanziario e al “fascismo bancario”. Un libro che sembrerebbe scritto da un militante di occupy Wall Street, e quindi scioccante anche per il nome dell’autore: Giulio Tremonti. Sì, proprio lui, il ministro dell’economia di Berlusconi e membro dell’Ecofin. Ma a pensarci bene, la cosa non è poi così strana. Tremonti è un economista di orientamento neokeynesiano e un politico ex-socialista. Scrivendo quel libro non faceva altro che riproporre una vecchia litania del riformismo italiano: lotta dura senza paura… contro la “rendita finanziaria”, non certo contro il capitalismo.
Ebbene, a leggere attentamente Come si esce dalla crisi si ha talvolta l’impressione di non essersi poi allontanati troppo da quella litania. Il nemico è sempre la rendita finanziaria, ora ribattezzata “finanza ipertrofica”. Il capitale finanziario è responsabile dell’aumento delle disuguaglianze e dell’esplosione della crisi, dell’impotenza dei governi, dell’inefficacia delle politiche fiscali, dell’impossibilità di attuare politiche keynesiane per la piena occupazione etc. etc.
Esemplare il capitolo scritto da Tricarico, il quale ci spiega che oggi “Keynes non basta” in quanto il libero movimento dei capitali finanziari rende inefficace ogni politica monetaria espansiva, anzi, la rende “controproducente, poiché la liquidità, per altro già in eccesso sul pianeta, tenderebbe a spostarsi dove è possibile un’accumulazione con ritorni maggiori”. Giusto. Tricarico ha ragione, e la sua analisi non fa una pecca. Ma è parziale: guarda solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è la politica fiscale. È a questa che Keynes attribuisce la maggiore efficacia del management macroeconomico, non alla politica monetaria. La vera ragione per cui le armi keynesiane sono oggi spuntate è che in una piccola economia aperta ogni politica fiscale espansiva crea occupazione più all’estero che all’interno e aggrava il deficit del conto corrente, facendo così aumentare il debito estero (pubblico e/o privato), a meno che non sia protetta da un cambio sottovalutato, come in Germania. Inoltre il libero movimento dei capitali non riguarda solo gli investimenti di portafoglio, quelli praticati dalle imprese finanziarie con finalità speculative, riguarda anche gli investimenti diretti esteri, quelli reali, quelli che si risolvono in processi di delocalizzazione. Ne deriva che una politica keynesiana espansiva che fa aumentare l’occupazione, anche se di poco, fa crescere i salari e il costo del lavoro e quindi spinge le imprese a delocalizzare.
Più in generale pare che alcuni autori non abbiano capito bene qual è il nocciolo del problema, non abbiano compreso che le difficoltà fondamentali non sono quelle causate dal capitale finanziario e dagli investimenti di portafoglio. E ha ragione Bersani quando osserva: “appare poco corretto attribuire l’attuale crisi alla finanza; quest’ultima è stata invece la leva che ha permesso al modello capitalistico di posticipare di altri trent’anni la propria crisi, consentendo nel frattempo la realizzazione di enormi profitti”. Ha ragione se intende dire che le cause di fondo della crisi sono reali e non monetarie, e attengono agli effetti della globalizzazione produttiva e commerciale sulla crescita e la distribuzione del reddito nei paesi avanzati.
Tuttavia non c’è dubbio che la finanza speculativa ha dato il suo contributo all’innesco e all’esasperazione della crisi in corso, come di tutte le crisi della globalizzazione già negli anni ’90. E ha certamente contribuito anche all’aumento della concentrazione della ricchezza.
Ma il primum movens della globalizzazione contemporanea e delle tendenze depressive in cui si trovano intrappolate le economie avanzate è il capitale industriale. I primi attori dei processi di delocalizzazione e di redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale e dal Sud al Nord del mondo sono le imprese multinazionali manifatturiere. Se non si capisce questo, non si riesce a individuare il vero nemico, non si riesce a cogliere il senso della spietata lotta di classe che è oggi in corso nel mondo. E quindi si continua a riproporre la litania riformista del contrasto alla rendita finanziaria, invece che la guerra contro il capitale. E si rischia di proporre un programma politico che, per quanto molto avanzato, non va al cuore del problema.
Peraltro ci sono proposte in questo libro che non sono realizzabili se non si supera il modo di produzione capitalistico. Ad esempio si auspica la decrescita, presumibilmente felice. Ma come si fa a riassorbire la disoccupazione se il PIL non cresce? Semplice: riduzione dell’orario lavorativo (a salari invariati). C’è qualcuno che pensa che una cosa del genere sia possibile finché la produzione è dominata dall’impresa capitalistica? Poiché l’obiettivo della produzione è la massimizzazione dei profitti, e visto che il costo del lavoro assorbe una parte consistente del valore aggiunto, l’impresa cerca di minimizzare i costi allungando la giornata lavorativa e intensificando lo sfruttamento. Se il PIL cresce meno della produttività del lavoro, la conseguenza è che aumenta la disoccupazione e la miseria. Insomma nel capitalismo la decrescita è necessariamente infelice per le classi subalterne, per la stragrande maggioranza della popolazione.
