Teresa Noce | L’8 marzo al campo della morte
Per l’8 marzo non potevamo organizzare una festa perché eravamo ormai troppo deboli e affamate, quindi decidemmo di tenere una conferenza. Al campo, le politiche che conoscevano un po’ di storia del movimento operaio internazionale erano una minoranza. Molte erano però coloro che avevano fatto parte della Resistenza, lavorando e sacrificandosi per la libertà. La conferenza doveva spiegare alle une e ricordare alle altre che donne di tutti i paesi e in tutti i secoli avevano lottato per la libertà.
Ma anche una semplice conferenza non era tanto facile da preparare. Anzitutto, chi doveva parlare? E che cosa avrebbe detto? Anche se la riunione veniva organizzata nel nostro blocco, bisognava cercare di farvi partecipare almeno qualche deportata degli altri blocchi. Inoltre bisognava dire cose che non interessassero solo una minoranza, ma gran parte delle donne di tutto il campo. Tra di noi, oltre alle comuniste e alle socialiste, vi erano anche cattoliche ed ebree; vi erano operaie che conoscevano la lotta di classe, ma anche contadine e proprietarie di terre; vi erano impiegate, funzionarie dello Stato, ma vi erano anche capitaliste come la signora Michelin (fabbrica di pneumatici) e figlie di poliziotti come la polacca.
L’incarico di tenere la conferenza fu dato a me. Le compagne dissero che ero la più indicata, nonostante le precarie condizioni di salute, ed essendo stata esonerata dal lavoro, avrei avuto anche più possibilità di prepararmi. Dapprima le compagne chiedevano una conferenza solo per noi, cioè se non proprio per le comuniste, riservata almeno alle politiche. Mi opposi risolutamente; se volevamo fare una conferenza per l’8 marzo, questa doveva interessare tutte le deportate, fossero o no politiche. Era giusto parlare delle donne di tutti o almeno di molti paesi, e non solo delle francesi: vi erano state eroine polacche, inglesi, russe, spagnole, italiane, ebree, americane. Dovevamo ricordare non solo le comuniste o le resistenti, ma anche le patriote di tutti i secoli, quelle donne che ovunque avevano lottato, in un modo o nell’altro, per il progresso e la libertà.
Quando comunicai la mia idea alle compagne, queste mi rivolsero sguardi di commiserazione, pensando che fossi impazzita. Mi chiesero dove avrei preso il materiale per una conferenza simile. Me lo sarei succhiato dal dito? Avevano ragione, la cosa non era facile. Ma potevo farmi aiutare. Tra noi vi erano donne che avevano studiato, che conoscevano la storia del proprio paese e qualche scorcio della storia del resto del mondo. Anche coloro che avevano ricevuto un’educazione scolastica e borghese, potevano aiutarmi. Era poi compito mio estrarre, dalle cose che esse sapevano e che mi avrebbero detto, la lezione politica e di classe che avrebbe dato un senso alla nostra conferenza per l’8 marzo.
Mi dettero via libera. E cominciai a rivolgere la parola a molte deportate con cui, fino ad allora, avevo avuto scarsi rapporti, come la signora Michelin che si trovava al campo, pare, per una questione di valuta concernente prodotti venduti ai tedeschi. Con prudenza, dissi a queste deportate che noi compagne volevamo commemorare l’8 marzo, la giornata internazionale delle donne di tutto il mondo, parlando proprio di quello che le donne di tutto il mondo avevano fatto nei secoli. Non tutte le deportate conoscevano certi avvenimenti: e noi volevamo parlare loro di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, la Pulzella di Orléans; di Louise Michel, la comunarda e di madame Curie, la fisica franco-polacca; di Emmeline Pankhurst, la suffragetta inglese e di sua figlia Sylvia; della Pasionaria spagnola, di Nadeizda Krupskaja, la moglie di Lenin, di Rosa Luxemburg, tedesca.
