Etienne Balibar | Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno: che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?
Le Tesi su Feuerbach [1], un insieme di 11 aforismi a quanto pare non destinati alla pubblicazione in questa forma, sono state scritte da Marx nel corso del 1845 mentre stava lavorando al manoscritto dell’Ideologia tedesca, anch’esso non pubblicato. Sono state scoperte più tardi da Engels e da lui pubblicate con alcune correzioni (non tutte prive di significato), come appendice al suo pamphlet Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886) [2]. Sono considerate largamente una delle formulazioni emblematiche della filosofia Occidentale, talvolta comparate con altri testi estremamente brevi ed enigmatici che combinano una ricchezza apparentemente inesauribile con uno stile enunciativo da manifesto, che annuncia un modo di pensare radicalmente nuovo come il Poema di Parmenide o il Trattato di Wittgenstein. Alcuni dei suoi celebri aforismi hanno guadagnato a posteriori lo stesso valore di un punto di svolta in filosofia (o, forse, nella nostra relazione con la filosofia) come, per esempio dei già citati Parmenide e Wittgenstein rispettivamente:
«tauton gar esti noein te kai einai» [3], «Worüber man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen» [4], ma anche lo spinoziano «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum» [5] il kantiano «Gedanken ohne Inhalt sind leer, Anschauungen ohne Begriffe sind blind» [6] etc.
In tali condizioni è ovviamente allo stesso tempo estremamente allettante e imprudente avventurarsi in un nuovo commento. Ma è anche inevitabile far ritorno alla lettera delle Tesi, esaminando la nostra comprensione della loro terminologia e proposizioni, nel momento in cui decidiamo di valutare il posto occupato da Marx (e di una interpretazione di Marx) nei nostri dibattiti contemporanei. È ciò che vorrei fare – almeno in parte – in questo testo, con riferimento ad una discussione in corso sul significato e gli usi della categoria di ‘relation’ e ‘relationship’ (entrambi possibili equivalenti del tedesco Verhältnis), le cui implicazioni vanno dalla logica all’etica, ma in particolare implicano una sottile – forse decisiva – sfumatura che separa un’‘antropologia filosofica’ da un’‘ontologia sociale’ (o, una ontologia dell’‘essere sociale’, come Lukács, tra altri, direbbe). Questo scopo conduce in modo del tutto naturale a sottolineare l’importanza della Tesi 6, che recita (nella versione originale di Marx):
Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse.
Feuerbach, der auf die Kritik dieses wirklichen Wesens nicht eingeht, ist daher gezwungen: 1. von dem geschichtlichen Verlauf zu abstrahieren und das religiöse Gemüt für sich zu fixieren, und ein abstrakt – isoliert – menschliches Individuum vorauszusetzen. 2. Das Wesen kann daher nur als ‘Gattung’, als innere, stumme, die vielen Individuen natürlich verbindende Allgemeinheit gefaßt werden.
Ed ecco una traduzione italiana classica:
Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto:
1. Ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, ed a presupporre un individuo umano astratto – isolato.
2. L’essenza può dunque essere concepita soltanto come ‘genere’, cioè come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente.
Tra i molti commentari che sono stati dedicati a queste proposizioni (e in particolare alle prime tre proposizioni), selezionerei quelli di Ernst Bloch e Louis Althusser, che mettono in luce posizioni esattamente antitetiche [7]. Per Bloch, il cui commento dettagliato, parte del suo magnum opus Das Prinzip Hoffnung, fu pubblicato in un primo tempo separatamete nel 1953 [8], le Tesi includono la piena costruzione del concetto di praxis rivoluzionaria, presentata come la parola d’ordine (Losungswort), che oltrepassa l’antitesi metafisica di ‘soggetto’ e ‘oggetto’, ‘pensiero filosofico’ e ‘azione politica’. Esse esprimo l’idea cruciale che la realtà (sociale) in quanto tale è ‘mutabile’ (veränderbar) poiché la sua nozione completa non indica solo situazioni date o relazioni derivanti da un processo compiuto (cioè il presente e il passato), ma implica anche sempre già l’oggettivapossibilità di un futuro o una novità (novum), cosa che né il materialismo classico né l’idealismo hanno mai ammesso. Per Althusser, che si sofferma sulleTesi come un sintomo di una rivoluzione teorica (o ‘rottura epistemologica’) attraverso cui Marx avrebbe lasciato cadere una lettura umanistica, fondamentalmente feuerbachiana, del comunismo, per adottare una problematica scientifica (non-ideologica) delle relazioni sociali e delle lotte di classe come motore della storia, esse meritano una lettura (alquanto controintuitiva) che mostra le ‘nuove’ idee come forzatura di un vecchio linguaggio per esprimere (o piuttosto annunciare, anticipare) una teoria che, fondamentalmente, non ha precedenti, ma le cui implicazioni sono ancora a venire (l’esempio principale di questa ermeneutica di concetti forzati, internamente inadeguati, è la lettura althusseriana della praxis come nome filosofico di «un sistema articolato di pratiche sociali»). È interessante notare che sia il commentario di Bloch che quello di Althusser implicano una forte sottolineatura dello schema temporale di un ‘futuro’ oggettivamente incluso nel presente come una possibilità dirompente – con la differenza che per Bloch questo schema caratterizza la storia, mentre per Althusser caratterizza la teoriao il discorso [9].
Ciò che è massimante interessante per noi è il modo in cui essi risolvono i paradossi nella Tesi 6 che sorgono da modi antitetici di definire l’‘essenza umana’ (das menschliche Wesen), che riguarda direttamente la nozione di ‘antropologia’ (ereditata da Kant, Hegel e Humboldt, ma soprattutto, naturalmente, da Feuerbach la cui tesi principale nell’Essenza del cristianesimo afferma che «il segreto del discorso teologico è l’esperienza antropologica», o che l’idea di Dio e dei suoi attributi sono rappresentazioni dell’essenza umana immaginariamente invertite): «Ma l’essenza umana – Marx bruscamente obietta – non è una astrazione inerente ad ogni singolo individuo. Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni sociali». Questo sembra non lasciare altra possibilità che ammettere che l’‘essenza umana’ è in verità una nozione necessaria (ed una nozione fondamentale, che indica il primato della domanda antropologica in filosofia), benché intesa in modi differenti: un modo sbagliato (attribuito a Feuerbach: «l’essenza umana è un’astrazione (o un’idea) inerente ad ogni individuo isolato») ed un modo corretto (affermato da Marx stesso: «l’essenza umana è l’insieme delle relazioni sociali», qualsiasi valore logico abbia quell’‘è’). Althusser, tuttavia, va in una direzione differente: per lui proprio l’uso dell’espressione ‘essenza umana’ implica un’equivalenza di due nozioni, ‘umanesimo teorico’ e ‘antropologia filosofica’, con cui una teoria (cioè una ricerca materialista) dell’‘ensemble’ (o sistema, articolazione) delle ‘relazioni sociali’ è incompatibile, perché fa riferimento a continue trasformazioni storiche di ciò che significa essere ‘umano’ in relazione (di cooperazione, divisione del lavoro, dominazione, lotta di classe) ad altri umani, distruggendo così l’idea stessa di attributi ‘universali’ e ‘permanenti’ che apparterrebbero ad ‘ogni singolo individuo’ (o soggetto). In breve storicizza e de-essenzializza radicalmente il nostro concetto di umano, demolendo sia l’antropologia come teoria, sia l’umanesimo come ideologia. Ne segue che l’espressione importante nell’aforisma marxiano sarebbe «in seiner Wirklichkeit» (nella sua realtà), poiché segnala (come un’ingiunzione teorica o poteau indicateur nella stessa teoria) che il discorso dell’«essenza dell’uomo» non è più sostenibile e dovrebbe essere sostituito da un differente discorso in cui è in questione l’analisi delle relazioni sociali. Il ‘sociale’ si oppone all’‘umano’ proprio come le ‘relazioni’ si oppongono all’‘essenza’.
Ma, se da qui ritorniamo al commentario di Bloch, possiamo osservare due cose. Da una parte, cade chiaramente sotto questa critica, poiché sostiene che vi sono due antropologie successive (così come vi sono due varietà di materialismo e di fatto due tipi di umanesimo, uno astratto che parla di attributi eterni dell’‘uomo’, e l’altro che – con i termini stessi di Marx – è ‘reale’ e parla di trasformazioni storiche della società che creano un ‘uomo nuovo’ [10]). Dall’altra parte riesce a connettere la Tesi 6 con altri scritti marxiani che sono più o meno contemporanei, in particolare la celebre critica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Questione ebraica, che lo conduce a sottolineare con forza che l’antropologia dell’‘essenza astratta’ è di fatto essa stessa prodotta storicamente: esprime la visione del mondo politica (o ideologica) di una borghesia in ascesa che riassume l’antica tradizione filosofica del ‘diritto naturale’(Naturrecht) al fine di dare alla sua propria istituzione del cittadino nazionale una fondazione universalistica. Perciò Bloch non indica solamente che ‘l’astratto umanesimo’ ha una dimensione di classe, egli indica anche che è difficile criticare radicalmente ogni umanesimo e discorso antropologico pur mantenendo una prospettiva universalistica (inclusa una prospettiva rivoluzionaria socialista o comunista).
Trovo questi argomenti incrociati di particolare interesse in un momento in cui i dibattiti sull’universalismo (e sui differenti tipi di universalismo: non solo borghese o proletario, ma anche di genere, eurocentrico o planetario) tendono a prendere il posto della ‘disputa sull’umanesimo’, come è stata combattuta nella filosofia continentale (dentro e fuori dalle sue cerchie marxiste) negli anni Sessanta e Settanta. Forse dovremmo dire che la nuova ‘disputa’, egualmente intensa, che in parte continua e in parte disloca la ‘disputa sull’umanesimo’, è precisamente la disputa sull’universalismo [11]. La mia posizione da questo angolo visuale sarebbe che ‘umanesimo’ e ‘antropologia’ sono di fatto due distinte nozioni o problemi, che bisognerebbe trattare separatamente. Un’antropologia ‘non umanista’ o anche ‘anti-umanista’, per quanto paradossale l’espressione possa suonare per i filosofi classici, potrebbe rivelarsi non solo possibile, ma necessaria. Ma, per sbrogliare la matassa, una nuova discussione di ciò che laTesi di Marx esattamente significa si rivela illuminante [12]. La dividerò in tre parti: 1) una nuova discussione della pars destruens nella Tesi 6 di Marx, in particolare la critica di un’‘essenza astratta’ inerente agli individui isolati, cercando di chiarire quali dottrine (al di là di Feuerbach) sono implicate in questa categorizzazione; 2) una nuova discussione della pars construens, in particolare l’indicazione di un’equazione dell’‘essenza umana’ con le ‘relazioni sociali’, facendo attenzione in particolare ad alcune particolarità della formulazione della Tesi; 3) una discussione critica della ‘biforcazione’ offerta dalla tesi di Marx, in altri termini un’esposizione di quali orientamenti sonoaperti e quali sono chiusi (o persino proibiti) dalle sue proposizioni in un dibattuto filosofico sull’antropologia che precede il suo intervento e continua o viene rinnovato dopo di lui.
1. La proposizione negativa: «l’essenza umana non è un’astrazione inerente a ogni singolo individuo»
Una discussione che abbia realmente di mira la semantica e la grammatica della proposizione marxiana deve necessariamente riportarsi all’originale formulazione tedesca. Tradurre (in inglese, francese o italiano) è utile ma insufficiente, perché le parole usate da Marx non hanno un perfetto equivalente, o hanno uno spettro di significati che viene amputato in altre lingue. Come vedremo è altresì importante il fatto che Marx usi un Fremdwort (o termine straniero).
