Alain Badiou | Il “mito della caverna” (tratto da ‘La Repubblica di Platone’)
La straordinaria rivisitazione in chiave moderna del Mito della Caverna di Platone contenuta nella “riscrittura” dell’intera Repubblica da parte del grande filosofo francese Alain Badiou.
Di Platone si è detto che fosse un filosofo “aristocratico”; non tanto in quanto ad estrazione sociale e familiare (perché, come ebbe ad osservare Aristotele, ogni filosofo poteva essere tale, specialmente in un mondo come quello greco antico, solo grazie al fatto di disporre di tempo liberato dalle incombenze del lavoro, ovviamente da riservare agli schiavi e agli artigiani, e questo privilegio era riservato ai membri delle classi sociali agiate e colte); Platone è considerato un filosofo aristocratico per la sua filosofia politica che propone di mettere fine ai mali che affliggono la società ateniese – ed anzi ogni società – eliminando la democrazia e affidando il potere ad un gruppo sociale speciale di filosofi-governanti preparati dal punto di vista tecnico ed etico ad occuparsi del bene della comunità, e protetti da un altro gruppo sociale speciale di guardiani armati il cui compito non è difendere lo Stato dagli attacchi esterni, ma di difenderlo dalle rivolte interne. Una sorta di riproposizione, secondo Marx, dell’antico sistema delle caste egiziane.
Ma cosa succede quando i filosofi che guidano la comunità non sono più una casta e tutti hanno avuto la possibilità di diventare (e sono diventati) filosofi e dunque tutti possiedono le qualità per occuparsi della “res publica”? Succede che nasce una “società di filosofi”, una società senza classi e senza caste, una società comunista. (Antiper)
– Perché no? Immaginate un’enorme sala cinematografica.
Davanti, lo schermo, che arriva fino al soffitto, ma è talmente alto da perdersi nell’oscurità, blocca la visuale di qualunque altra cosa che non sia questo. La sala è piena. Gli spettatori sono, da quando esistono, imprigionati sulla loro poltroncina, con gli occhi fissi sullo schermo e la testa stretta dentro cuffie rigide che coprono le orecchie. Dietro a queste decine di migliaia di persone inchiodate alla poltrona, c’è ad altezza d’uomo, una grande passerella di legno, parallela allo schermo in tutta la sua lunghezza. Ancora dietro, enormi proiettori inondano lo schermo di una luce bianca quasi insopportabile.
– Strano posto! – dice Glaucone.
– Non più della nostra Terra… Sulla passerella circolano automi di ogni sorta, bambole, sagome di cartone, marionette, sorretti e animati da invisibili manovratori o guidati da telecomandi. Passano e ripassano animali, barellieri, equilibristi, automobili, cicogne, gente qualunque, militari in armi, bande di ragazzi di periferia, tortore, animatori culturali, donne nude… Alcuni gridano, altri parlano, alcuni suonano il corno o la fisarmonica, altri si affrettano in silenzio. Sullo schermo si vedono le ombre che di questo carnevale incerto ritagliano i proiettori. E dentro le cuffie il pubblico immobile sente rumori e parole.
– Mio Dio! – scandisce Amantea. – Strano spettacolo, e ancor più strani gli spettatori!
– Ci somigliano. Vedono di loro stessi, dei vicini, della sala e delle scene grottesche sulla passerella qualcos’altro oltre alle ombre proiettate sullo schermo dal fiume di luci? Sentono qualcos’altro oltre a quanto trasmettono i ricevitori?
– Niente di niente, – esclama Glaucone – se la loro testa è da sempre immobilizzata in direzione solo dello schermo e le loro orecchie tappate dalle cuffie.
– Ed è così. Non hanno allora alcun’altra percezione del visibile che non sia la mediazione delle ombre e nessun’altra di ciò è detto che non sia quella delle onde. Anche a supporre che scovino dei modi per discutere tra loro, non potranno mai fare la distinzione tra il nome di un’ombra, che vedono, e quello dell’oggetto, che non vedono, di cui quest’ombra è l’ombra.
– Senza contare – aggiunge Amantea – che l’oggetto sulla passerella, automa o marionetta, è già di per sé una copia. Si potrebbe dire che vedono l’ombra di un’ombra.
– E – finisce Glaucone – che sentono solo la copia digitale di una copia fisica delle voci umane.
– Eh sì! Questi spettatori prigionieri non hanno alcun modo per concludere che la materia del Vero è qualcos’altro rispetto all’ombra di un simulacro. Ma che cosa succederebbe se, spezzate le catene e curata l’alienazione, la loro situazione cambiasse di punto in bianco? Attenzione! La nostra favola prende una strada molto diversa. Immaginiamo che uno spettatore venga slegato, che sia subito obbligato ad alzarsi, a voltare la testa a destra e a sinistra, a camminare, a guardare la luce che esce dai proiettori. Certo, soffrirà di tutti questi gesti cui non è abituato. Abbagliato dai flutti luminosi, non potrà distinguere tutto ciò di cui, prima della conversione forzata, osservava tranquillamente le ombre.
