Petra Krause | Lettera al figlio Marco
Carcere di Zurigo, 4 luglio 1975 [1]
Caro Marco
ho sempre pensato che l’unica cosa che si potesse fare volentieri in carcere è scrivere delle lettere. Invece la cosa è diversa. Faccio fatica a scrivere perché mi ripugna l’idea di censuratori anonimi e di parte, con cui non ho nulla in comune ma che automaticamente sono coinvolti nel dialogo.
Solo per questo – e non perché non vorrei comunicarti tante cose – in questi tre mesi ti ho scritto solo due volte. Mi rendo conto che ciò è stato sleale verso chi è fuori in misura in cui io mi ricordo che sempre, quando un compagno o una compagna veniva incarcerato, facevo di tutto per immaginarmi come passava le sue giornate, come reagiva alla gabbia. E nonostante tutti i documenti letti sull’argomento, capivo poco. E siccome conoscere le cose anziché doversele immaginare è senz’altro meglio, ti descrivo la mia giornata “media”.
Come dicevo, quando ero ancora in libertà mi occupavo dell’argomento e perciò con Cristina (non so se ti ricordi di quell’amica del sudamericano) abbiamo iniziato una ricerca, parlando con ex detenuti, raccogliendo i dati concreti sui mezzi usati dalla polizia per ottenere ammissioni laddove la tortura è proibita ecc.
Il libro, quando sarà pronto, potrà solo dare indicazioni generiche perché ogni persona affronta diversamente la situazione e perché le esperienze non sono trasmettibili, solo comunicabili. A ogni modo, appena ho avuto matita e carta, ho fatto una specie di diario sui miei primi dieci giorni che senz’altro erano i più disastrosi sotto tutti i punti di vista – o direi che tutti i quaranta giorni nella caserma della polizia sono un capitolo a sé, ormai superato ma non dimenticato.
Prima o poi leggerai quelle pagine; non fanno che aggiungere un’esperienza a quelle che avevamo già raccolto. Ora, per dirti di qui, ti devo descrivere l’ambiente. Tu sai che l’essere umano non è fatto solo di carne e ossa. Quella cosa che produce gioia o paura e altre sensazioni non derivanti dai nostri cinque sensi, diciamo la psiche – o non so come definire quella cosa che fa parte di noi e che dobbiamo ancora scoprire scientificamente – bene, questa cosa tu qui la senti e la vedi; e più vecchio è l’edificio e più quella cosa è esistente. Il dolore psichico di tutta la gente passata di qui evidentemente si è materializzato e impregna le mura e l’aria. È difficile descriverlo perché non si fa prendere in mano, ma è sempre presente, ha un colore preciso, è come una densa cappa pesante e muta. Io sono in una cella dell’ultimo piano. Ho misurato: lunghezza 3,60, larghezza 2,10, altezza 3,10. Le mura di pietra pitturate bianche, il pavimento di legno. In alto la finestra che si apre e chiude con un bastone penzolante. Dinnanzi alla finestra, le sbarre grosse. Oltre le sbarre ancora vetri con intrecci di ferro messo diagonalmente, di modo che è impossibile vedere un pezzetto di cielo. Mobili e il muro destro venendo dalla porta: 1 armadio stretto e alto, il letto; dall’altra parte: 1 armadio pensile su cui è attaccato l’altoparlante, una panchina, un tavolo minuscolo sporgenti dal muro.