Iniziamo dalla categoria cruciale di Wesen. La traduzione abituale, come abbiamo visto, è ‘essenza’ e questo è naturalmente inevitabile perché Marx sta discutendo Feuerbach che, come è noto, scrisse Das Wesen des Christentums(1841), ovvero L’essenza del cristianesimo, dove, come ho ricordato, la tesi che è sostenuta è che «l’essenza di Dio» è una proiezione immaginaria dell’essenza umana (cioè natura). Ma una traduzione perfettamente accettabile potrebbe essere anche ‘essere’, e in effetti la comune comprensione dell’espressione «ein menschliches Wesen» in tedesco sarebbe «un essere umano». La correlazione delle due nozioni: essere e essenza (in greco: to on e ousia) è al lavoro sin dall’inizio della metafisica Occidentale, in particolare in Aristotele, la cui eredità fino ad oggi è divisa tra empiristi-nominalisti, per i quali i soli ‘esseri reali’ sono gli individui (o ‘sostanze individuali’ nella formulazione di Aristotele) e le nozioni generali o essenze (chiamate anche ‘universali’) rappresentano astrazioni intellettuali che vengono applicate ad una molteplicità di individui recanti caratteri simili, ed essenzialisti-realisti per cui l’individuo singolare ‘partecipa di’ (o persino ‘deriva da’) idee generali (che possono essere concepite come essenze, tipi o specie) che sono esse stesse (iper)reali.
Un’indicazione ulteriore che le tensioni concettuali soggiacenti ad ogni scelta di una parola o della forma di una proposizione nel testo di Marx non sono da intendere senza un confronto ravvicinato con Hegel risulta anche dal discutere l’antitesi fra ‘astrazione’ (Abstraktum) e ‘realtà’ (Wirklichkeit, probabilmente meglio tradotta – gergo permettendo – come ‘effettualità’ o ‘realtà effettuale’). Vi è una fonte diretta di questa opposizione nella Fenomenologia: quando, raggiungendo il livello dello ‘spirito’, che (anticipando sviluppi successivi della sua filosofia politica) egli identifica con la «vita etica del popolo», Hegel spiega che gli enti singoli (figure) o i soggetti individuali (coscienze) sono solo astrazioni o momenti astratti dello spirito ‘reale’. Questo spiega perché, nella grande antitesi che forma il nucleo dell’argomento critico della Tesi 6, Marx può allo stesso tempo rivendicare un punto di vista nominalista alla Stirner, per cui una nozione generale o idea (per es., quella di specie o genere, come Genere Umano, Umanità) è solo un’astrazione, e rigettare come altrettanto ‘astratta’ la nozione di individui isolati (come sono immaginati dalla teoria politica ed economica borghese, con l’aiuto della metafisica): poiché sia l’essenza collettiva che l’individuo singolo ‘egoistico’ sono astrazioni quando sono ‘isolati’ dallaWirklichkeit, che è molto più che ‘realtà (cioè un’esistenza de facto, un ‘esserci’ sensibile), è un’operazione (Wirklichkeit viene da Werk, wirken, l’equivalente tedesco di opus, operari), un processo di farsi reale: ciò che Hegel ha definito come Spirito, e Marx stesso identificherà con un insieme di processi storici di trasformazione che concernono relazioni sociali. Perciò Marx mantiene il rifiuto simultaneo di Hegel delle ‘essenze’ antitetiche, che sono tutte le più astratte nella misura in cui pretendono di rappresentare la negazione dell’astrazione, ma sta anche radicalmente sovvertendo la ‘logica’ di questo rifiuto nei termini di un’operazione ‘spirituale’. Quanto radicalmente, questo è il problema. Ma prima di considerare la sua definizione di un processo che è tanto ‘effettuale’ quanto lo Spirito, pur non essendo lo Spirito, dobbiamo aggiungere una riflessione su un altro termine usato da Marx che non è stato finora discusso.
Si tratta della formula (negativa): «…kein dem einzelnen Individuuminwohnendes Abstractum». Fino ad ora, seguendo la più parte dei commentatori, abbiamo focalizzato l’attenzione sui termini antitetici:Individuum o Abstractum, l’individuo e l’astrazione (semplicemente identificato con un’idea, o una ‘idea universale’). Ma abbiamo tralasciato di discutere il verbo (participio presente) inwohnend, che le traduzioni invalse rendono con ‘inerente a’. è stato leggermente modificato da Engels, trasformato in innewohnend, un termine moderno il cui uso principale fa riferimento all’idea di ‘possessione’, ‘essere posseduto’ (da qualche forza magica, un dio, un diavolo ecc.), ma anche etimologicamente vicino al termine Einwohner, che significa ‘abitante’ (o residente, abitatore) di un territorio, un luogo o una casa ecc. A dire il vero l’originale inwohnend (con la stessa etimologia) esiste in tedesco, ma è una forma arcaica che si può trovare in contesti teologici (per esempio in Meister Eckart, da cui passa a Jacob Böhme) [13]: corrisponde al latino (ecclesiastico)inhabitare, inhabitatio (che Tommaso d’Aquino distingue dal semplicehabitatio, habitare) [14]. Ritornare a questo sfondo etimologico o teoretico (di cui Marx, in quanto ottimo discepolo dell’idealismo tedesco, ha probabilmente avuto una diretta o indiretta conoscenza) non è naturalmente sufficiente per sostenere un’interpretazione, ma fornisce un sintomo della complessità delle articolazioni di un ‘individuo’ e un ‘astratto’ (o un’essenza astratta) che possono essere state l’oggetto della critica di Marx. Queste obbediscono largamente a due modelli molto differenti, la cui convergenza alla fine incide nella costruzione del soggetto trascendentale moderno (come definito da Kant e dai suoi seguaci): il modello (post)aristotelico e (post)agostiniano di individuazione [15]. Il modello ‘metafisico’, post-aristotelico (che include un’oscillazione permanente tra una interpretazione ‘nominalista’ ed una ‘platonica’ o ‘essenzialista’), è meglio conosciuto e più frequentemente invocato nelle discussioni della Tesi 6. Si riferisce ad un’interpretazione delle essenze come un ‘genere’ o una ‘specie’ (in questo caso il Genere umano o la Specie Umana) di cui gli esseri individuali sono ‘istanze’ o ‘casi’, che partecipano degli attributi della stessa essenza, o, in alternativa, i cui caratteri analoghi conducono alla formazione di una singola idea del loro tipo comune (‘idea generale’). Di qui l’importanza dell’uso feuerbachiano di Gattung (genere), che, nei discorsi classici di storia naturale e antropologia, nomina il tipo comune, e gli viene ora rivolto contro da Marx. Ogniindividuo è rappresentativo di un tipo, o può essere concepito come ‘formato’ o ‘creato’ separatamente dopo il tipo: come conseguenza tutti gli individui ‘condividono’ una relazione simile al tipo, ma rimangono isolati l’uno dall’altro nella loro somiglianza, dato che ognuno di essi (più o meno perfettamente) prende parte al tipo completo, che può essere un tipo morale o sociale. È solo a posteriori, quando essi già esistono come individui tipici, che essi possonorelazionarsi l’uno all’altro in vari modi: questa relazione variabile è ‘accidentale’ ossia non definisce la loro ‘essenza’. Tuttavia, da Kant a Feuerbach stesso è apportata una correzione a ciò: nel caso della specie ‘umana’ – che non è una specie qualsiasi – gli individui hanno un carattere essenziale supplementare, si relazionano in modo cosciente alla specie (comune) e dipendono da questa coscienza per costruire una comunità morale. In questo senso il loro ‘essere in comune’, o l’‘essenza che dà forma ad una comunità’ (Gemeinwesen), è già presente in potentia nella loro ‘essenza generica’ (Gattungswesen) [16]. Ma con questa interpretazione teleologica della natura dell’Uomo siamo già inclinati verso un secondo modello, altrettanto tradizionale, che è sintomaticamente indicato nella Tesi di Marx attraverso l’uso di inwohnend.
Chiunque abbia una qualche conoscenza della teologia agostiniana conosce l’affermazione del De vera religione (Sulla vera religione), 29, 72: Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas («Non andare all’esterno, ritorna in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità»), che fa eco a molte altre formulazioni nella sua opera (in particolare nelle Confessioni e nel De trinitate), in cui è in questione il fatto che ciò che sta al cuore (o il più intimo: interior intimo meo) dell’anima umana, perciò esprimendo una ‘verità’ che non è solo la verità della condizione dell’uomo, ma anche la verità per lui (destinata per la sua redenzione), è anche ciò che infinitamente lo supera (superior summo meo), cioè la sua relazione singolare con Dio o la ‘presenza’ di Dio. Sosterrò che questo è il secondo modello che sottende la formulazione di Marx nella Tesi 6, permettendoci di comprendere meglio in che senso l’idea di ‘relazioni sociali’ sovverta rappresentazioni classiche dell’‘essenza dell’Uomo’. All’interno di questa tradizione vi sono molte variazioni che vanno dalle iterazioni alle interpretazioni sino alle trasformazioni (in particolar modo secolarizzazioni) [17]. Queste possono essere ‘psicologistiche’, ma diventano più interessanti quando giungono ad un punto di vista ‘trascendentale’, poiché questo è il modo più profondo per mettere a confronto le tensioni della verticalità (o sovranità) e dell’interiorità, o trascendenza e immanenza, che sono implicate nella problematica del soggetto. In verità, è solo sullo sfondo di questo secondo modello tradizionale che la dimensione ‘soggettiva’ della discussione di Marx può essere colta pienamente. Dal punto di vista originariamente teologico l’idea guida è un’unità di opposti, dato che la relazione verticale tra la figura sovrana (Dio, o il Verbo di Dio, o l’Idea di Dio) e il ‘soggetto’ individuale (Uomo, o meglio, un Uomo singolare, ‘ognuno’) deve essere letta da entrambi i lati: come una creazione, un’ingiunzione, un dono, una rivelazione derivante dal potere e dalla grazia di Dio, ed anche come una chiamata, una richiesta, un riconoscimento o un atto di fede che esprime la dipendenza individuale del soggetto [18]. Ma dal punto di vista secolarizzato, antropologico, l’idea guida è spiazzata dal fatto che non vi è più alcuna ‘verticalità’ o ‘sovranità’ che governa l’assoggettamento dell’uomo (o la ‘soggettivazione’, come direbbero filosofi più recenti) ma soloeffetti di autorità (che può essere anche letta, criticamente, come dominazione) che sorgono dalle stesse rappresentazioni e attività umane. Un buon esempio (in realtà, molto più di questo ) è la nozione kantiana di imperativo categorico che è interpretato anche come una ‘voce interiore’ della ragione che esprime la dipendenza del soggetto umano da una comunità morale di esseri razionali che lo rende autonomo o produce la sua ‘emancipazione’ in virtù della sua essenziale universalità.