Era nostra intenzione ricordare quello che le donne di tutto il mondo avevano fatto per la libertà e il progresso, lottando e combattendo, e spesso pagando di persona, come era accaduto a noi nella lotta contro i nazisti. Era importante che tutte sapessero che in ogni secolo vi erano state donne che avevano lottato per difendere il proprio paese o la propria religione, il pane e il lavoro per tutti, la pace, la libertà da ogni oppressione, contro la tirannia e lo sfruttamento. Perciò dovevamo parlare, oltre che di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, anche delle serve della gleba insorte con la jacquerie del 1358 e delle calzettaie della Rivoluzione francese, delle comunarde di Parigi e delle setaiole di Lione, delle suffragette inglesi e delle martiri di Chicago, delle rivoluzionarie russe e delle insorte di Torino, delle scioperanti contro i padroni e contro i fascisti.
Trovai più aiuto di quanto avessi sperato. Tutte volevano dirmi qualche cosa, del proprio paese o di persone conosciute o di episodi di lotta o di quello che ricordavano delle lezioni di scuola: e con più apertura mentale e meno conformismo di quanto mi attendessi. La permanenza al campo, la lezione delle sofferenze sopportate in comune, forse non erano state inutili. Poteva anche essere che, appena libere, quelle donne tornassero a vivere come prima, ma era molto più probabile, in ognuna, qualche cambiamento.
Intanto il mio lavoro di preparazione aveva già avuto questo risultato: tutte si interessavano dell’8 marzo, tutte aspettavano la conferenza, tutte volevano ascoltarla. E la cosa più sorprendente fu che tutte seppero mantenere il segreto e nessuna «aspirina», nessuna kapò, venne a sapere quello che stavamo preparando.
Tenemmo la conferenza la sera dell’8 marzo 1945, appena suonato il silenzio ed uscite le «aspirine» e le kapò. Salii sul giaciglio più alto di un castello posto in mezzo al blocco, mentre le deportate si affollavano sugli altri pagliericci, e incominciai il mio discorso. Ogni tanto, mentre parlavo, si apriva silenziosamente la porta e facevano capolino deportate degli altri blocchi. Con la scusa di andare al gabinetto, erano riuscite a sgusciare fuori e venivano anch’esse a sentire la conferenza sull’8 marzo.
Parlai a lungo delle donne di tutto il mondo come mi ero proposta. Parlai dell’esempio, tramandatoci nei secoli, di chi aveva lottato per la difesa del proprio paese e per la libertà dei popoli, di coloro che si erano sacrificate per la pace e per la rivoluzione, che avevano dato la vita o avevano perso la libertà per difendere le compagne contro lo sfruttamento, la miseria, la schiavitù. Parlai delle sante e delle schiave, delle operaie e delle contadine, delle intellettuali e delle scienziate, delle analfabete e delle artiste. Continuai a parlare finché caddi stremata sul giaciglio che mi aveva ospitata.
Ero ancora esentata dal lavoro. La dottoressa russa dell’infermeria mi aveva trovato alcuni noduli al seno e aveva raccomandato alle compagne di risparmiarmi, se possibile, le fatiche più pesanti. Essa non era in grado di accertare l’origine di quei noduli, non potendo fare gli esami necessari. Forse erano soltanto ematomi procuratimi dalle bastonate o dagli urti, ma poteva anche trattarsi di cosa più grave. Non c’era altro da fare che sperare che la liberazione non tardasse: appena libera dovevo sottopormi a esami più approfonditi.
Sia durante il lavoro sia nei momenti di riposo, tutte le deportate avevano la mania di comunicarsi ricette di cucina. Anche quelle che di cucina non si erano mai interessate, forse a causa della fame che ci dilaniava parevano prese dalla passione della gastronomia. Spesso, quando eravamo al lavoro nei kommandos, a turno dovevamo approfittare delle assenze delle SS per descrivere un piatto nazionale o regionale, o anche semplicemente personale. Qualcuna di noi cercò persino di raccogliere le ricette più interessanti.