Supponiamo che gli venga spiegato che la sua passata situazione gli permetteva di vedere solo l’equivalente, nel mondo del nulla, delle chiacchiere, e solo adesso è vicino a ciò che è, che può affrontare ciò che è, cosicché la sua visione sia alla fine suscettibile di esattezza.
Non sarà stupito e a disagio? Ancora peggio sarà mostrargli, sulla passerella, la sfilata di automi, bambole, burattini e marionette, e a forza di tante domande cercare di fargli dire che cosa siano. Perché è sicuro che le ombre precedenti saranno ancora, per lui, più vere di quello che gli viene mostrato.
– E – sottolinea Amantea – in un certo senso lo sono: un’ombra convalidata da un’esperienza reiterata non è più «reale» di un improvviso fantoccio di cui si ignora la provenienza?
Immobile, forse tanto furioso quanto meravigliato, Socrate fissa Amantea in silenzio. Poi:
– Probabilmente bisogna arrivare alla fine della favola prima di trarre conclusioni sul reale. Supponiamo che la nostra cavia venga costretta a fissare i proiettori. Gli occhi gli faranno un male atroce, vorrà fuggire, vorrà ritrovare quello che riesce a sopportare di vedere, quelle ombre di cui ritiene l’essere molto più certo di quello degli oggetti che gli vengono mostrati. A quel punto rudi gaglioffi che noi abbiamo pagato lo trascinano senza riguardi tra le campate della sala. Gli fanno attraversare una porticina laterale fino a quel momento passata inosservata. Lo gettano in un sudicio cunicolo che sbocca all’aria aperta, sui fianchi illuminati di una montagna, in primavera. Abbagliato, si copre debolmente gli occhi con una mano; i nostri agenti lo spingono sulla ripida scarpata, per un bel pezzo, sempre più in alto! Sempre di più! Arrivano sulla cima, in pieno sole, e lì, le guardie lo lasciano, ridiscendono il pendio e scompaiono.
Eccolo da solo nel bel mezzo di un paesaggio illimitato. L’eccesso di luce gli devasta la coscienza. E soffre per come l’hanno trascinato, malmenato, abbandonato! Come odia i nostri mercenari! Però, a poco a poco, prova a guardare, verso le creste, le valli, il mondo abbagliante. All’inizio è accecato dallo splendore di ogni cosa e non vede niente di tutto quello di cui noi comunemente diciamo:
«Questo esiste, questo c’è davvero». Non potrebbe dire, come Hegel dinnanzi alla Jungfrau, e con tono sprezzante, «das ist»: non fa altro che essere. Eppure prova ad abituarsi alla luce. Dopo molti sforzi, sotto un albero isolato, finisce con lo scorgere il tratto d’ombra del tronco, la sagoma nera delle foglie che gli ricordano lo schermo del suo vecchio mondo. In una pozzanghera ai piedi di una roccia arriva a percepire il riflesso dei fiori e delle erbe. Da lì, passa agli oggetti veri e propri. Lentamente si stupisce dei cespugli, dei pini, di una pecora solitaria. Cala la notte. Alzando gli occhi al cielo, vede la luna e le costellazioni, poi vede spuntare Venere. Seduto dritto su un vecchio ceppo, spia quella radiosità, che compare con gli ultimi raggi e, sempre più brillante, declina e si inabissa a sua volta.
Venere! Alla fine, un mattino, il sole, non nelle acque mutevoli o nel suo riflesso esteriore, ma proprio il sole, in sé e per sé, nella sua sede. Lo guarda, lo contempla nella beatitudine dell’essere tale quale è.
– Ah! – grida Amantea. – Che ascesi ci avete descritto! Che conversione!
– Grazie, ragazza. Farai come lui? Perché lui, il nostro anonimo, applicando il proprio pensiero a ciò che vede, dimostra che dalla posizione apparente del sole dipendono le ore e le stagioni, e così l’esserci del visibile dipende da questo astro, tanto da poter dire: sì, il sole è il reggente di tutti gli oggetti di cui i nostri passati vicini, gli spettatori della grande sala chiusa, vedono solo l’ombra di un’ombra. Evocando così la sua prima dimora – lo schermo, il proiettore, le immagini artificiali, i suoi compagni di impostura – il nostro evaso involontario si rallegra di essere stato cacciato da quel luogo e prova pietà per tutti quelli rimasti inchiodati alla loro poltrona di visionari ciechi.
– La pietà – obietta Amantea – è di rado buona consigliera.