Marx sembra scartare questa genealogia quando obietta a Feuerbach che la sua concezione dell’essenza umana come Gattung (genere) rimane ‘muta’ (stumme) è tenta di ‘relazionare’ o ‘unire’ (verbindende) la molteplicità di individui (soggetti) solo attraverso un’universalità naturale. Perché allora, avrebbe usato il termine ‘abitare’ al posto del semplice ‘informare’ o ‘modellare’(bildend, formierend)? A parte le connotazioni teologiche suggerite da Feuerbach stesso (a cui vengo sotto), potremmo pensare ad un’altra interpretazione violentemente ironica (abbastanza vicina al discorso critico della Questione ebraica), vale a dire all’idea che ciò che ‘possiede’ dall’interno l’‘individuo astratto’ (o l’individuo individualizzato) non è altro che l’‘idea della proprietà [privata]’, che nell’epoca del materialismo [metafisico] borghese è stata sostituita a Dio come ‘interna verità dell’uomo [19].
2. La proposizione positiva: «Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni sociali»
Il momento decisivo è naturalmente il prossimo, quando Marx, dall’indicare ciò che l’‘essenza umana’ non può essere, giunge a definire ciò che realmente è, fornendo dunque alla critica un contenuto ed un orientamento determinati. Tuttavia, come sappiamo dai commentari e dalle parafrasi, è anche il luogo in cui la formulazione di Marx risulta ambigua o si apre a interpretazioni contraddittorie. Non dimenticando che queste sono note personali ‘improvvisate’ (ma anche che hanno il dono di una certa ‘genialità’, come suggerito da Engels, o nei termini di Benjamin, hanno la qualità di un’‘illuminazione’) [20], possiamo tentare di fare chiarezza sul punto in questione traendo il massimo beneficio dalla scrittura stessa.
Un primo punto da esaminare è il valore semantico dell’opposizione «In seiner Wirklichkeit», tradotto con «nella sua realtà». Una interpretazione debole la legge semplicemente come se marcasse un capovolgimento: lasciando da parte ciò che l’essenza umana era solo in una rappresentazione speculativa-immaginaria-astratta proposta da filosofi come Locke, Kant e Feuerbach, dunque erroneamente, indicheremo ora ciò che realmente è. ‘Realmente’ significa ‘veramente’ o ‘fedeli ai fatti’ [true to the facts], come piace dire ai logici. Tuttavia, in un contesto post-hegeliano, sembra consigliabile prendere in considerazione la differenza logica tra ‘realtà’ (Realität) e ‘realtà effettuale’ (o ‘effettualità’) (Wirklichkeit), e ciò significa non solo indicare ciò che l’essenza umana effettivamente è, o ciò che diviene quando è ‘effettuale’ (cioè prodotta come risultato di ‘operazioni’ materiali e storiche, che è il punto sui cui Marx insiste continuamente nelle Tesi, ricorrendo a concetti come Tätigkeit e Praxis), ma anche più di questo: ciò che identifica l’‘essenza’ con una effettualità o un ‘processo attuale’. Il concetto di essere/essenza non è nient’altro che il concetto di un’attività/processo, o di una praxis [21]. Questa è una interpretazione ‘più forte’, ma credo che possa essere resa ancora più convincente suggerendo che l’‘effettualità’ che riguarda allo stesso tempo l’essenza umana e il concetto di essere/essenza (Wesen) deve essere anche intesa come la sua Aufhebungdialettica o realizzazione-negazione. Dunque ciò che ha di mira la critica non è solamente un’‘astratta’ rappresentazione dell’essenza umana, è invece la nozione di ‘essenza umana’ stessa come ‘astrazione’. Althusser ha ragione su questo punto, ma è Bloch che ci fornisce la chiave rapportando in modo sistematico l’invenzione della categoria di praxis nelle Tesi all’aforisma contemporaneo secondo cui la «filosofia deve realizzarsi» (verwirklicht), ma non può realizzarsi (o divenire ‘reale’) senza essere anche ‘negata’ (aufgehoben) come ‘filosofia’ – e viceversa: la filosofia non può essere negata senza essere realizzata [22]. Il mio personale contributo a ciò è semplicemente il seguente: nel contesto della Tesi 6, la forma tipica di ‘filosofia’ o di discorso filosofico è precisamente l’antropologia. Il che ci conduce a questa conclusione: l’antropologia come figura discorsiva (o, come Althusser direbbe, ‘problematica’) deve essere negata-realizzata (aufgehoben e verwirklicht), e dato che ‘essenza/essere umano’ (das menschliche Wesen) è la categoria da cui deriva la possibilità stessa di un’antropologia filosofica, deve essere anch’essa negata-realizzata. Ma il concetto che cristallizza questa operazione dialettica è «l’insieme delle relazioni sociali»: dobbiamo interpretarlo da questo punto di vista, cominciando con ‘relazioni sociali’ (gesellschaftlichen Verhältnisse).
È importante tenere a mente qui un triplice fatto filologico: 1) che le formulazioni di Marx sono situate storicamente sulla scia di un evento fondamentale della storia delle idee (che riguarda tanto la filosofia quanto la politica), cioè l’‘invenzione’ delle ‘relazioni sociali’ (come concetto, originariamente in francese: les rapports sociaux) [23]; 2) che ‘relazione’ dipende da un paradigma complesso, mai completamente traducibile (il tedesco Verhältnis e il franceserapport hanno in parte aree semantiche differenti), il cui uso filosofico suscita immediatamente i problemi delle opposizioni di attivo versus passivo, soggettivo versus oggettivo, interno versus esterno (che Kant ha chiamato l’«anfibolia della riflessione»); 3) che ogni discussione della formulazione marxiana implicante die gesellschaftlichen Verhältnisse (che assegnano loro una funzione ‘essenziale’) è inevitabilmente polarizzata dai successivi usi di Marx di Produktionsverhältnisse (‘ relazioni di produzione’, e le conseguenti ‘relazioni’ economiche e non economiche derivate) e Klassenverhältnisse (‘relazioni di classe’, con la conseguente descrizione del loro carattere ‘antagonistico’ ed il loro comportare differenti forme di ‘dominazione’ sociale): tuttavia, ciò che colpisce nelle Tesi è l’assenza di questa più precisa determinazione, è il fatto che la categoria di ‘relazione’ rimane ad un livello indeterminato, con la sola eccezione dell’attributo ‘sociale’. La questione per i lettori marxisti era perciò inevitabilmente posta, se cioè essi dovessero leggere le ‘relazioni sociali’ comeimplicitamente dirette verso una nozione (materialista storica) della funzione determinante della produzione e delle lotte di classe nella storia umana, o dovessero associare le Tesi con una nozione (potenzialmente più generale ogenerica) di ‘relazione’ che a sua volta tradirebbe una continuità con la tradizione dell’antropologia filosofica (nella sua stessa ‘realizzazione’ o ‘secolarizzazione), o aprirebbe la possibilità di una più ampia ontologia (sociale) basata sull’equivalenza categoriale delle due nozioni chiave (relazione e praxis, otrasformazione). Tutte queste questioni sono naturalmente connesse e posso chiarificarle qui solo parzialmente.
Per cominciare, una relation in inglese tende ad indicare una situazione oggettiva laddove una relationship indica specificamente una relazione tra persone che ha una dimensione soggettiva. Ma ‘relation’ ha anche un significato logico e ontologico (secondo cui le relazioni sono opposte ai termini o sostanze). Il francese distingue tra relation (che comunemente significa una persona a cui ci si relaziona) e rapport, che significa sia una proporzione che una struttura oggettiva, ma può anche essere usato per indicare un rapporto attivo fra persone, come in rapport sexuel e anche in rapport social (in particolare nel senso di un rapporto che ha luogo in un contesto ‘sociale’ o segue ‘regole sociali’). Il tedesco Beziehung è riservato ai contesti logici ma anche per qualificare l’attitudine di una persona nei confronti di un’altra, laddove Verhältnis essenzialmente significa una proporzione quantitativa o una correlazione istituzionale di situazioni (la formula hegeliana e marxiana: Herrschafts- und Knechtschaftsverhältnis, una relazione di dominazione e servitù/sudditanza). Tutti questi termini si sovrappongono in parte, ma ogni volta in un modo differente. Infine è importante richiamare il fatto che ognuna delle tre lingue ha un altro termine di applicazione molto ampia, specialmente nel primo periodo moderno, vale a dire commerce in francese, intercourse in inglese o Verkehr in tedesco.
All’inizio del XIX secolo sulla scia della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese, che hanno totalmente trasformato la percezione e il discorso della politica, una generazione di storici e sociologi (come diremmo oggi con uno sguardo retrospettivo) – soprattutto francesi – ha inventato il concetto di ‘società’ in un senso nuovo, che andò al di là della classica nozione di associazione/politica civile, o di regole normative per l’educazione e l’interazione di individui con differenti status, per indicare un sistema o una totalità, le cui trasformazioni e istituzioni conferiscono sì ruoli agli individui (e danno forma o provocano i loro sentimenti e le loro idee), ma seguendo determinate leggi oggettive o rivelando tendenze che non sono riducibili alle intenzioni individuali. È in questo quadro generale che i conflitti furono combattuti tra le neonate ‘ideologie’, tipiche dell’epoca post-rivoluzionaria (come ‘conservatorismo’, ‘liberalismo’ e ‘socialismo’) e che l’idea di una nuova ‘scienza’ chiamata sociologia è nata [24]. La nozione chiave per le ideologie politiche e il discorso sociologico era precisamente quella di rapporto sociale, cioè una distribuzione di ruoli e schemi di interazione tra individui e gruppi marcati da reciprocità o dominazione, che dipende dalla costruzione (o ‘fabbrica’) della società in un modo ‘organico’ e che caratterizza la sua differenzacon altre nella storia e nella geografia (quindi portando al centro le questioni della trasformazione e della comparazione nelle scienze sociali)
Non c’è dubbio che questa svolta espistemologica ha anche affinità con la nozione hegeliana di ‘spirito oggettivo’ e di ‘società civile’ (bürgerliche Gesellschaft), al cui interno il concetto fenomenologico hegeliano di ‘riconoscimento’ (Anerkennung) viene integrato come un momento soggettivo (o meglio: inter-soggettivo) per dar conto della tensione permanente di individualità e istituzione nella storia. Tuttavia una differenza importante è che le nozioni hegeliane sono più ‘deduttive’ (o addirittura speculative, a dispetto del loro importante contenuto empirico, come è testimoniato dalla lettura hegeliana della storia sociale di Montesquieu o dell’economia politica di Adam Smith o della scuola storica del diritto), poiché sono assegnate a priori per giustificare una costruzione della monarchia costituzionale borghese come il compimento storico della ‘razionalità’ in politica. E non c’è nemmeno dubbio che – nelle Tesi su Feuerbach e nell’opera immediatamente seguente (scritta con Engels e Moses Hess), l’Ideologia tedesca, in cui il concetto ‘francese’ di rapport social, è tradotto e pluralizzato come die gesellschaftlichen Verhältnisse, Marx sta cominciando a offrire il suo proprio contributo a questo mutamento epistemico, combinando una prospettiva ‘comunista’ di trasformazione radicale con un modo specificamente ‘dialettico’ di analizzare i conflitti come forze immanenti dello sviluppo e del mutamento delle strutture sociali che storicamente ‘inquadrano’ il carattere umano.