Per fortuna ci sono i capitoli di Malabarba, Viale e Gesualdi che elevano le ambizioni politiche delle proposte. Tutti e tre questi capitoli infatti vanno oltre la critica al capitale finanziario, tutti e tre pongono un problema di “cambiamento di paradigma”, tutti e tre contribuiscono a configurare un sistema economico alternativo al capitalismo e farci capire che oggi si può realmente uscire dalla crisi solo se si è capaci di mettere in campo l’avvio di un processo di superamento del modo di produzione capitalistico. Certo, anche loro si sono lasciati un po’ condizionare dalla timidezza politica attacchina. E sembra che anche loro, come tutti gli altri autori, abbiano paura di usare le parole giuste. In tutto il libro non ho trovato mai una frase che parlasse apertamente di lotta di classe o di socialismo. E la parola “rivoluzione” compare solo accompagnata da aggettivi alla vaselina: “culturale”, “copernicana”…
Infine c’è un problema di strategia, che è forse il più importante.
Siamo sicuri che basterà gettare dei granelli di sabbia per far inceppare la macchina del capitale globale, per fermare la valanga di macigni scatenata negli ultimi trent’anni dalle imprese multinazionali, dai grandi organismi economici internazionali e dalle classi politiche nazionali? Eppure in nessun paese come in Italia è diventata chiara l’inefficacia della strategia del granello di sabbia. Qui importiamo beni made in Italy prodotti in Polonia e Cina, e molte fabbriche chiudono una dopo l’altra non perché producono in perdita ma perché guadagnano meno profitti di quanti ne ottengono delocalizzando. Qui da noi neanche decine di milioni di granelli di sabbia sono riuscite (con i referendum sul finanziamento pubblico ai partiti e sull’acqua, ad esempio) a indurre la classe politica a servire il popolo invece che il capitale e se stessa. C’è qualcuno che pensa di poter realizzare le riforme proposte nel libro senza una rivoluzione che, tanto per cominciare, mandi a casa tutta l’attuale classe politica berlurenziana?
Insomma, cari compagni attacchini, permettetemi di dirvelo con le parole del Divin Marchese: “Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani!”
È in libreria per le Edizioni Alegre un’opera collettanea dal titolo ambizioso: “Come si esce dalla crisi”. Senza punto interrogativo. Dunque vuole essere una risposta alla domanda che tutti ci poniamo: Come si esce dalla crisi? Però, forse turbati dall’eccesso di ambizione, gli autori ridimensionano subito le aspettative nel sottotitolo: “Per una nuova finanza pubblica e sociale”. In realtà né il titolo né il sottotitolo sono del tutto veritieri: Il primo promette troppo il secondo troppo poco.
In questo articolo non voglio fare una semplice recensione. Piuttosto proverò a sviluppare una riflessione su alcune problematiche sollevate dal libro e dare qualche suggerimento. E comincerò con l’enucleare le proposte di riforma, rielaborandole nella veste di un programma politico. Non credo di andare lontano dalla realtà se dico che questo libro presenta una bozza di programma di un’area di movimento che gravita intorno ad ATTAC.
Tuttavia non sarebbe corretto considerarlo come il programma di ATTAC, non solo perché quest’associazione non è un partito politico, ma anche perché solo alcuni degli autori del libro vi appartengono. Ciononostante, perpetrando una sineddoche che mi sembra più chiarificante che deformante, mi riferirò alla bozza di programma come se fosse ispirata alla visione politica dei compagni attacchini.
La proposta
1. Il primo punto riguarda “il non pagamento del debito, la sua ristrutturazione selettiva”, trovando tuttavia “delle forme per la tutela del micro-risparmio” (Bertorello e Corradi). Sulle modalità non si approfondisce molto. Ed è giusto, perché una ristrutturazione del debito pubblico può essere fatta in molti modi diversi, adattandosi alle circostanze di mercato prevalenti nel momento in cui si attua la politica.
Millet e Toussaint si spingono oltre, e propongono di accompagnare il default con un audit democratico che porti a identificare la parte illegittima del debito pubblico.
“In tutti i casi è legittimo che le istituzioni private e gli individui con redditi più elevati… portino il fardello dell’annullamento dei debiti sovrani”, mentre ai creditori il cui credito non è illegittimo “converrebbe imporre uno sforzo in termini di riduzione dello stock e dei tassi d’interesse, così come un allungamento del periodo di pagamento”. E solo i “piccoli portatori di titoli… dovrebbero essere normalmente rimborsati”.
In linea di principio non avrei obiezioni, se mi si spiegasse qual è il criterio di legittimità. Sembrerebbe che la legittimità sia garantita dal carattere democratico dell’audit. Il che vuol dire che si applica unteorema di Pigou: poiché la maggioranza dei cittadini non è ultraricca, la decisione democratica porta a una redistribuzione equa. Bertorello e Corradi sono abbastanza espliciti: “l’audit e la ristrutturazione del debito non sono una soluzione tecnica, ma se agiti da energie collettive possono essere la premessa necessaria per uscire dalla crisi e imboccare una nuova strada.”
Dunque “il piatto non è già pronto, ma gli ingredienti sono in campo: il rifiuto del debito, la democrazia, il primato della giustizia sociale e ambientale”.
Stando così le cose, mi permetto di avanzare un suggerimento.