– Ah, – risponde Socrate fissandola con gli occhietti neri e misteriosi – sei proprio una ragazzina: irruenta e senza pietà. Ma torniamo al pensiero puro. Nel regno degli artifici, nella caverna dell’apparenza, chi aveva dunque il ruolo principale? Chi poteva vantarsi di avere la meglio sugli altri se non colui il cui occhio penetrante e la memoria sensibile registravano le ombre passeggere, individuando quelle che tornavano spesso, quelle che si vedevano raramente, quelle che passavano in gruppi o sempre solitarie…
Quello, insomma, più adatto a cogliere ciò che stava per sopraggiungere nella superficie obbligata del visibile. Credete che il nostro evaso, dopo aver contemplato il sole, sarà geloso degli indovini del gioco delle ombre? Che invidierà la loro superiorità e desidererà godere dei vantaggi che questi ne ricavano, per quanto grandi siano? Non sarà piuttosto come Achille nell’Iliade che avrebbe preferito cento volte essere un servo attaccato alla zolla e all’aratro piuttosto che vivere, come gli era accaduto, in una sontuosità puramente illusoria?
– Oh! Socrate! Noto estasiata che, anche voi, vi nascondete dietro a Omero – sfotte Amantea.
– In fondo sono greco – sussurra Socrate sulla difensiva.
– Sì, – taglia corto Glaucone, temendo una discussione –
immaginiamo che il nostro evaso ridiscenda realmente nella caverna…
– Sarà obbligato a farlo – dice Socrate gravemente. – A ogni modo, se riprende il proprio posto, stavolta saranno le tenebre, dopo l’illuminazione solare, ad accecarlo improvvise. E se, ancor prima che i suoi occhi si siano riabituati all’ombra, entrasse in competizione con i vecchi vicini, che non hanno mai lasciato la poltrona, nel prevedere il susseguirsi di quanto è proiettato sullo schermo, sarà a colpo sicuro il buffone della fila. Ovunque si sentirà dire che è uscito e salito così in alto solo per tornare miope e stupido. Conseguenza immediata: nessuno avrà più la minima voglia di imitarlo. E se, ossessionato dal desiderio di condividere con loro l’Idea del sole, l’Idea del vero visibile, invece tentasse di slegarli e condurli perché, come lui, sappiano che cos’è il nuovo giorno, credo che lo afferrerebbero e lo ucciderebbero.
– Ci andate pesante! – dice Glaucone.
– Uno di quei miserabili indovini che ieri sera tua sorella prendeva in giro me l’ha annunciato: mi uccideranno, me, Socrate, perché a settant’anni continuerò a ostinarmi a chiedere dove sia l’uscita da questo mondo oscuro, dove sia il vero giorno.
All’improvviso una specie di malinconia si impadronisce di loro. Tacciono e, come giunto da molto lontano, si sente il rumore del mare o forse del vento che si alza. Socrate tossisce, beve un bicchier d’acqua, si lancia:
– Quello che dobbiamo fare adesso, cari amici, è assolutamente chiaro: unire la presentazione immaginaria con cui ci siamo appena dilettati, la storia di colui che evade dal grande cinema cosmico, alla presentazione simbolica, o più precisamente geometrica, che abbiamo proposto un’ora fa, ovvero la linea su cui sono segnati con segmenti disuguali i quattro tipi di rapporto con il reale, dall’immagine all’idea dialettica passando per l’opinione e l’idea analitica.
– Non sarà facile – sottolinea Glaucone. – Abbiamo da una parte due mondi e dall’altra quattro procedure.
– Ma il quattro è diviso in due: il percettibile e il pensabile. In generale, ma molto in generale, anzitutto paragoneremo ciò che si dispiega visibilmente come apparenza alle ombre percepite dai prigionieri del cinema. Poi identificheremo la luce dei proiettori con la potenza del sole. L’anabasi dell’evaso sulla montagna e la sua contemplazione delle vette porremo che sia l’ascesi del Soggetto verso il luogo del pensiero. Questi paragoni, miei giovani amici, sono conformi a quanto io spero e a quanto desiderate tanto conoscere. A partire dall’Altro e non dall’individuo – quell’infima cosa, fosse pure Socrate – si deciderà se la mia speranza è fondata.