È la modalità specifica di questo contributo nelle Tesi che ci interessa qui. È allo stesso tempo esso stesso molto speculativo (anche quando viene attaccata ferocemente la speculazione ‘filosofica’) e (come ho già notato) largamente indeterminato – che significa anche che molti sviluppi potenziali rimangono latenti nelle formulazioni. È stato certamente inevitabile che, provando a superare la pura speculazione (o un’astratta critica dell’astrazione), Marx abbia avuto bisogno di ridurre l’indeterminazione dei suoi concetti. Come sappiamo (e la più parte dei commentatori concordano) ciò è già in fase avanzata nell’Ideologia tedesca (a cui mi capiterà di fare riferimento ancora). Ma per comprendere perché le Tesi hanno prodotto una tale eco in filosofia e restano un testo chiave se vogliamo ‘problematizzare’ il pensiero e le scelte di Marx, dobbiamo fare attenzione a ciò che è già lì, il ‘materialismo storico’ che sta arrivando, e a ciò che ancora differisce dai suoi assiomi. Io credo che due elementi hanno soprattutto importanza qui: uno è l’articolazione dei due attributi ‘umano’ (menschlich) e ‘sociale’ (gesellschaftlich), l’altro è l’uso enigmatico di un Fremdwort (francese) per nominare la somma totale (o l’effetto combinato) delle relazioni sociali equivalente ad una nuova definizione dell’essenza umana: das ensemble der g.V., dal momento che così tante categorie sarebbero state disponibili all’interno della tradizione filosofica tedesca.
Sarebbe una traccia utile discutere ogni singolo uso delle parole ‘umano’ e ‘sociale’ nelle Tesi. Per brevità mi concentrerò sulle implicazioni della Tesi 10nella sua relazione con la questione antropologica:
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese (die bürgerliche Gesellschaft); il punto di vista del nuovo è la società umana (die menschliche Gesellschaft) o l’umanità sociale (die gesellschaftliche Menschheit).
Di nuovo troviamo qui una di quelle belle formulazioni simmetriche che Marx era capace di inventare, così difficili da interpretare! Le ‘correzioni’ di Engels sono rivelatrici, perché portano in primo piano un contenuto politico che è solo latente, ma con il rischio di rendere confuse le implicazioni analitiche. A quanto pare, era preoccupato che l’equazione die menschliche Gesellschaft = die gesellschaftliche Menscheit equivalesse ad una tautologia. Perciò introdusse un contenuto più esplicitamente ‘socialista’ trasformando il secondo in die vergesellschaftete Menschheit, l’umanità socializzata – intendendo una società (o un ‘mondo’) in cui gli individui non sono più separati dalle loro proprie condizioni collettive di esistenza, dunque forzati in una forma ‘astratta’ di esistenza, che paradossalmente rende l’individualismo la forma ‘normale’ della vita sociale, ‘alienando’ gli esseri umani in quanto isolati dalle relazioni con gli altri da cui dipende la loro vita ‘pratica’ (o dando a quelle relazioni una forma coercitiva, inumana), una ‘separazione’ che conduce ad una ‘lacerazione del Sé’ –Selbstzerrissenheit, proprio quell’alienazione che i sentimenti comunitari e religiosi cercherebbero di curare nell’immaginario (Tesi 4). Per completare questa chiarificazione, Engels mette anche le virgolette all’aggettivo nell’espressione ‘bürgerliche’ Gesellschaft, modo per indicare che il termine ha conservato il valore tecnico che aveva nella filosofia hegeliana (la più parte delle volte tradotto oggi come ‘società civile’, come opposto di ‘Stato’ o ‘società politica’), ma anche per suggerire che la società civile ha un carattere borghese, in cui le relazioni sociali sono dominate dalla logica della proprietà privata, generando individualismo ed una forma di società alienata. L’intero argomento allora diviene esplicito: ‘il Materialismo antico’ (a cui Feuerbach ancora appartiene) non sarà capace di superare l’alienazione che denuncia ad alta voce, poiché è ancora una filosofia borghese che assume un individuo ‘naturalmente’ separato dagli altri (o riferito separatamente all’essenza dell’‘umano’), laddove un ‘nuovo Materialismo’ – le cui categorie chiave sono le ‘relazioni sociali’ costituenti l’umano e la praxis o una trasformazione pratica già all’opera in ogni forma di società – è capace di spiegare come l’umanità ritorni alla sua essenza (o al suo essere autentico) riconoscendo (non negando, reprimendo, contraddicendo) la propria determinazione ‘sociale’. In altri termini l’umano è sempre stato ‘sociale’ dal punto di vista delle sue condizioni materiali (o non è mai consistito in nient’altro che nelle ‘relazioni sociali’ in sé), ma era per sélacerato e alienato, contraddicendo questa essenza nella sua ideologia e nelle sue istituzioni, con la moderna società ‘civile-borghese’ che spinge le contraddizione all’estremo. Ed è ora necessario che la contraddizione sia risolta con la società eliminando praticamente i suoi propri ‘prodotti’ alienati e riconciliandosi con se stessa – in altri termini pienamente ‘umano’ e realmente ‘sociale’.
Questa è una lettura del tutto compatibile con alcune delle più esplicite affermazioni di Marx a proposito dei vari gradi dell’emancipazione umana come erano enunciati nei suoi scritti dello stesso periodo, in cui è proposta una ‘dialettica’ del rovesciamento dell’alienazione (la separazione degli esseri umani dalla loro propria essenza) [25]. Ma risolve in modo troppo semplice le tensioni filosofiche implicate nel permanente duplice uso in Marx (quid pro quo) dei nomi ‘umano’ e ‘sociale’, derivante dalla distribuzione dei loro usi morali (o etici) e del loro significato storico (o descrittivo) in categorie differenti, trasformando dunque la forte dimensione performativa degli scritti di Marx (che è anche al centro del suo ‘umanesimo pratico’ o ‘umanesimo reale’) in un sillogismo politico. Laddove Marx stava di fatto suggerendo che una autentica relazione dei soggetti al proprio essere/essenza (Wesen) avrebbe inevitabilmente trasformato la nostra interpretazione di ciò che significa essere (un) ‘uomo’, perché rivelerebbe che l’umano è essenzialmente ‘sociale’, ed il ‘sociale’ è allo stesso tempo una condizione di possibilità per ogni vita individuale (o ‘l’uomo è un’animale sociale’ come è stato ratificato dalla tradizione post-aristotelica) ed una realizzazione ideale delle aspirazione etiche dell’uomo (in altri termini una forma di vita ‘comunista’), Engels suggerisce ora che un processo disocializzazione sta avendo luogo nella storia in modo che emergano le condizioni in cui è possibile trasformare la ‘natura umana’ in un modo rivoluzionario. Ma questa ridistribuzione dei lati storico ed etico della due categorie tra i regni complementari di ‘fini’ e ‘significati’ ha anche il risultato di immettere nelle formulazioni marxiane una ‘ontologia sociale’ che non vi è necessariamente (o non è letteralmente presente). E, come conseguenza, nel ridurre l’indeterminazione delle affermazioni di Marx, riduce le loro potenzialità [26]. Possiamo trovare una conferma che questa riduzione abbia avuto luogo se esaminiamo l’altro effetto stilistico enigmatico in questa parte di Tesi 6, vale a dire l’uso della parola francese ensemble.
Sostengo che non possiamo semplicemente spiegarlo in un modo ‘debole’, facendo riferimento a circostanze e condizioni di scrittura: il fatto che Marx (che comunque scriveva e parlava correntemente francese) stava vivendo a Parigi al tempo, e inserisse in modo abbastanza naturale delle parole francesi nelle sue note personali quando gli venivano in mente più rapidamente dei concetti tedeschi (ha fatto la stessa cosa più tardi con l’inglese). Questo può essere vero, ma offusca il fatto che certe opposizioni semantiche cruciali sono qui in gioco. In effetti ensemble, un termine provocatoriamente ‘neutrale’ o ‘minimale’, ha senso se lo vediamo come un’alternativa a nozioni speculative , che sono centrali nella dialettica hegeliana (ma anche nel discorso ‘sociologico’ emergente, con la sua ossessione di ‘organicità), come das Ganze, die Ganzheit (o Totalität), o die gesamten (gesellschaftlichen Verhältnisse), cioè il tutto, la totalità (organica delle relazioni sociali). Ciò che Marx sta qui evitando con cura è una categoria che indichi completezza, proprio nel momento in cui sembra seguire esattamente il movimento hegeliano che privilegia la ‘concreta universalità’ contro l’‘astrazione’ (dato che il concreto e il completo in Hegel sono sinonimi) [27]. Dunque si sta allontanando da Hegel nel momento in cui gli si avvicina di più. Per mettere la cosa in modo più provocatorio, è come se Marx stesse capovolgendo la scelta hegeliana per il «buon (o reale) infinito» (che significa un infinito che è integrato nella forma di una totalità) in favore del «cattivo infinito» (un infinito che è solo indefinito, identico con una mera addizione o successione di termini, che rimane aperto). Questa ipotesi è supportata da una singola sintomatica parola, ma ha il grande interesse di rendere possibile combinare tutti gli elementi logici, ontologici e anche onto-teologici in una singola operazione.
Io credo che possano essere attribuite tre connotazioni positive all’apparentemente negativa preferenza per das ensemble al posto di das Ganze, in altre parole l’uso di un Fremdwort che performativamente decostruisce l’effetto-totalizzazione o (per prendere a prestito per un momento il linguaggio di Sartre) indica che la ‘nuova’ categoria di essere/essenza (Wesen) funziona solo come una ‘totalità detotalizzata’ (o forse persino come una ‘totalità auto-de-totalizzante’). La prima è una connotazione di orizzontalità: le ‘relazioni sociali’ interagiscono o interferiscono l’una con l’altra, ma non devono venire gerarchizzate verticalmente (con alcune relazioni che sono più decisive, o più essenzialmente umane, ed un tipo di relazione che determina le altre ‘in ultima istanza’) [28]. La seconda è una connotazione di indefinitezza o serialità, che significa che le relazioni sociali che sono costitutive dell’umano formano una rete che rimane aperta, e che per esse non c’è né una chiusura concettuale (dunque non una demarcazione a priori o empirica tra ciò che è umano e ciò che non lo è), né una chiusura storica (dunque non ascrive limiti allo sviluppo delle relazioni/attività sociali che aprono nuove possibilità per l’umano, siano esse costruttive o anche distruttive). Infine possiamo evocare una connotazione dimolteplicità nel senso forte, cioè di eterogeneità: non solo vi sono di fatto molteplici ‘relazioni sociali’ che ‘formano’ l’umano, ma dipendono da molti domini differenti, differenti generi (o come direbbe Bloch, esse formano unmultiversum), e non da uno solo che conferirebbe ad esse la qualità ‘umana’. Di conseguenza non è come nella polis aristotelica, con cui la concezione marxiana sembra condividere così tanti assiomi ‘anti-individualistici’, in cui vi è una molteplicità di relazioni sociali, simmetriche o dissimmetriche, ma sempre attribuite all’umano in virtù dell’uso del linguaggio (o discorso: logos): è piuttosto come nella metafisica di Aristotele, in cui differenti ed eterogeneigeneri di essere cono chiamati così per analogia, distributivamente, ma non sono emanazioni di un supremo genere univoco che sarebbe l’‘Essere in quanto tale’.