Basterebbe che il governo democratico decretasse l’assicurazione di tutti i conti titoli (solo per i titoli del debito pubblico) detenuti dalle famiglie per un valore, diciamo, non superiore ai 200.000 euro; e poi annunciasse l’intenzione di ridurre drasticamente il debito. A quel punto i “mercati” e le agenzie di rating comincerebbero a lavorare per i cittadini: i titoli verrebbero declassati a spazzatura, il loro valore si ridurrebbe pesantemente e il governo potrebbe ricomprarli o rinegoziarli a prezzi di saldo. La liquidità necessaria per finanziare la manovra potrebbe essere reperita emettendo quasi moneta (BOT a brevissima scadenza con valore garantito) e imponendo alle banche un vincolo di portafoglio che le induca ad acquistarla.
2. Ciò metterebbe in difficoltà le banche, che sarebbero costrette a svendere titoli a lunga scadenza per acquistare titoli a breve privi di rendimento. Molte andrebbero sull’orlo della bancarotta. No problem, poiché il programma prevede la nazionalizzazione del sistema bancario (eccetto le casse rurali e le banche etiche). Suggerimento: anche qui ci penserebbe il mercato a risolvere il problema. Le azioni delle banche tenderebbero a zero, e il governo (con l’aiuto della Cassa Depositi e Prestiti?) potrebbe comprarle coi soldi dei cittadini e dei piccoli risparmiatori. I vecchi azionisti ci perderebbero molto. Di fatto verrebbero espropriati di gran parte del loro capitale. I cittadini non regalerebbero niente a nessuno: ogni euro speso per salvare una banca sarebbe una quota d’acquisizione di proprietà pubblica. Insomma “le banche che dovessero necessitare di interventi pubblici per il loro salvataggio, devono trasformarsi in banche pubbliche”.
3. Oltre a ciò, verrebbero messi in campo vari provvedimenti volti ad assicurare l’equità fiscale, in realtà una vasta riforma del sistema finanziario (Lovera, Baranes, Tricarico):
a. Una Financial Transaction Tax, del tipo già in discussione al parlamento europeo
b. Demercificazione di tutti i beni comuni universali e di tutti i servizi collettivi essenziali
c. Divieto di tutte le attività speculative sulle commodities e sui derivati, anche con la proibizione delle vendite allo scoperto e la regolamentazione dei mercati over the counter
d. Chiusura di tutti i paradisi fiscali
e. Lotta al riciclaggio dei capitali di provenienza illegale
f. Smembramento delle grandi concentrazioni bancarie (però mi domando: a che servirebbe smembrarle, una volta che fossero diventate pubbliche? semmai, a quel punto converrebbe concentrarle ancora di più per attivare economie di scala e per avere uno strumento centralizzato di programmazione e di sostegno alle politiche industriali e ambientali)
g. Separazione della gestione del risparmio da quella degli investimenti, tenendo conto del sia pur deludente esperimento messo in atto negli USA con la Volker rule e soprattutto puntando sul più innovativo Rapporto Liikanen
h. Proibizione delle società veicolo e progressivo azzeramento dello shadow banking, oltre alla fissazione di un limite massimo per la leva finanziaria
i. Nazionalizzazione delle banche centrali, che devono assumere anche la funzione di prestatori di ultima istanza per i governi
j. Istituzione di agenzie di rating europee
k. Aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e abbassamento delle tasse che incidono sulla riconversione ecologica e sui livelli occupazionali
l. Aumento della progressività delle imposte dirette, sul reddito e sul patrimonio, specialmente finanziario
m. Controllo dei movimenti di capitale a livello nazionale
n. Politiche fiscali espansive per rilanciare lo stato sociale e ridurre la disoccupazione; presumo si tratti di politiche di aumento della spesa pubblica, eventualmente con aumento del deficit (non sarebbe un problema, una volta ridotto il debito e nazionalizzata la banca centrale); senonché leggo che “la riduzione del deficit pubblico… può essere per esempio utilizzata per rilanciare l’attività economica e la spesa pubblica” (p.232); o è un errore di traduzione o è la lezione di Monti
4. Particolare attenzione viene riservata alla Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Vari capitoli toccano l’argomento, ma quello di Bersani lo approfondisce quanto basta per giustificarne una radicale riforma. La proprietà deve essere pubblica, anche formalmente. Non più una SpA, fosse anche a maggioranza statale, bensì un ente di diritto pubblico. La giustificazione scientifica di fondo sembra essere quella avanzata da Stiglitz per il settore bancario nel suo complesso: l’esistenza di forti asimmetrie informative che impediscono una reale tutela dei risparmiatori da parte dei gestori privati. Ma c’è di più: il governo dovrebbe territorializzare il controllo della CDP per farla usare in modo partecipativo dalle comunità locali. Potrebbe così sostenere investimenti finalizzati a:
a. Riappropriare collettivamente i beni comuni e i servizi pubblici
b. Tutelare il territorio, il patrimonio pubblico, gli edifici scolastici
c. Realizzare opere pubbliche
d. Garantire il diritto all’abitare
e. Favorire l’occupazione e la riconversione della produzione in direzione dell’economia a km zero
f. Sostenere le aziende in crisi, con priorità agli esperimenti di autogestione operaia che contrastano i processi di delocalizzazione
g. Sostenere i processi di riconversione energetica finalizzati al risparmio energetico e all’autoproduzione diffusa di energia pulita e rinnovabile
h. Sostenere i processi di riconversione del trasporto urbano ed extra-urbano in direzione di una mobilità pulita e sostenibile.