Poiché ero esclusa completamente dal lavoro, le compagne mi chiesero di trascrivere tutte le ricette di cui mi ricordavo, o per averle sperimentate, specialmente quelle italiane o spagnole e anche russe, o per averne udita la descrizione dalle altre deportate. Ed io mi misi a scrivere ricette di cucina su ogni pezzo di carta che trovavo. Le compagne poi se le dividevano o se le ricopiavano. Molte venivano da me, alla sera, per sussurrarmene di nuove, che io l’indomani trascrivevo a memoria e poi distribuivo.
Facevo questo lavoro volentieri, quantunque ridessi tra me della strana mania e del fatto che proprio a me, rivoluzionaria professionale e dirigente di squadre armate di FTP della Resistenza francese, fosse toccato un compito di esperta di cucina e di amanuense delle più originali ricette internazionali. Qualche volta dicevo, scherzando, che, quando fossi ritornata in libertà, avrei scritto un libro di cucina con le ricette delle deportate nei campi della morte. Il più curioso è che, dopo la Liberazione, seppi che anche gli uomini deportati erano stati presi dalla stessa mania delle ricette culinarie. Evidentemente era una ossessione provocata dalla fame permanente e non credo che quel libro di ricette sia mai stato scritto da nessuno.
Era ormai il mese di aprile e noi attendevamo sempre la Liberazione. Arrivò invece la Pasqua, ma passò inosservata. Cominciavamo a disperare. Sentivamo che la Liberazione era vicina, che era forse questione solo di giorni. Ma intanto quei giorni erano i più lunghi, pesanti, tormentosi. Anche perché le nostre forze deperivano continuamente. Il numero delle ammalate aumentava tutti i giorni, e anche di quelle che morivano. A volte, attraverso le compagne sovietiche dell’infermeria venivamo a conoscenza di qualche caso e così potevamo anche rendere l’ultimo saluto alla compagna che ci lasciava per sempre. Molte altre invece venivano portate via di notte e noi apprendevamo la loro morte solo parecchi giorni dopo.
Più che di malattie vere e proprie, si moriva di debolezza e di fame. Molte avevano ascessi che si piagavano e non si richiudevano più. Anche le piccole ferite suppuravano e non si rimarginavano mai. Nessuna deportata, ormai, neppure le più giovani e forti, aveva più le mestruazioni. A me erano durate a lungo, ma mi erano cessate del tutto quando avevo lasciato l’infermeria. La dottoressa ci esortava a non preoccuparci: alla Liberazione, appena fossimo state in grado di condurre una vita normale e di nutrirci un po’ meglio, le mestruazioni sarebbero ricomparse.
A dire il vero, non solo non ce ne importava ma eravamo perfino contente che le mestruazioni fossero cessate. Al campo esse costituivano solo una sofferenza in più. Non disponendo di pannolini né di cotone, dovevamo cercare di arginare il flusso con carta, magari dura e sporca, che ci graffiava e ci feriva e ci torturava, soprattutto quando rimanevamo per ore in piedi all’appello.
Ci accorgemmo che il fermento tra le SS del campo aumentava. Alcuni tedeschi e alcune kapò sembravano diventare più umani, altri invece infierivano con maggiore crudeltà: evidentemente era la paura a renderli così. Poi, un giorno, improvvisamente, decisero di non mandare più nessuna di noi al lavoro nei kommandos, né alle squadre di punizione. Ci rinchiusero tutte nei blocchi. Ci fu proibito di uscire anche per andare ai gabinetti. Furono portati grandi secchi per i nostri bisogni. E le stesse SS si occuparono del servizio dei bidoni della zuppa. Che cosa succedeva?
Aggrappate per tutto il giorno alle finestre, guardavamo nel cortile. Una volta vedemmo un gruppo di «aspirine» uscire con le valigie e urlammo: «Se ne vanno!». Ma ci sbagliavamo. Dietro di loro uscì il comandante del campo con la pistola in pugno e i cani al fianco e, urlando, prese a calci le valigie. Le «aspirine» le ripresero e rientrarono.
Nota
Questo brano è tratto dal libro autobiografico “Rivoluzionaria professionale”.