Se assumiamo queste connotazioni insieme (e evitando con cura di imporre ad un livello più generale qualcosa come un ‘insieme di insiemi’), possiamo infine capire perché la critica interna della stessa nozione di ‘essenza’, la dissoluzione di astratte rappresentazioni dell’Umano (o nozioni ‘umaniste’ ereditate dalla tradizione metafisica e fatte proprie da filosofi borghesi per riconciliare l’individualismo economico con nozioni politiche e morali di comunità), e un uso contraddittorio del concetto hegeliano di ‘realtà effettuale’ sono imbricati in questo modo complesso. Scrivere che «nella sua realtà (Wirklichkeit) l’essere/essenza umana (Wesen) non è un’astrazione che abita l’individuo singolo/singolare/isolato, ma l’ensemble (aperto, indeterminato) delle relazioni sociali» è un atto performativo che simultaneamente trasforma il significato di tutti i termini chiave che usa. Nella misura in cui il termine ‘essenza’ viene applicato in un modo ‘materialista’ al problema antropologico acquista anche un paradossale significato (anti)ontologico per mezzo di cui i suoi effetti riconosciuti sono capovolti: invece di ‘unificare’ e ‘totalizzare’ una molteplicità di attributi, apre ora una indefinita gamma di metamorfosi (o trasformazioni) nella misura in cui gli individui sono essenzialmente ‘modi’ (come direbbe Spinoza) delle relazioni sociali che essi producono attivamente, o attraverso cui interagiscono collettivamente con altri e con le ‘condizioni’ naturali. Questa critica rivela che può esservi una singola alternativa alle apparentemente antitetiche nozioni di individualità e soggettività ereditate dalla metafisica Occidentale – una alternativa che si ripromette di non creare nuove figure dell’‘essere supremo’
3. La biforcazione: ‘ontologie’ e ‘antropologie’ rivali
Traendo lezione da queste considerazioni filologiche e semantiche e ritornando alla difficoltà centrale che concerne una relazione ‘trasformativa’ o ‘performativa’ del pensiero di Marx (e le scelte concettuali espresse attraverso le parole) al problema dell’‘antropologia’, per cui testimoniano interpretazioni antitetiche nella storia del marxismo, riassumerei le mie congetture nel modo seguente:
a) Non c’è modo per discutere le tensioni nell’idea di un’antropologia filosofica, e le sue relazioni ad un ideale di ‘umanesimo’, senza inserirla in una questione ontologica, che di fatto ci forza, non solo a collocare il dibattito sull’antropologia nel suo immediato contesto moderno, o ‘borghese’, ma anche a ritornare al più ampio dominio della ‘storia della metafisica’, delle sue ‘rivoluzioni’ e problematica ‘fine’. Ho suggerito la stessa cosa nel passato proponendo che la ‘prima’ filosofia materialista di Marx sia da riferire ad un’‘ontologia della relazione’, in cui la nozione fondamentale non è quella di ‘individualità’ ma di ‘transindividualità’ (o un concetto dell’individuo che include sempre-già le sue relazioni a – o dipendenza da – altri individui) [29].
Ma poi può sorgere una ambiguità pericolosa. Potremmo credere che – proprio come, per Bloch ed altri, ciò che distingue l’invenzione di Marx non è una rozza soppressione del problema antropologico, ma il suo essere traferito dalle astrazioni borghesi/metafisiche a determinazioni storico-sociali – tutto il problema abbia a che fare con l’invenzione di una ontologia sociale. Possiamo vedere ora che si tratta di una formulazione ambigua. Può significare che stiamo ‘ontologizzando il sociale’, che a sua volta significa o che la ‘società’ come un tutto (un sistema, un organismo, una rete, uno sviluppo…) è istallata nel posto dell’‘essere’, o che l’emergenza del sociale (come opposto del biologico, dello psicologico etc.) è ‘essenzialmente’ attribuito a qualche istanza quasi-trascendentale, che ha una qualità ‘socializzante’ (come linguaggio, o lavoro, o sessualità, o anche ‘il comune’, ‘il politico’). O, forzando le rappresentazioni anteriori, potrebbe significare che stiamo ‘socializzando l’ontologia’: non nel senso di sottoporre l’ontologia a qualche preesistente principio sociale più fondamentale (cosa non molto differente dall’installare la ‘Società’ dove abitualmente stava ‘Dio’ nella metafisica classica), ma nel senso di ‘tradurre’ ogni domanda ontologica (per es. individuazione/individualizzazione, l’articolazione di ‘parti’ e ‘tutto’, l’imbricazione di passato, presente e futuro etc.) in una domanda ‘sociale’ nel senso più generale, quelle circa le condizioni o relazioni che impediscono all’individuo umano la possibilità dell’isolamento, quali che siano la ‘materia’ o la ‘sostanza’ e le modalità o funzioni di queste relazioni. ‘Relazionarsi’ e ‘essere in relazione a’ sarebbe quindi considerata l’impronta fondamentale dell’umano.
Questo era a dire il vero quello che avevo in mente quando, alcuni anni fa, ho interpretato in questo senso l’affermazione marxiana: «nella sua realtà, l’essenza/essere umano è l’insieme delle relazioni sociali». Ma qualcosa di disturbante rimane da chiarire, vale a dire il fatto che, ancora una volta, siamo stati forzati a far uso dell’aggettivo ‘umano’ proprio nella formulazione che revoca l’‘umanesimo’ dai nostri discorsi, cioè impedisce ogni possibilità di identificare/definire ‘l’umano’ prima della (sempre incompleta) scoperta della molteplicità degli altri modi di ‘relazionare esseri umani’, o ‘relazionare un essere umano’. Io vedo una sola possibilità di superare questa difficoltà: trarre le conclusioni in modo radicale dal fatto che l’‘umano’ (o ‘uomini’ nella lingua classica) esiste solo al plurale. Questo non solo per dire che una pluralità fatta di singolarità irriducibili (o ‘persone’) è una condizione originaria dell’essere umano (tesi della Arendt), forse nemmeno solo che la ‘moltitudine’ è la figura originaria dell’esistenza nella società e nella storia (tesi di Negri), ma che le relazioni sociali in senso forte sono quelle che, tenendo insieme gli esseri umani o impedendo il loro ‘isolamento’, fanno anche la loro irriducibile differenza, in particolare distribuendoli tra varie ‘classi’ – che non significa dire che queste distribuzioni sono stabili o eterne o coerenti tra di loro [30]. In altri termini le ‘relazioni sociali’ sono sempre internamente determinate come differenze, trasformazioni, contraddizioni e conflitti, che sono sufficientemente radicali per lasciare solo l’eterogeneità che essi creano come ‘il comune’ (o in una terminologia filosofica più gergale: l’essere-con o Mitsein) senza cui gli individui ‘relazionandosi’ l’un l’altro ritornerebbero all’isolamento essenziale, o all’‘individualismo’ ontologico [31]. Ma questo non è veramente differente dall’affermare che le relazioni sociali sono ‘pratiche’ (o l’essenza della società èpraxis, come Marx ha potentemente enunciato nelle Tesi), in altri termini le caratteristiche distintive delle relazioni (ed anche la ragione per cui, ad un secondo grado, esse devono essere articolate l’una all’altra o si influenzano l’un l’altra senza essere fuse in un unico ‘tutto’) sono il modo in cui esse rendono possibile per alcuni ‘individui’, ‘gruppi’, ‘parti’ (o anche partiti) di trasformare altri, essendo trasformati da altri, e forse alla fine di trasformare la modalità della relazione stessa. Come Marx suggeriva, ‘relazione’ e ‘praxis’ divengono dei termini strettamente correlativi (ed il secondo non è meno metamorfico overänderbar del primo…) non appena una nozione di ‘realtà effettuale’ è recisa dall’ideale (teologico, spirituale) di ‘completezza’, per essere associata con uno schema di ‘infinità aperta’ [32].
b) Ma un’ancora più grande anfibolia ‘abita’ un tale tentativo di identificare come dobbiamo intendere l’operazione filosoficamente sovversiva nella ri-definizione/de-costruzione di Marx dell’‘essenza umana’: è l’anfibolia circa l’interpretare le relazioni e il loro intrinseco processo di ‘trasformazione’ (omutamento: Veränderung nella terminologia delle Tesi) come ‘esterno’ o ‘interno’, inscritto in una distribuzione (mutevole) di condizioni e di forze, o in uno sforzo decisivo (forse solo una deviazione) dei soggetti che li costituisce in creatori delle loro proprie relazioni [33]. Questa a dire il vero è una discussione molta antica in filosofia. Ciò che qui ci interessa sono le ragioni per cui tali aporie che sembrano rinviarci alla ‘metafisica’ non cessano mai di ritornare all’interno di un discorso ‘dialettico’ che, in principio, ha esposto il loro carattere puramente ‘astratto’ (prima, in Hegel, ma anche in Marx). Molti brillanti discorsi ‘marxisti’ sono stati elaborati per risolvere filosoficamente il dilemma dell’esternalità versus l’internalità, per trasporre su un piano differente la nozione hegeliana di soggettivazione come interiorizzazione dialettica delle relazioni interne. Basti pensare semplicemente (in direzioni opposte) alla nozione ultra-hegeliana di Lukács del Proletariato come un ‘soggetto-oggetto’ della storia, la cui coscienza di classe implica la negazione della ‘totalità’ delle relazioni sociali già trasformate dal capitalismo in relazioni mercantili, dunque un capovolgimento attivo e immanente di queste stesse relazioni ‘reificate’. [34] O la proposta ‘spinozista’ di Althusser (e radicalmente anti-hegeliana) che lo stesso processo storico ‘surdeterminato’ potrebbe essere analizzato nei termini delle sue condizioni ‘esterne’ oggettive e necessarie così come nei termini delle sue azioni o capacità di agire intrinseci ‘aleatori’ e transindividuali (che egli chiama ‘incontri’) [35]. In questa notazione conclusiva voglio solo descrivere come l’anfibolia affiori nel ‘momento’ delle Tesi (e dell’Ideologia tedesca, in breve nel 1845).
Io credo che le aporie nel testo di Marx siano interessanti non solo come oggetto per i ‘marxologi’ ma perché formano un episodio tutto nuovo della antica controversia sulla possibilità (o impossibilità) delle ‘relazioni interne’, che in un certo senso (da Platone a Russell…) raddoppia la controversia tra nominalisti e realisti a proprosito degli ‘universali’. Hegel, a dire il vero, è un esempio privilegiato di un filosofo che non solo difende l’idea che le ‘relazioni interne’ (cioè le relazioni che non stanno solo legando in un modo contingente, o dall’esterno, ‘termini’ come individui o sostanze che rimangono indipendenti dalle loro relazioni, ma sono rispecchiate nella costituzione o disposizione dei loro stessi supporti) esistono [36], ma della idea assai più forte che le relazionisono ‘reali’ solo se sono, precisamente, interne o internalizzate. Che, nel suo caso, può solo significare che sono relazioni ‘spirituali’, o sono divenute momenti nello sviluppo del Geist (oggettivo), cioè sono realizzate nella forma di istituzioni storiche dotate della coscienza del loro valore culturale, della loro funzione politica etc. Come criticare questa costruzione ‘spiritualistica’ (ed anche teleologica) dell’internalità delle relazioni senza ritornare semplicemente a ciò che essa era intenzionata a superare, vale a dire una rappresentazione meccanicistica e naturalistica delle relazioni esterne (cioè essenzialmente relazioni non-soggettive) per mezzo di cui i termini che fungono da supporto (siano essi ‘individui’, ‘nazioni’, ‘culture’, ‘classi’ etc.) sono passivi eautonomizzati dal loro elemento ‘comune’? Ma anche: perché evitare il privilegio dell’esternalità (spazio, materia, disseminazione, contingenza…) che precisamente ogni spiritualismo aborre e ogni materialismo a contrario rivendica e prova a costruire dentro la sua propria concezione di ‘capacità di agire [agency]’ o persino di ‘soggettività’? Perché ‘l’essere soggetto’ dovrebbe equivalere ad ‘interiorità’ [37].