5. Un ampio capitolo (Viale) riassume i provvedimenti per la politica ambientale e propone un “nuovo paradigma” di politica industriale che realizzi:
a. La decrescita
b. La salvaguardia degli equilibri e della sostenibilità ambientali
c. La ripresa dell’occupazione soprattutto nei settori di rilevanza ecologica
d. La riqualificazione ecologica dei consumi
e. Una gestione congiunta di produzione e consumi con la partecipazione diretta delle comunità coinvolte
f. La rinuncia alle economie di scala generate dai grandi impianti per privilegiare il decentramento e la differenziazione territoriale
g. L’autoproduzione energetica da parte delle comunità locali usando un mix di fonti rinnovabili
h. Una gestione efficace dei rifiuti basata sulla raccolta differenziata, il recupero degli scarti e la prevenzione
i. La sicurezza alimentare basata sull’agricoltura biologica, la salvaguardia della biodiversità e la distribuzione a km zero
6. Per i provvedimenti di rilevanza sociale si distinguono gli interventi di Malabarba e Gesualdi, che prevedono:
a. Il sostegno pubblico alle iniziative operaie di autogestione
b. Una drastica riduzione dell’orario di lavoro senza riduzione del salario
c. Il soddisfacimento a prezzi nulli di bisogni fondamentali quali acqua, cibo, trasporti, alloggio, energia domestica, sanità, istruzione, comunicazioni
d. Lo sviluppo di un terzo settore che assicuri gli elementari servizi alla persona col lavoro volontario
e. Una sorta di tassazione del lavoro (invece che del reddito) con un servizio civile obbligatorio per tutti i giovani, in cambio del quale si otterrebbe il diritto a percepire
f. Un reddito di cittadinanza perpetuo
7. Infine c’è un tema su cui insistono un po’ tutti i capitoli: La democrazia partecipativa. Forse sarebbe stato utile dedicare un capitolo all’approfondimento del problema, perché non ci viene detto nulla su come dovrebbe essere strutturata questa democrazia: comitati locali di cittadini che decidono l’audit, i consumi, gli investimenti, i finanziamenti per le iniziative comunali? web-democrazia alla Casaleggio? democrazia referendaria? mandati elettorali imperativi con diritto di revoca? abolizione della politica professionale? Ma capisco che forse non sarebbe bastato un solo capitolo. Mi aspetto dunque che le Edizioni Alegre dedichino un prossimo impegno a questo fondamentale problema.
Ecco dunque, in estrema sintesi, la proposta presentata in questo libro per uscire dalla crisi. Forse ho trascurato qualche idea, forse ne ho travisate altre. E può darsi che gli autori si lamenteranno per il modo sbrigativo con cui ho tagliato le analisi con cui hanno cercato di giustificare le varie idee. Ma credo di aver fatto un servizio al lettore proprio con la sinteticità della mia ricostruzione. Ora voglio fargliene un altro portando alla luce vari problemi che gli autori non trattano o non trattano in modo esauriente. Non vuole essere una critica, piuttosto un contributo al chiarimento e all’approfondimento.
La gabbia dell’eurocrazia
C’è un problema politico che grava come un macigno su ogni proposta di trasformazione della società europea, e non è solo quello dell’euro, cioè di una moneta che genera divergenze dei saldi delle bilance commerciali e dei tassi di crescita e di disoccupazione tra i paesi “virtuosi” e quelli “non virtuosi”. È che la politica monetaria e la politica fiscale sono state sottratte ai governi nazionali, le politiche industriali e sociali sono considerate peccati mortali, le politiche di privatizzazione virtù teologali.
C’è qualcuno che pensa di poter realizzare anche soltanto una minima parte delle proposte di cui sopra senza rompere la gabbia eurocratica? Senonché tutti i capitoli del libro svicolano, a dir poco, su questo problema. Prendiamo Viale. Passa in rassegna tre ricette, che sono state proposte da vari riformatori, e le giudica tutte inadeguate o irrealizzabili. Condivido in gran parte le sue argomentazioni, e cercherò anzi di arricchirle con qualche considerazione personale che forse lui non condividerà.
La prima ricetta è proposta dal gruppo che potremmo definire degli euro-illusi, coloro che sperano in “un allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dall’UE e dalla BCE”, un sottoinsieme del quale gruppo è costituito dai super-illusi, coloro che sperano che la Germania si decida a fare la locomotiva dell’economia europea adottando politiche fiscali espansive che azzerino il surplus del suo conto corrente così aiutando i paesi non virtuosi ad azzerare i loro deficit.
Perché illusi? Perché le attuali classi politiche europee, di centro-destra e di centro-sinistra, sono così imbevute di ideologia neoliberista che la possibilità di quell’allentamento dell’austerità non rientra nelle loro capacità intellettuali. Perché, a parte le ideologie, quelle classi politiche sono così legate agli interessi del grande capitale, finanziario e industriale, che verrebbero sfiduciate non appena osassero solo proporre un abbandono delle politiche d’austerità finalizzato alla redistribuzione del reddito e del carico fiscale a favore delle classi subalterne. Perché il blocco capitalistico dominante in Europa, quello tedesco, non accetterà mai una politica che rilanci occupazione e salari a detrimento del suo profitto e del suo potere.