Il cesso, il lavandino. Spazio di passaggio tra letto e tavolo: 50 cm. La porta è di metallo massiccio. Nella porta c’è l’apertura per passare i pasti che si apre, naturalmente, solo dal di fuori. E soprattutto vige lo “spione”. Sopra il tavolo a muro ho la foto di Cosima Machel, fucile a tracolla. La penso molto spesso in questi giorni. Sopra il letto è la tua lettera. Alle 7, 11, 17 ci sono i vari pasti su cui non mi soffermo per rispetto verso chi invece non ha nulla da mangiare. A queste ore si accende anche la radio. La radio di sera trasmette fino alle 22.30 – a quell’ora si spegne anche la luce. Quattro volte alla settimana, verso le 10, si va per 30 minuti sul terrazzino, grande tre volte la cella. Le donne camminano mute e a distanza. È proibito parlare. Così il linguaggio sono le occhiate di incoraggiamento e di rassegnazione. Il terrazzino è come la voliera del giardino zoologico: una rete sopra e intorno. Ma si vede il cielo, le colline, la punta di un albero, una gru e per fortuna si può alzare il muso e farsi bagnare dalla pioggia. L’aria a quell’ora è pessima perché i camini della cucina sboccano proprio sulla terrazza. Come passo il tempo? Cerco di impormi un programma. Ma abbastanza spesso sgarro… Una o due ore lettura del Capitale con successiva meditazione, calcoli, controlli. Due ore circa per continuare a scrivere (e riscrivere) quella specie di documento. Attenta lettura del giornale. Almeno un’ora di dermovisione, di cui ti parlerò. Notizie radio dalle 19.00 alle 19.45 con commenti politici di attualità (piano piano imparo tutto sulla Svizzera). Dalle 20.00 alle 20.30 ginnastica. Lavaggio. Poi 10 minuti di una specie di rilassamento totale alla guru. Funziona ed è utile. Niente paura, non sto impazzendo; allargo il mio cervello con quei mezzi che non hanno potuto sequestrare. Verso le 21.00 sono già nel letto. Leggo i libri della biblioteca – di tutti i tipi e naturalmente anche i gialli e fantascienza. Spesso dormo ancor prima che si spegne la luce. A volte però perdo il treno e allora sento la notte. Il carcere è più vivo di notte. Le voci che si chiamano e che sono le voci umane. Il pianto di certe persone che non si vedono mai. Si sente immancabilmente il campanile, il traffico, qualche cane che abbaia. Non ho più paura di queste notti insonni. Penso semplicemente 1, 2, 3 sono tranquilla. Vivo tutto questo un po’ come se non mi riguardasse, sono incatenata eppure non lo sono. Osservo il programma per non perdere il senso della realtà. Leggo a voce alta per interrompere il silenzio. Utilizzo tutto il mio autocontrollo per non perdermi. Ma ho pianto di rabbia e di impotenza quando mi è arrivata la comunicazione: niente libri politici. E quando, riesaminando il catalogo della biblioteca del carcere, sotto la rubrica politica trovo solo roba reazionaria e fascista: quattro versioni di lode su Chiang Kai-shek più una sua biografia, un Hitler, un Mussolini, due volte James Schwarzenbach, Abba Eban e la critica sul pensiero di Marx di Jean Yves Calvez, e così avanti.
Non darmi lettura politica mi sembra una calcolata meschinità. E avere il coraggio di tenere alcuni dei suddetti libri come unica lettura politica per centinaia di carcerati mi sembra il record di esemplare educazione della democratica e neutrale Svizzera. Comunque anche i commenti politici non lasciano dubitare che siamo ancora in piena guerra fredda. Tre volte al giorno isteriche campane a martello sul pericolo della libertà in Portogallo – e ora anche in Italia. Comincio a capire solo ora cosa significa comunismo per questa Svizzera. Infatti, che fa un paese così piccolo, così montagnoso, senza risorse naturali, senza industria rilevante – solo settore terziario, turismo, banche, piattaforma girevole dei capitali che fa questo paese senza il capitalismo? Lo dico sul serio e senza polemiche, ma con spavento. Il capitalismo è la premessa indispensabile per la sopravvivenza di questa strana società.[…] Mi è stata consegnata la tua seconda lettera, qualche ritaglio di giornale ma non la lettera di Eva Forrest (in via eccezionale sulle elezioni in Italia e nel Libano) e l’agendina rossa in cui scriverò i miei sogni. Le cose che vengono da fuori spezzano l’atmosfera lugubre del luogo e portano nella cella il sapore dell’allegria umana – e perciò non tolgo l’orologio nemmeno di notte. Invece, ho appena ricevuto un’altra comunicazione, risposta a una mia devota richiesta di poter fumare le Parisiennes senza filtro anziché le Gauloises che per me sono micidiali. Risposta: non concesso. Beh, lasciamo perdere.
Tu mi scrivi dei compagni uccisi in Italia. La lista è lunga. Caro Marco, il prezzo che dobbiamo pagare, a volte, è il più alto.
Noi non dimenticheremo mai le compagne e i compagni che per la lotta hanno pagato questo prezzo e non li piangiamo in pubblico. Perché proprio questi, se potessimo sentirli, dicono: andate avanti – fate la rivoluzione.
Ti saluto con due abbracci grandissimi da dividere – con saluti a tutte le compagne e compagni tutti. E credimi, sto bene, basta pensarvi.
Ciao, Petra
Note
[1] Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, ed. Agenzia X-Cox 18.