Se proiettiamo queste interrogazioni sulla nostra lettura della Tesi di Marx della Wirklichkeit dell’‘ensemble’ delle relazioni sociali, mi sembra che ciò che scopriamo è una permanente oscillazione tra due possibilità di ‘interpretazione’, una più ‘esternalista’, la seconda più ‘internalista’, benché mai interamente separate. Un modo di leggere l’‘ensemble’ lo identifica con ciò che più tardi si intenderà con una struttura, dunque insistendo sul fatto logico che i processi di soggettivazione che accompagnano la passività o il divenire attivo (anche rivoluzionario) degli agenti sociali sono interdipendenti, e formalmente dipendenti dalle relazioni che formano le loro ‘condizioni’ (per esempio, i movimenti anti-capitalistici sono dipendenti dalle trasformazioni del capitalismo che influenzano le loro ideologie o coscienze, le loro forme di organizzazione etc.). Ma un’altra via di lettura è quella di riprendere il grande modello hegeliano dell’intersoggettività o ‘riconoscimento conflittuale’ (come esposto fondamentalmente nella dialettica Servo-Signore della Fenomenologia): questo modello sfugge ad ogni rischio di ontologizzare la relazione nella forma di una struttura astratta e formale che domina dall’alto le azioni di soggetti storici, perché suggerisce che le dimensioni istituzionali delle relazioni sociali sono essenzialmente cristallizzazioni o materializzazioni della dissimmetria che influenza la percezione dell’altro per ogni soggetto (per esempio, la reciproca incapacità del signore e del servo di ‘percepire’ ciò che rende la visione del mondo dell’altro irriducibile alla propria: sacrificando la vita per il ‘prestigio’ o coltivando il lavoro come un valore progressivo), ma produce anche l’illusione che, in un dato conflitto sociale, qualcosa che abbia luogo all’insaputa dei soggetti coscienti (o che resti bewusstlos, come la mette Hegel) può in ultima istanza venire reintegrato o ‘interiorizzato’ nella coscienza in modo tale che soggettività antagoniste (o semplicemente differenti) siano immagini speculari di un solo ‘spirito’. In una terminologia differente, potremmo dire che vi è un elemento di ‘transindividualità’ in ognuna di queste possibilità.
È molto interessante vedere che, nell’Ideologia tedesca, la cui scrittura accompagna la concezione delle Tesi su Feuerbach o le segue immediatamente, Marx prova a ‘mediare’ l’anfibolia dell’interpretazione interna o esterna della categoria di ‘relazione sociale’ (o la sua fluttuazione in direzione di una struttura oggettiva o in direzione di una pura intersoggettività) attraverso un pressoché ubiquo uso del termine Verkehr (‘commercio’ o ‘rapporto’) che può essere letto da entrambi gli angoli (o in entrambi i registri). Presto, tuttavia, la dualità ritornerà con differenti modi di spiegare l’alienazione che caratterizza le relazioni all’interno del capitalismo (e più in generale la società borghese) [38]: come un’estraneazione dei soggetti dal loro proprio ‘mondo’ collettivo, o come un lacerarsi di quel mondo in mondi della vita antitetici, uno utilitaristico e individualistico e uno immaginario e comunitario (la spiegazione che è chiaramente privilegiata dagli aforismi nelle Tesi nel descrive l’ideologico come ‘duplicazione’ del mondo sociale), o con un modello maggiormente strategico di dominazione, conflitto e scontro politico tra ‘classi’ (che il Capitale chiama Herrschafts- und Knechtschaftsverhältnis come relazione politica che ‘direttamente’ sorge dall’‘immediato antagonismo’ nel processo di produzione tra lavoratori sfruttati e proprietari dei mezzi di produzione) [39]. In entrambi i casi, tuttavia, la molteplicità iniziale (ed eterogeneità) delle ‘relazioni sociali’ è stata sussunta sotto (e di fatto ridotta a) l’assoluto privilegio delle relazioni di lavoro, che riporta in auge un’‘ontologia sociale’ poiché conferisce al solo ‘lavoro’ la capacità di ‘socializzare’ realmente i soggetti in una ‘divisione del lavoro’, e tende a rappresentare la società come un ‘organismo produttivo’, per quanto complesso possa essere concepito il sistema delle altre istanze (più tardi chiamate ‘sovrastrutture’, Überbau) che derivano dalla funzione materiale del lavoro, o che lo ricoprono ideologicamente. L’alienazione sociale in tutte le sue forme (psicologica, religiosa, artistica…) è essenzialmente uno sviluppo dell’alienazione del lavoro. Ed il conflitto politico è essenzialmente un antagonismo tra classi che sono classi lavoratrici o classi proprietarie che vivono del lavoro di altri uomini, come il Manifesto afferma senza indugio.
c) Marx dopo il momento fuggitivo delle Tesi ha probabilmente avuto ragioni molto buone per completare questa riduzione antropologica al lavoro alienato con l’ontologizzazione dell’affermazione indeterminata nella Tesi 6 sull’‘essenza umana’ (e ancora una volta ci si lasci ripetere che questo non è tanto un ‘tradimento’ della radicalità filosofica espressa dagli aforismi del 1845 quanto una continuazione, in una congiuntura data, della rischiosa speculazione che queste avevano iniziato): c’era l’enorme estensione dei fenomeni sociali, che vanno dalla vita di ogni giorno sino alle trasformazioni costituzionali dello Stato e le nuove forme di politica di massa, prodotte dalla rivoluzione industriale e dall’ascesa del capitalismo – che probabilmente erano persino più decisive nella loro forma negativa, vale a dire l’imperativo ‘materialista’ di contrastare la soppressione borghese del ruolo sociale attivo dei lavoratori e delle classi operaie, e la negazione intellettuale delle forze e attività ‘produttive’. Senzaquesta equazione unilateralmente asserita da Marx (relazioni sociali = relazioni di produzione, o loro conseguenze) dovremmo forse ancora identificare una ‘società’ con uno spirito o una cultura, o un regime politico… Tuttavia, dobbiamo misurare pienamente le conseguenze antropologiche (sono tentato di dire ilprezzo antropologico) implicato in questa riduzione (prima di tutto nel senso di una ‘riduzione di complessità’).
Forse il modo migliore per misurarlo, all’interno di una discussione sulle Tesi su Feuerbach, è indicare quali conseguenze deformanti produce sulla lettura e sull’interpretazione di Feuerbach stesso. La principale obiezione di Marx contro Feuerbach nelle Tesi e che quella sua concezione di materialità/sensibilità (Sinnlichkeit) resta ‘astratta’ o ‘inattiva’ (cosa che curiosamente significa allo stesso tempo che manca allo stesso tempo una dimensione ‘soggettiva’ e ‘oggettiva’: cfr. Tesi 1). Di conseguenza Feuerbach starebbe sussumendo singoli esseri umani sotto un’essenza umana che è solo un’idea, per quanto fosse proclamata ‘concreta’ o ‘empirica’. Al contrario, il materialismo proprio a Marx identifica le relazioni sociali con l’attività (Tätigkeit), ma questa attività diventerebbe omnicomprensiva quando (nel passo successivo) fosse definita come un continuo processo collettivo che è sia poiesis che praxis, che varia dalle attività produttive elementari alle insurrezioni rivoluzionarie e fa del lavoratore collettivo qua lavoratore/produttore un potenziale rivoluzionario (e per converso, il soggetto rivoluzionario un conscio, organizzato e indomito lavoratore) Questa è la base della grande narrazione comunista. Ma è una lettura corretta di Feuerbach? Nient’affatto e per una buona ragione: non si potrebbe dire senza qualificazione che il concetto di Feuerbach di essenza umana si riferisce solo ad una «astratta nozione di genere» in cui la dimensione relazionale è assente (e che per questa ragione immagina che il genere separatamente ‘abiti’ ogni individuo, conferendogli una qualità ‘umana’ nellastessa maniera). Il genere (Gattung) di Feuerbach è esso stesso profondamente relazionale, perché è concepito nei termini di un ‘dialogo’ tra soggetti distinti come ‘Io’ e ‘Tu’. Ciò che resta problematico naturalmente è se il tipo di ‘relazionalità’ dialogica che, secondo Feuerbach, è inerente all’essenza umana, possa essere chiamata ‘sociale’. Probabilmente è esistenziale più che sociale. Ma, a sua volta, non vi è un rischio che la negazione di Marx che ciò che Feuerbach chiama una ‘relazione’ (una Beziehung più che una Verhältnis) abbia un carattere ‘sociale’ nasca dalla sua arbitraria decisione di identificare certe relazioni e pratiche (connesse alla produzione ed al lavoro) come relazioni sociali e pratiche socializzanti a spese di tutte le altre?
Più in specifico. La Tesi 4 è una buona guida qui: nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach ‘demistifica’ i misteri della teologia riducendo le nozioni teologiche (per cominciare, il concetto di Dio) a nozioni antropologiche e a «realtà umane». Ma più precisamente è alle prese con una interpretazione del dogma cristiano della Trinità nei termini di una duplice trasposizione: una trasposizione dell’istituzione ‘terrena’ della famiglia nell’immagine ideale della ‘Sacra Famiglia’, seguita da una trasposizione della Sacra Famiglia stessa (come una comunità immaginaria) in una più speculativa comunicazione delle ‘persone’ divine (hypostases) che si ipotizza siano Una in Tre (cioè pienamente ‘riconciliate’) – il Padre, il Figlio (il Verbo incarnato) e lo Spirito, al posto del Padre, del Figlio e della (vergine) Madre. Da qui non è lunga la via per spiegare che il ‘segreto’ della teologia cristiana è una proiezione delle relazioni sessuali tra gli uomini (segnata dal desiderio, dall’amore imperfetto, dal piacere dei sensi) in un ideale amore perfetto (che celebri passaggi della Bibbia identificano schiettamente con ‘Dio’) [40]. Con questa dottrina noi vediamo un’altra possibilità di interpretare un’affermazione quale «L’essenza umana non è un’astrazione … nella sua realtà è l’insieme delle relazioni (sociali)», che non sarebbe diretta contro Feuerbach, ma piuttosto sosterrebbe la sua posizione: suggerirebbe che ciò che ‘abita’ gli individui e li rende ‘umani’ è la relazione sessuale con le sue dimensioni affettive (amore) e le sue realizzazioni istituzionali (famiglia). Perciò essi sono costituiti nelle e dalle relazioni. Questo è anche un modo di enfatizzare un Verkehr (nel senso di ‘commercio’) come struttura produttiva-riproduttiva dell’umano [41].