La seconda ricetta è quella proposta dai protezionisti, coloro che s’illudono di poter usare barriere tariffarie e non tariffarie per difendere l’economia nazionale dalla concorrenza sleale (dumping sociale, fiscale, ambientale, civile) dei paesi emergenti. “È ovvio che da una politica del genere, che solleverebbe le ritorsioni dei paesi colpiti dalle nuove barriere doganali, l’economia italiana, che dipende da molte importazioni irrinunciabili, avrebbe da perdere ben più che da guadagnare”. Troppo tenero è Viale con i protezionisti. Il vero problema è che buona parte delle esportazioni italiane vanno in Europa, cosicché le ritorsioni più forti verrebbero dai nostri partner europei, i quali non avrebbero da fare nulla per contrastare quel tipo di politica dell’Italia. Basterebbero gli euro-burocrati per far fioccare multe e procedure d’infrazione e autorizzare politiche ritorsive che metterebbero in ginocchio la nostra economia. Ai protezionisti si porrebbe dunque il problema dell’uscita dall’Unione. Il che ci porta ad affrontare la terza ricetta.
Quella proposta dai sovranisti, coloro che vogliono uscire dall’euro, in modo da poter svalutare la lira e recuperare sovranità monetaria e fiscale. Viale considera un’illusione anche quest’idea, ma non ci spiega perché, a parte un’osservazione sul fatto che “i costi operativi di una misura del genere adottati unilateralmente sarebbero molto alti”. In altri capitoli si tocca l’argomento e in tutti si rifiuta l’opzione sovranista, ma con argomentazioni piuttosto deboli.
Un problema, secondo Bertorello e Corradi, sarebbe che, se l’Italia svalutasse, si scatenerebbe una guerra di svalutazioni competitive. Ma questo sta già accadendo. Da più di un anno siamo in piena guerra valutaria mondiale, con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone che hanno svalutato pesantemente i loro cambi nominali, e i paesi dell’Unione Europea che continuano a deprezzare i loro tassi di cambio reali (politiche recessive alla Monti, per recuperare competitività riducendo il costo del lavoro e aumentando lo sfruttamento).
Un altro problema, sempre secondo Bertorello e Corradi, sarebbe che la svalutazione farebbe aumentare l’inflazione e diminuire i salari reali. Ma i salari reali stanno già diminuendo in Italia ed Europa proprio a causa del deprezzamento reale. Perciò i sovranisti avrebbero un argomento forte a loro favore: il deprezzamento reale fa diminuire i salari reali e l’occupazione, la svalutazione nominale fa diminuire i salari reali e la disoccupazione. Dunque se siamo in piena guerra valutaria mondiale, tanto vale combattere ad armi pari, direbbero i lavoratori… e i padroni.
I problemi dell’uscita unilaterale dall’euro sono altri.
Innanzitutto bisognerebbe mettere in conto un approfondimento della crisi dal momento in cui i mercati cominciassero a sospettare che il partito sovranista potrebbe vincere le elezioni al momento in cui verrebbe svalutata la lira: fughe di capitali e di liquidità, tesoreggiamento degli euro con sospensione dei pagamenti e riduzione della domanda aggregata, deflazione dei prezzi, aumento deglispread (a meno che il debito pubblico non sia stato già ristrutturato e la banca centrale nazionalizzata).
Questo periodo di catastrofe potrebbe essere piuttosto lungo (anche più di due anni) o molto breve. Dipende dall’abilità di Berlusconi (il probabile leader del futuro partito sovranista). In secondo luogo, l’effetto immediato della svalutazione è di aggravare il deficit del conto corrente, essendo le elasticità delle esportazioni e delle importazioni piuttosto basse nel breve periodo: le quantità esportate e importate non reagiscono prontamente alle variazioni dei prezzi relativi poiché ci vuole un po’ di tempo per modificare abitudini di consumo e tecniche produttive. In terzo luogo, dopo l’impatto negativo iniziale, la svalutazione potrebbe rilanciare le esportazioni e frenare le importazioni, contribuendo così alla ripresa della produzione, ma nell’arco di un anno o due produrrebbe una rilevante inflazione che porterebbe a ridurre le esportazioni, cosicché sarebbe necessaria una seconda svalutazione e successivamente una serie di altre svalutazioni. Senza contare che i nostri partner europei non starebbero a guardare. Come minimo si sentirebbero in dovere di mettere in atto misure ritorsive di tipo protezionistico.
Quanto all’inflazione, il governo potrebbe limitarla molto, ma non si vede perché dovrebbe farlo. Una ragione per cui la svalutazione piace ai padroni è proprio questa: che l’inflazione importata redistribuisce reddito dai salari ai profitti. Comunque, se volesse, il governo potrebbe farlo, ad esempio attaccando i salari (coma sta facendo Shinzo Abe in Giappone). Berlusconi lo farebbe, unsovranista di sinistra non potrebbe. Tuttavia c’è anche un modo per evitare gli effetti inflattivi di una svalutazione senza colpire i salari: detassare massicciamente i prodotti energetici e le materie prime d’importazione oltre al costo del lavoro. Dunque bisognerebbe sperare che l’uscita sovranista venisse attuata da un Comitato di Liberazione Nazionale invece che da Berlusconi.