Cosa potrebbe obiettare Marx a questa possibile difesa feuerbachiana? Probabilmente ciò che è latente nella Tesi 4 e leggermente più sviluppato nell’Ideologia tedesca, vale a dire che la visione di Feuerbach della ‘famiglia terrena’ non è essa stessa molto ‘reale’, perché rimuove le contraddizioni attraverso la sua enfasi (romantica) sull’‘amore’, anche se cerca ciò nondimeno di collocare la fonte dell’‘alienazione’ nell’imperfezione o nella finitudine della sessualità umana. Nell’Ideologia tedesca Marx (ed Engels) spiegherà che la differenza sessuale (come una differenza di ‘tipi’ umani) risulta da «una divisione sessuale del lavoro» (sic) tra uomini e donne. E nel Manifesto del partito comunista (1847), prendendo l’argomento a prestito dal criticismo ‘femminista’ saintsimoniano, spiegheranno che il matrimonio e la famiglia borghese è una forma di «prostituzione legalizzata» (in perfetto accordo con l’affermazione della Tesi 4 che la «contraddizione» inerente alla «base» terrena della religione può essere risolta solo attraverso l’«annichilazione teoretica e pratica della famiglia»). Questo è un argomento potente che vale a spiegare che le nozioni ‘metafisiche’ dell’essenza umana non sono solo ereditate da un passato ideologico, ma sono permanentemente ricostituite attraverso i processi che ‘sublimano’ le contraddizioni sociali di tutti i tipi. Ma conferma anche la tendenza marxiana ad eliminare alcune delle potenzialità della sua ‘tesi’, al fine di non ‘aprire’ l’‘ensemble’ delle relazioni sociali nella direzione di una illimitata variazione di modi eterogenei di socializzazione (dunque anche modi di soggettivazione), ma di reinstaurare una quasi-trascendentale equivalenza del ‘sociale’ (e del ‘pratico’) con l’attributo specificamente (essenzialmente) umano del ‘lavoro’ (e opera). È attraverso una rivoluzione nella divisione del lavoro che gli agenti umani potrebbero trasformare le loro proprie relazioni costitutive (che li rendono umani), non attraverso una ‘rivoluzione’ in una qualsiasi delle relazioni subordinate e accidentali che formano così tanti campi di applicazione per la stessa generale divisione del lavoro. E, in questo modo, i poteri dell’Uno (unità, uniformità, totalità) sono imposti con ancora maggior forza, poiché essi divengono i poteri stessi del novum, dell’emancipazione a venire [42].
Note
[1] Keynote address, One Day Conference «The Citizen-Subject Revisited», 24 ottobre 2011, department of English, SUNY Albany, New York.
[2] Marx morì nel 1883. Engels ha spiegato che Marx era così riservato sulle Tesiche non le aveva condivise con lui, benché a quel tempo i due stessero già lavorando insieme e scrivendo a quattro mani. Alcune delle sue correzioni, pensate per migliorare una redazione ‘affrettata’ e chiarificare l’intenzione delleTesi, sono lungi dall’essere innocenti. Questo è il caso, in particolare, della famosa Tesi 11, che nella formulazione originale marxiana recita: «Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kömmt drauf an, sie zu verändern». Engels l’ha corretta così: «Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt aber darauf an, sie zu verändern», cambiando il modo del verbo e aggiungendo ‘aber’ nella seconda proposizione, con ciò introducendo a forza nel testo l’idea di una mutua esclusione tra ‘interpretare’ e ‘trasformare’, che non vi era necessariamente. Di conseguenza è stata letta come un’opposizione generale tra praxis (rivoluzionaria) e (mera)teoria, con l’aiuto di altre formulazioni delle Tesi. Allo stesso modo vedremo che anche la Tesi 6 contiene una correzione che merita una discussione.
[3] «Identico è il pensare e l’essere» (Parmenide, Testimonianze e frammenti, tr. it., leggermente mod. di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958, p. 131; cfr. la nuova edizione con commento – in francese – di B. Cassin, Parménide, Sur la nature ou sur l’étant – La langue de l’être?, Seuil, Paris 1998).
[4] «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 82)
[5] «L’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose»; B. Spinoza, Ethica II, pr. 7 (la tr. dell’Etica è quela di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988).
[6] «I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche»; I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 75/A 51, tr. it di G. Colli, vol. 1, Bompiani, Milano 1987, p. 109.
[7] Per Ernst Bloch, cfr. Das Prinzip Hoffnung, vol. I (Suhrkamp Edition, Frankfurt a. M. 1959, tr. it. di T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994), e anche: «Keim und Grundlinie. Zu den Elf Thesen von Marx über Feuerbach», in Deutsche Zeitschrift zur Philosophie, 1, 1953, 2, p. 237 e sgg. Per Althusser cfr. Pour Marx, capitolo, «Marxisme et humanisme» (tr. it. a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano 2008). Althusser è ritornato sull’interpretazione delle Tesi su Feuerbach in un modo assai più critico in un testo postumo (datato 1982) «Sur la pensée marxiste», pubblicato in Futur Antérieur, numero speciale «Sur Althusser. Passages», 8, 1993, tr. it. a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, in Sul materialismo aleatorio, Mimesis, Milano 20062.
[8] Il Principio speranza è stato scritto durante il periodo bellico quando Bloch era in esilio in USA, ma fu pubblicato solo dopo il suo ritorno nella Germania Occidentale tra il 1954 e il 1957.
[9] Questo schema è molto differente dall’idea tradizionale che Hegel ereditò da Leibniz, secondo cui il presente è ‘gravido’ dell’avvenire che ne nascerà. In realtà è l’opposto. Sarebbe interessante porre in relazione ciò con il fatto che sia Bloch che Althusser (indipendentemente) hanno insistito sulla ‘non-contemporaneità’ del presente come sua struttura tipica.
[10] La nozione di ‘umanesimo reale ‘ è usata soprattutto nella sua opera immediatamente precedente (scritta con Engels): La sacra famiglia (1844). Cfr. l’inizio della prefazione: «L’umanismo reale non ha in Germania un avversario più pericoloso dello spiritualismo o dell’idealismo speculativo, che pone al posto dell’uomo reale individuale l’‘autocoscienza’, o lo ‘spirito’ ed insegna con l’evangelista: ‘è lo spirito che vivifica, la carne è inutile’. È chiaro che questo spirito privo di carne ha spirito solo nella sua immaginazione. Ciò che noi combattiamo nella critica baueriana è appunto la speculazione riproducentesi come caricatura. Essa rappresenta per noi l’espressione più completa del principio cristiano-germanico, il quale tenta il suo ultimo esperimento trasformando ‘la critica’ stessa in una potenza trascendente» (K. Marx, F. Engels,La sacra famiglia, in Marx Engels Opere, vol. 4, tr. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 5).
[11] Prendo a prestito l’espressione «disputa sull’umanesimo» (la querelle de l’humanisme) da Althusser stesso, che ha progettato un libro (lasciato incompiuto) con questo titolo. Conio l’espressione ‘disputa sull’universalismo’ sullo stesso modello.
[12] Nel punto seguente, che rettifica parzialmente la mia presentazione orale alla One Day Conference «The Citizen-Subject Revisited», SUNY Albany, October 24, 2011, non tento una lettura integrale delle Tesi (anche se traggo alcuni chiarimenti dagli altri aforismi di Marx). Perciò lascio a lato la questione dell’‘ordine’ o ‘struttura’ delle 11 Tesi, che ho toccato di passaggio. Sia Bloch (nel suo saggio) che Althusser (nel suo insegnamento orale) avevano suggestioni ‘tematiche’ molto specifiche circa il modo in cui le tesi avrebbero dovuto essere ‘divise’ e ‘raggruppate’ al fine di gettar luce sulla costruzione latente dei loro argomenti e concetti. Un’ulteriore interpretazione molto interessante è stata offerta da Georges Labica: cfr. il suo Karl Marx. Les Thèses sur Feuerbach, Presses Universitaires de France, Paris 1987.
[13] Jacob Böhme, Von der Menschwerdung Jesu Christi (1620) (edizione online a cura di Gerhard Wehr, Google ebook), 3-1.5 e 3-7.4.
[14] È comune nella tradizione filosofica e teologica spiegare metaforicamente il fatto che l’anima ‘abita’ (habitat) il corpo, o che il corpo forma una ‘casa’ per l’anima. Inhabitare/inwohnen indicherebbe una relazione più intima e più intensa, come quella della ‘presenza’ di Dio nell’anima del fedele. Il suo uso è spesso associato con sviluppi della dottrina trinitaria (cfr. K. Lehmkuhler,Inhabitatio: Die Einwohnung Goottes Im Menschen, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 2004).
[15] Questo discorso è fortemente indebitato con il lavoro di Alain de Libera sulla genealogia del ‘soggetto’ tra scolastica e modernità: cfr. il suo contributo alla nostra voce comune «Soggetto» del Vocabulaire Européen des Philosophies a cura di Barbara Cassin (2004), e i due volumi della sua Archéologie du Sujet, Librairie Vrin, Paris 2007/2008.
[16] Una connessione essenziale tra Kant e Feuerbach su questo punto è, in verità, costituita da Hegel, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817 e 1830), in cui, tuttavia, il concetto di Gattung come ‘specie’ è limitato alla vitaanimale.
[17] La formulazione agostiniana è citata, come è noto, da Husserl alla fine delle sue Meditazioni cartesiane del 1929, in un modo che è stato criticato da eminenti fenomenologici che pensano che abbia ritenuto solo un lato dell’aforisma agostiniano (chiedendo al filosofo di astrarsi dal mondo al fine di investigare una verità interiore, ma non riuscendo a capire che questa verità interiore rappresenta anche il luogo ‘abitato’dall’‘ospite’ dell’uomo proveniente dal paradiso, cioè Cristo, che perciò priva l’uomo della padronanza di sé o lo ‘espropria’ dall’interno). Cfr. J.-L. Marion, Au lieu de soi? L’approche de Saint-Augustin, Presses Universitaires de France, Paris 2008, p. 139 e sgg.
[18] Questa tipica unità di opposti è ben preservata nella trasposizione di Descartes dell’argomento agostinaniano nel linguaggio dell’ontologia: «Io esisto con una tale natura per cui possiedo un’idea di Dio nella mia mente», perciò come una sostanza finita (o ‘essenza’) che ospita una sostanza infinita (o ‘essenza’). Cfr. il mio commentario in «Ego sum, ego existo. Descartes au point d’hérésie», in Id., Citoyen Sujet et autres essais d’anthropologie philosophique,PUF, Paris 2011, pp. 87-120.
[19] Anziché Kant, ciò suggerisce di sottolineare un’altra forma secolarizzata della verità che ‘abita’ l’individuo: quella proposta da John Locke nella sua teoria dell’identità personale: i soggetti che «own themselves» separatamente sono isolati perché ciò che li rende esseri umani identici non è solo il potere di un’«idea astratta» (proprietà privata), ma il potere dell’idea di ‘astrazione’stessa. Questo è una lettura assai acuta della logica dell’‘ontologia’ che possiamo chiamare, dopo C.B. MacPherson, ‘individualismo possessivo’. Cfr. il mio saggio «My Self, my Own. Variations sur Locke», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp. 121-154.
[20] È naturalmente affascinante cercare degli echi tra le marxiane Tesi su Feuerbach e le Tesi sul concetto di storia (1941) di Benjamin, che consapevolmente cerca di seguirne la traccia (dunque propone un’interpretazione che è una trasformazione!).
[21] È anche su questo punto che i testi quasi-contemporanei, in particolare laSacra famiglia, pagano un esplicito tributo a Hegel.
[22] Questo aforisma è particolarmente insistente nel saggio di Marx del 1844 (pubblicato nei Deutsch-Französische Jahrbücher), «Un’introduzione allaCritica della filosofia del diritto hegeliana», in cui das Proletariat è usato per la prima volta per nominare il ‘soggetto’ rivoluzionario (cfr. il mio saggio: «Le moment messianique de Marx», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp. 243-264). è interessante notare che, prendendo a prestito nuovamente dalla tradizione teologica che abita come uno spettro le Tesi, le due nozioni di Verwirklichung(realizzazione) e Verweltlichung (secolarizzazione, letteralmente divenire-mondo) sono usate da Marx come quasi-sinonimi.
[23] Questo è un punto importante a cui sono state dedicate molte discussioni. Fornisco qui una sola indicazione: P. Macherey, «Aux sources des rapports sociaux», in Genèse, n° 9, octobre 1992. Macherey evidenzia l’importanza dell’opera di Louis de Bonald (un conservatore), François Guizot (un liberale) e del conte Claude de Saint-Simon (un socialista la cui influenza sulla formazione intellettuale di Marx può difficilmente essere sottovalutata).
[24] Cfr. I. Wallerstein, Unthinking Social Science. The Limits of Nineteenth Century Paradigms, Second edition with a New preface, Temple University Press, Philadelphia 2001. Una nozione chiave analitica – forse la sola centrale – che nasce dalla costituzione della sociologia, era la nozione di individualismo (introdotta per la prima volta in Francia da Tocqueville) come distinto dall’egoismo morale, per descrivere un comportamento di persone che sono separate dalla propria affiliazione sociale (gruppi di status, famiglia, confessioni religiose), che naturalmente le differenti ideologie hanno valutato in modo differente. Nella Questione ebraica (1844) Marx osserva l’uso di ‘egoismo’, ma in un senso che è piuttosto simile a ‘individualismo’, cioè a contraddizione tra le condizioni sociali e il loro proprio risultato.
[25] Di estrema importanza sotto questo aspetto sono le elaborazioni nellaQuestione ebraica (1844), un saggio che è celebre per la sua critica della distinzione ‘astratta’ di ‘diritti dell’uomo’ e diritti del cittadino come un’espressione della riduzione borghese dell’‘uomo’ alla proprietà privata che possiede l’individuo (che include la nozione lockiana del «proprietor in one’s person»). Così come l’‘emancipazione religiosa’ che libera l’individuo dal suo assoggettamento ad un immaginario potere trascendente non è ancora ‘emancipazione politica’ che garantisce per l’eguaglianza giuridica e la libertà di ogni individuo (all’interno dei limiti dello Stato-Nazione), l’emancipazione politica (benché sia un progresso nella storia dell’umanità) non è ancora l’‘emancipazione sociale’ che libera gli individui dal loro isolamento alienato e dalle leggi di ferro della competizione che fanno di ciascuno un ‘lupo’ per l’altro. Ed è solo un’emancipazione sociale che può essere considerata un’‘emancipazione umana’ in senso pieno.
[26] Ciò che permette a Engels (prima di molti marxisti) di fare questa rettifica è naturalmente il fatto che è divenuto familiare con il più tardo ‘materialismo storico’ e le analisi delle relazioni di produzione con le loro contraddizioni interne, come spiegate nel Capitale: dato che è lì che Marx descriverebbe la struttura della produzione materiale (incluso lo sfruttamento e la dominazione di classe) come una matrice che genera trasformazioni nel carattere storico della specie umana, e afferma che il capitalismo fa assegnamento su un più alto grado di ‘socializzazione’ (Vergesellschaftung) del processo lavorativo (cooperazione, industrializzazione, educazione politecnica) che deve essere incompatibile con le norme della proprietà privata. Un’interessante formulazione intermedia è offerta nell’Ideologia tedesca dove Marx afferma con forza la funzione determinante del lavoro nel ‘produrre’ la ‘natura’ umana, mettendo sullo stesso piano lo sviluppo delle forze produttive con una successione di modalità nella divisione del lavoro che genera prima la proprietà privata, poi il comunismo (definito, come è noto, come «il movimento reale che abolisce/supera – aufhebt – lo stato di cose esistente»), ma non usa il termine tecnico ‘relazioni di produzione’ e ‘modi di produzione’. Invece fa un ampio uso dei termini: Verkehr e Verkehrsformen: commercio e le sue forme.
[27] Si pensi all’aforisma nella prefazione della Fenomenologia dello spirito: «das Wahre ist das Ganze» (il vero è la stessa cosa del tutto, verità e totalità sono sinonimi).
[28] Rinviamo alle precisazioni di Michel Foucault nelle Parole e le cose (1966): le definizioni antropologiche dell’essenza umana nel XIX secolo, dopo la rivoluzione kantiana che ne recide la dipendenza teologica e conferisce loro una ‘finitudine costitutiva’, sono in relazione con tre categorie ‘quasi-trascendentali’: ‘lavoro’, ‘linguaggio’ e ‘vita’. È largamente ammesso (anche da Foucault stesso) che il paradigma marxiano sceglie la prima possibilità quando giunge a formulare la domanda antropologica (che è esattamente ciò che la Arendt è altri hanno rimproverato a Marx: di aver scelto una definizione dell’uomo come animal laborans). Ma ciò che affrontiamo qui sono le modalità, le esitazioni e le sospensioni di questa ‘scelta’.
[29] Cfr. la mia Filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, capitolo 2. Su questa base ho proposto anche una discussione sulle affinità tra Marx e, specificamente, Spinoza e Freud (con tutte le loro differenze). Altri nomi possono essere naturalmente aggiunti, se è vero che è difficile trovare un grande filosofo a cui la questione della transindividualità non si è presentata, e che non considera, almeno ipoteticamente, la possibilità di pensare le ‘relazioni’, e non i ‘termini’ o le ‘sostanze’, come le categorie fondamentali della comprensione del reale. Nel suo estremamente istruttivo commentario delle Tesi su Feurbach (Marx 1845, Editions Amsterdam, Paris 2008, pp. 137-160), Pierre Macherey ha lavorato su questa idea proponendo una tesi secondo cui Marx trasformerebbe un’‘essenza’ in una ‘non-essenza’, cosa che mi sembra del tutto compatibile con ciò che ho provato a spiegare in questo articolo.
[30] Vi sono alcune importanti affinità tra questa formulazione e ciò che Maurice Blanchot, in un noto saggio molto sintetico, non senza relazione con la sua quasi contemporanea meditazione sulle «parole di Marx», chiama le rapport du troisième genre («il rapporto di terzo genere/tipo») (in L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 94-105), in cui si trova l’equazione: «L’homme, c’est-à-dire les hommes» (l’uomo, cioè gli uomini). Ritornerò altrove su questa comparazione.
[31] Questo spiega anche, a mio vedere, perché è insufficiente mettere in relazione il primate delle ‘relazioni sociali’ con l’emergenza di un’antropologia storica (o, per questa posta in gioco, culturale): perché una tale antropologia (il cui praticamente insuperabile prototipo risiede nella descrizione hegeliana delle ‘epoche’ della storia mondiale come costruzioni di successive idee ‘spirituali’ dell’umano) relativizza solo (cronologicamente, geograficamente) la validità di qualsivoglia definizione dell’‘essenza umana’, ma non rimuove assolutamente il fatto che una tale definizione deve essere comune a ognuno nella società considerata, o subordinare al suo interno tutte le opposizioni e le differenze.
[32] Nel libello Eléments d’autocritique (Hachette Littérature, Paris 1974) Althusser attribuisce a Spinoza «l’aver inventato, pressoché solo nella storia della filosofia, la nozione di totalità senza chiusura». Non sembrava essere al corrente del fatto che una simile distinzione costituiva il nucleo del capolavoro di Emmanuel Lévinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité (1961), che aveva anch’esso di mira l’eredità hegeliana in filosofia.
[33] Prendo la categoria di «anfibolia» nel senso stretto in cui è usata da Kant in quella che è forse la più notevole elaborazione della Critica della ragion pura, l’«Anfibolia dei concetti della riflessione», ma presuppongo che si possa applicare non solo ai casi elencati da Kant (unità contro diversità, adeguazione contro inadeguazione, materia contro forma), ma anche ad altri, che contano in special modo in domini pratici: attività contro passività, soggettivo contro oggettivo ecc.
[34] G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923).
[35] Condenso indicazioni dal ‘primo’ e dal ‘secondo’ Althusser, che certamente non sono completamente incompatibili: cfr. E. de Ipola, Althusser, el infinito adiós, Siglo XXI, Buenos Aires 2007, e W. Montag, Philosophy’s Perpetual War.Althusser and His Contemporaries, Duke University Press, Durham and London 2012.
[36] Un esempio classico della discussione concerne la questione della paternità: la ‘paternità’ connota una relazione ‘esterna’ tra individui che viene poi socialmente riconosciuta come ‘padre’ e ‘figlio’, o una qualità ‘interna’ di ognuno (come risultato della loro storia personale, inclusa la nascita ecc.) e a proposito della ‘madre’? o ‘figlio’ e ‘figlia’?
[37] Di sicuro c’è una terza tradizionale possibilità per superare questo tipo di anfibolia: invocando un concetto di ‘vita’ generalizzato (o organicità, sistema ecc.). Noto solo qui che il concetto classico di ‘vita organica’ tende a preservare l’interiorità a spese della psicologia, della coscienza, della soggettività.
[38] E ci si lasci notare di passaggio che il termine francese o inglese ‘alienation’ rende due concetti tedeschi usati da Hegel e da Marx: Entäusserung o ‘esternalizzazione’, proiezione ‘fuori di sé’, e Entfremdung o ‘estraneamento’, sudditanza ad un ‘potere alieno’, al potere dell’altro.
[39] K. Marx, Il Capitale, libro III, capitol 47, sulla «Genesi della rendita fondiaria capitalistica».
[40] La frase dall’Epistola I di Giovanni: «Dio è amore» gioca un ruolo centrale nello sviluppo mistico del Cristianesimo così come nelle interpretazioni ‘antropologiche’ della cristianità sino a Spinoza: le due influenze convergono in Hegel che trasforma la frase in una equivalenza simmetrica (Gott ist Liebe, die Liebe ist Gott) (cfr. il mio «Ich, das Wir, und Wir, das Ich ist. Le mot de l’esprit», in Id., Citoyen Sujet, cit., pp. 209-241.
[41] Val la pena ricordare la prossimità etimologica del termine tedesco per tipo o genere: Gattung, con il termine ‘sposi’, ‘marito’ e ‘moglie’: Gatte/Gattin, usato ampiamente da Hegel per ricacciare la sessulità nella dimensione ‘animale’ dell’uomo, e da Feuerbach per sottolineare la dimensione ‘tipicamente umana’ della sessualità, che un discorso spiritualista esprime per mezzo di eufemismi e sublima. Su tutto ciò cfr. Ph. Sabot, «L’anthropologie comme philosophie. L’homme de la religion et la religion de l’Homme selon Ludwig Feuerbach», cit.
[42] Il riferimento a fonti saintsimoniane è cruciale dal punto di vista storico (benché la critica del matrimonio borghese come «prostituzione legale» in ultima istanza derivi dalle prime femministe come Mary Wollstonecraft) ma soprattutto dal punto di vista politico e teorico. Come sappiamo non vi è nulla di semplice nell’applicare un solo concetto di ‘relazione sociale’, ‘movimento sociale’, ‘politica emancipativa’ tanto all’emancipazione delle donne dal patriarcato quanto all’emancipazione degli operai dal capitalismo, cosa che nondimeno ha formato il nucleo del socialismo ‘utopistico’ saintsimoniano e di altre dottrine romantiche. È una difficoltà anche a proposito della storicità come è chiaramente mostrato dalle frasi d’apertura del Manifesto del partito comunista, dove Marx ed Engels prendono a prestito una lista di successive ‘dominazioni di classe’ direttamente dall’Exposition de la Doctrine saint-simonienne (1929), ma eliminano «la dominazione degli uomini sulle donne» dalla lista, forse a causa dei loro pregiudizi maschilisti, ma anche perché non c’è alcun modo in cui questa altra forma di sfruttamento-dominazione possa essere inserita nella successione cronologica che conduce dalle ‘comunità primitive’ fino al capitalismo e al comunismo, seguendo le trasformazioni del regime di proprietà; cfr. E. Balibar, F. Duroux, R. Rossanda, Comunismo e femminismo, Einaudi, Torino (in corso di pubblicazione).