In conclusione, l’opzione sovranista è poco attraente. Ma non bisogna trascurarla, se non altro perché, come osserva Viale, “è sempre più probabile che… l’euro sia destinato prima o dopo a dissolversi, per lo più in forme disordinate”. Io la terrei come piano B.
C’è un piano A? Nel libro non se ne parla. Viale stesso è molto ermetico al riguardo. Sembrerebbe credere che il suo “nuovo paradigma” possa essere sufficiente per far uscire l’Italia dalla crisi senza uscire dall’euro. Comunque, se usciamo dal seminato del libro possiamo forse farci un’idea più precisa delle idee di Viale: il suo appoggio alla lista Tsipras per le elezioni europee è basato esplicitamente sull’opzione di restare dentro l’euro per forzare una rinegoziazione dei trattati e un cambiamento delle istituzioni. Se ci crede, buon viaggio. Ma mi domando: come fa allora a considerare illusi quegli euro-illusi che pretendono molto meno di quanto spera lui?
Vorrei aggiungere che le politiche industriali e ambientali che lui propone, oltre a molte altre riforme prospettate nel libro, devono passare per l’attuazione di provvedimenti che il WTO e gli euro-burocrati considerano protezionistici. Vengono sanzionate come barriere non tariffarie le politiche che mirano a determinare amministrativamente il valore delle transazioni (ad es. bollette sussidiate), il numero dei dipendenti (ad es. per favorire l’occupazione), il numero e il tipo di fornitori (ad es. imprese nazionali), il tipo di soggetto legale che gestisce la produzione (ad es. imprese no-profit o cooperative sociali), tutte cose che si trovano in contrasto con la regola WTO dell’Accesso al mercato, che l’Italia e i paesi europei hanno sottoscritto. E vengono sanzionati anche i provvedimenti che impongono agli investimenti dei requisiti di contenuto locale, di occupazione locale, d’esportazione, di bilancia commerciale, di trasferimento tecnologico, di azionariato locale, oltre alle restrizioni agli scambi valutari e alle esportazioni di profitti. Non parliamo del controllo dei movimenti di capitale e della nazionalizzazione delle banche.
Peraltro, basterebbe solo il tentativo di realizzare un punto qualificante delle proposte per rendere necessaria una forte politica protezionistica: la riduzione drastica dell’orario di lavoro senza riduzione dei salari. Il costo del lavoro schizzerebbe alle stelle, le esportazioni si ridurrebbero severamente e a molte nostre importazioni essenziali dovremmo rinunciare. Dovremmo tornare a bere il caffè di cicoria. E come pagheremmo i pannelli fotovoltaici che importiamo dalla Cina? Forse dovremmo rinunciare anche a una forte politica di riqualificazione energetica. A meno che non torniamo alle pompe idrauliche a mano e ai generatori elettrici a pedali.
Mi spiegate dunque, cari compagni attacchini, come farete ad attuare le vostre riforme se non siete pronti a sostenere una dura guerra economica con il resto dell’Europa e del mondo? E se foste disposti a impegnarvici, mi spiegate come potreste vincerla con le forze economiche di un paese piccolo come l’Italia?
Faccio osservare che i paesi che si sono impegnati con qualche successo in una guerra del genere, cercando di ottenere tutti i vantaggi possibili dalla globalizzazione e riducendone gli svantaggi con delle politiche industriali o commerciali o valutarie, hanno dimensioni continentali (Cina, India, Brasile, Indonesia, USA). Le dimensioni contano perché solo un mercato interno molto grande può assicurare al governo l’efficacia delle politiche economiche e alle imprese le economie di scala che consentono la crescita della produttività e il mantenimento della competitività. Viale non ama le economie di scala e le grandi dimensioni. Ma allora mi dovrebbe spiegare come faremmo a produrre pannelli fotovoltaici competitivi con quelli cinesi e con cui sostituire le importazioni.
Tutto ciò vuol dire che un piano A con qualche speranza di successo deve contemperare due esigenze: rompere la gabbia dell’eurocrazia e conservare una dimensione economica continentale. Avete pensato a un’Unione Monetaria Latina? Verso la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento fu sperimentata con qualche successo. Oggi dovrebbe essere un’unione non solo monetaria. Ma non posso approfondire un discorso del genere in un articolo come questo, che dopotutto è poco più che una recensione.
È tutta colpa del postfordismo?
Una proposta credibile per uscire dalla crisi presuppone una corretta analisi della crisi stessa. Ora, non è che in questo libro non ci siano elementi di analisi. Il problema è che ce ne sono troppi, alcuni validi, altri discutibili, non tutti coerenti. Mi soffermerò solo su due degli approcci che mi sembrano meno convincenti.
Il primo richiama la narrazione postfordista, una delle classiche cantonate ideologiche della sinistra. Questa narrazione si era affermata negli anni ’70 e ’80, e imperversa ancora oggi, sebbene sia ormai passata un po’ di moda. Nel libro compare più o meno velatamente, ma per fortuna non molte volte. Bertorello e Corradi ad esempio ci spiegano che dopo l’epoca degli aumenti salariali degli anni ’60 e ’70, “seguì un progressivo ingolfamento della crescita, dovuto a una tendenziale saturazione dei mercati e al prevalere di merci di sostituzione piuttosto che al diffondersi di nuovi prodotti”. È una versione del postfordismo: per ragioni tecnologiche il ciclo del prodotto entra nella fase di flessione e ciò genera depressione economica, ovvero “un’impasse da sovrapproduzione di merci”. Così abbiamo mercati dominati da “una minoranza di consumatori che, nell’arco di qualche decennio, avevano sostanzialmente acquistato già tutto” (Bersani).
Un’altra versione della narrazione postfordista è quella incentrata sul toyotismo, la lean production, la flessibilità produttiva, la fine del taylorismo e della produzione di massa. La produzione flessibile – narra la favola – richiede lavoro flessibile. La classe operaia viene smembrata e disarticolata. Il monte salari diminuisce e di conseguenza i consumi di massa ristagnano. Anche per questa via si giunge a dare una giustificazione tecnologica alle tendenze depressive delle economie avanzate.
Così le crisi si spiegherebbero come crisi da sovraccumulazione e sovrapproduzione, e la finanziarizzazione come l’escamotage monetario con cui il capitale tenterebbe di fare comunque profitti depredando il mondo con i movimenti di capitale speculativo invece che con la produzione di plusvalore.
Sarebbe ora che la sinistra si rendesse conto che l’ideologia del postfordismo è stata la razionalizzazione consolatoria di una sconfitta di classe, quella sconfitta, tutta politica, consumata negli anni ’70 e ‘80, e di cui trattano molto accuratamente gli stessi Bertorello e Corradi. In quell’epoca il capitale è passato al contrattacco, col thatcherismo, il reaganismo, il neoliberismo, la stagflazione etc. etc. Gli operai ne sono usciti con le ossa rotte: più flessibili, più precari, più sfruttati, più poveri, più disoccupati. I filosofi del postfordismo hanno poi cercato di convincerli che non si è trattato di una sconfitta politica, ma solo delle conseguenze inevitabili di un’evoluzione tecnologica.
Se si capisce ciò, si comprende che l’ulteriore torchiatura consumata a partire dagli anni ’90 è anch’essa la conseguenza di una sconfitta politica, questa però ottenuta con l’imperialismo globale delle multinazionali, il WTO, il Washington consensus, la troika e le “riforme” dei figli di troika, che hanno creato le condizioni per mettere la classe operaia di ogni paese in competizione con quelle di tutti gli altri, e quella del Nord del mondo in competizione con quelle dei paesi emergenti e in via di sviluppo. In quest’ottica, la superfetazione finanziaria verificatasi negli ultimi vent’anni non va vista come un tentativo disperato del capitale di sopravvivere alla sovraccumulazione, bensì come la conseguenza di precise scelte politiche messe in campo dalle principali potenze economiche mondiali, gli Stati Uniti in primis, per perpetuare la propria egemonia globale, e come un metodo usato dal capitale per disciplinare gli stati e gli operai con la crisi.
O è tutta colpa della finanziarizzazione?
Due anni fa uscì un libro scioccante intitolato Uscite di sicurezza. Scioccante perché conteneva un attacco ferocissimo e molto ben argomentato al capitale finanziario e al “fascismo bancario”. Un libro che sembrerebbe scritto da un militante di occupy Wall Street, e quindi scioccante anche per il nome dell’autore: Giulio Tremonti. Sì, proprio lui, il ministro dell’economia di Berlusconi e membro dell’Ecofin. Ma a pensarci bene, la cosa non è poi così strana. Tremonti è un economista di orientamento neokeynesiano e un politico ex-socialista. Scrivendo quel libro non faceva altro che riproporre una vecchia litania del riformismo italiano: lotta dura senza paura… contro la “rendita finanziaria”, non certo contro il capitalismo.
Ebbene, a leggere attentamente Come si esce dalla crisi si ha talvolta l’impressione di non essersi poi allontanati troppo da quella litania. Il nemico è sempre la rendita finanziaria, ora ribattezzata “finanza ipertrofica”. Il capitale finanziario è responsabile dell’aumento delle disuguaglianze e dell’esplosione della crisi, dell’impotenza dei governi, dell’inefficacia delle politiche fiscali, dell’impossibilità di attuare politiche keynesiane per la piena occupazione etc. etc.
Esemplare il capitolo scritto da Tricarico, il quale ci spiega che oggi “Keynes non basta” in quanto il libero movimento dei capitali finanziari rende inefficace ogni politica monetaria espansiva, anzi, la rende “controproducente, poiché la liquidità, per altro già in eccesso sul pianeta, tenderebbe a spostarsi dove è possibile un’accumulazione con ritorni maggiori”. Giusto. Tricarico ha ragione, e la sua analisi non fa una pecca. Ma è parziale: guarda solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è la politica fiscale. È a questa che Keynes attribuisce la maggiore efficacia del management macroeconomico, non alla politica monetaria. La vera ragione per cui le armi keynesiane sono oggi spuntate è che in una piccola economia aperta ogni politica fiscale espansiva crea occupazione più all’estero che all’interno e aggrava il deficit del conto corrente, facendo così aumentare il debito estero (pubblico e/o privato), a meno che non sia protetta da un cambio sottovalutato, come in Germania. Inoltre il libero movimento dei capitali non riguarda solo gli investimenti di portafoglio, quelli praticati dalle imprese finanziarie con finalità speculative, riguarda anche gli investimenti diretti esteri, quelli reali, quelli che si risolvono in processi di delocalizzazione. Ne deriva che una politica keynesiana espansiva che fa aumentare l’occupazione, anche se di poco, fa crescere i salari e il costo del lavoro e quindi spinge le imprese a delocalizzare.
Più in generale pare che alcuni autori non abbiano capito bene qual è il nocciolo del problema, non abbiano compreso che le difficoltà fondamentali non sono quelle causate dal capitale finanziario e dagli investimenti di portafoglio. E ha ragione Bersani quando osserva: “appare poco corretto attribuire l’attuale crisi alla finanza; quest’ultima è stata invece la leva che ha permesso al modello capitalistico di posticipare di altri trent’anni la propria crisi, consentendo nel frattempo la realizzazione di enormi profitti”. Ha ragione se intende dire che le cause di fondo della crisi sono reali e non monetarie, e attengono agli effetti della globalizzazione produttiva e commerciale sulla crescita e la distribuzione del reddito nei paesi avanzati.
Tuttavia non c’è dubbio che la finanza speculativa ha dato il suo contributo all’innesco e all’esasperazione della crisi in corso, come di tutte le crisi della globalizzazione già negli anni ’90. E ha certamente contribuito anche all’aumento della concentrazione della ricchezza.
Ma il primum movens della globalizzazione contemporanea e delle tendenze depressive in cui si trovano intrappolate le economie avanzate è il capitale industriale. I primi attori dei processi di delocalizzazione e di redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale e dal Sud al Nord del mondo sono le imprese multinazionali manifatturiere. Se non si capisce questo, non si riesce a individuare il vero nemico, non si riesce a cogliere il senso della spietata lotta di classe che è oggi in corso nel mondo. E quindi si continua a riproporre la litania riformista del contrasto alla rendita finanziaria, invece che la guerra contro il capitale. E si rischia di proporre un programma politico che, per quanto molto avanzato, non va al cuore del problema.
Peraltro ci sono proposte in questo libro che non sono realizzabili se non si supera il modo di produzione capitalistico. Ad esempio si auspica la decrescita, presumibilmente felice. Ma come si fa a riassorbire la disoccupazione se il PIL non cresce? Semplice: riduzione dell’orario lavorativo (a salari invariati). C’è qualcuno che pensa che una cosa del genere sia possibile finché la produzione è dominata dall’impresa capitalistica? Poiché l’obiettivo della produzione è la massimizzazione dei profitti, e visto che il costo del lavoro assorbe una parte consistente del valore aggiunto, l’impresa cerca di minimizzare i costi allungando la giornata lavorativa e intensificando lo sfruttamento. Se il PIL cresce meno della produttività del lavoro, la conseguenza è che aumenta la disoccupazione e la miseria. Insomma nel capitalismo la decrescita è necessariamente infelice per le classi subalterne, per la stragrande maggioranza della popolazione.
Per fortuna ci sono i capitoli di Malabarba, Viale e Gesualdi che elevano le ambizioni politiche delle proposte. Tutti e tre questi capitoli infatti vanno oltre la critica al capitale finanziario, tutti e tre pongono un problema di “cambiamento di paradigma”, tutti e tre contribuiscono a configurare un sistema economico alternativo al capitalismo e farci capire che oggi si può realmente uscire dalla crisi solo se si è capaci di mettere in campo l’avvio di un processo di superamento del modo di produzione capitalistico. Certo, anche loro si sono lasciati un po’ condizionare dalla timidezza politica attacchina. E sembra che anche loro, come tutti gli altri autori, abbiano paura di usare le parole giuste. In tutto il libro non ho trovato mai una frase che parlasse apertamente di lotta di classe o di socialismo. E la parola “rivoluzione” compare solo accompagnata da aggettivi alla vaselina: “culturale”, “copernicana”…
Infine c’è un problema di strategia, che è forse il più importante.
Siamo sicuri che basterà gettare dei granelli di sabbia per far inceppare la macchina del capitale globale, per fermare la valanga di macigni scatenata negli ultimi trent’anni dalle imprese multinazionali, dai grandi organismi economici internazionali e dalle classi politiche nazionali? Eppure in nessun paese come in Italia è diventata chiara l’inefficacia della strategia del granello di sabbia. Qui importiamo beni made in Italy prodotti in Polonia e Cina, e molte fabbriche chiudono una dopo l’altra non perché producono in perdita ma perché guadagnano meno profitti di quanti ne ottengono delocalizzando. Qui da noi neanche decine di milioni di granelli di sabbia sono riuscite (con i referendum sul finanziamento pubblico ai partiti e sull’acqua, ad esempio) a indurre la classe politica a servire il popolo invece che il capitale e se stessa. C’è qualcuno che pensa di poter realizzare le riforme proposte nel libro senza una rivoluzione che, tanto per cominciare, mandi a casa tutta l’attuale classe politica berlurenziana?
Insomma, cari compagni attacchini, permettetemi di dirvelo con le parole del Divin Marchese: “Francesi, ancora uno sforzo se volete essere repubblicani!”