Posso solo affermare che tutto quello che una volta mi è apparso, indipendentemente da tempo e luogo di quell’esperienza, si disponeva secondo un unico principio di apparizione. Al limite estremo del sapere, quasi fuori dal suo campo, si trova quella che chiamo falsamente l’Idea della Verità. «Falsamente», poiché vi ho già detto che, sostenendo l’idealità di ogni Idea, la Verità non può essere anch’essa un’Idea come le altre. Del resto è la ragione per cui è difficilissimo farne un concetto. Tuttavia, se ci si arriva, ci si vede costretti a concludere che, secondo questa «idea», tutto ciò che è si espone allo splendore di quanto detiene in precisione e bellezza. E se proseguiamo con i nostri paragoni, diremo che al dono della luce e all’azione del signore della luce, quali li sperimentiamo nel visibile, corrisponde esattamente, nel registro dell’intelligibile, l’avvento, secondo l’idea del Vero, tanto di verità particolari quanto del pensiero corrispondente.
– Ma – dice Amantea con la fronte aggrottata – il paragone zoppica.
– Ah, – ribatte Socrate stranamente tutto allegro – allora non sarebbe mai possibile un accordo tra un’immagine geometrica e un’immagine poetica? Mi concederai, al di là di questa discordanza, che solo piegandosi alle ingiunzioni della Verità un individuo può agire razionalmente, che il contesto dell’azione sia pubblico o privato?
Glaucone risponde, al posto di un’Amantea visibilmente insoddisfatta:
– Sia come sia, non si può dire il contrario.
– Mi concederai, anche senza resistenza né stupore, che gli evasi dal cinema cosmico, quelli che hanno raggiunto la cima della montagna e vi hanno contemplato il sole, non hanno alcuna voglia di immischiarsi nelle melmose faccende degli uomini. Incorporati in un Soggetto di verità, non desiderano altro che un’eterna permanenza lassù. Il che, in fondo, è normale se la nostra allegoria cinematografica esprime bene il reale di tutto questo processo. No?
– Sì! – dichiara Glaucone di stucco.
– Nessuno si stupisca che, in queste condizioni, chi passa brutalmente da una contemplazione all’altezza dell’Altro alle storielle della vita umana abbia un’aria smarrita e vagamente ridicola. Disabituato all’ombra in cui è di nuovo ripiombato, lo vediamo costretto a difendersi nei tribunali o in altri apparati di Stato, luoghi in cui, in fatto di giustizia, non è questione d’altro che della sua ombra o tutt’al più di oggetti artificiali proiettati sullo schermo del mondo da una luce artefatta. Farà non poca fatica a rivaleggiare, riguardo a queste immagini, con quelli che ne sono esperti, appunto perché non hanno mai avuto intuizione della giustizia in sé.
– L’assenza di stupore non costituisce una prova – dice Amantea.
– Adesso parli per enigmi? – chiede Socrate con tono piccato. –
Se ti impegnassi un po’ più razionalmente nel nostro problema, ti ricorderesti che la vista è perturbata in due modi diversi per due cause diverse, a seconda che si passi dalla luce all’ombra o dall’ombra alla luce. E forse, spremendoti le meningi, arriveresti alla conclusione che queste considerazioni sulla vista si applicano altrettanto bene al Soggetto. Allora, mia cara, qualora ne vedessi uno così turbato da essere incapace di capire un concetto usuale, non rideresti stupidamente, ma ti chiederesti se il detto Soggetto, bruscamente sottratto a un’esistenza bene esposta alla propria luce, non sia semplicemente accecato dall’inesperienza dell’ombra. O se, al contrario, passando da un’oscura ignoranza a un po’ più di luce, non rimanga abbagliato dall’insopportabile bagliore. Nel primo caso sapresti di avere a che fare con qualcuno i cui affetti e la cui intera vita appartengono alla felicità. Nel secondo caso dovresti piuttosto compiangere l’infelice, ma se ti venisse la crudele idea di riderne, quel riso sarebbe meno ridicolo se a suscitarlo fosse colui che viene dal luminoso lassù.
– Mi pento, caro maestro! – si inchina Amantea sorridente.
– Che il tuo pentimento apra il tuo spirito alle conclusioni essenziali. Ovvero prima di tutto: l’educazione non è ciò che alcuni pretendono che sia. Penso a tutti gli psicologi e ai pedagoghi che si vantano d’introdurre il sapere dove non c’è – in un Soggetto che si suppone vergine da qualunque disposizione cognitiva – esattamente come si innesterebbe la potenza di vedere in un occhio cieco. Ora, abbiamo appena detto e capito che in ogni Soggetto risiede il potere di conoscere e l’apparecchio che permette di attivare questa potenza. Immaginiamo un occhio che riesca a distogliersi dall’ombra rivolgendosi a ciò che brilla solo grazie a un movimento dell’intero corpo. Potremo allora raffigurarci che solo a costo di uno slancio totale del Soggetto riusciamo a strapparci dalle complessità del divenire, fin quando non diventi sopportabile l’intuizione indivisa dell’essere e dell’immanente splendore che esso detiene: esattamente ciò che chiamiamo Verità.
– Che «slancio totale» – sussurra Amantea.
– L’educazione non è quindi una faccenda di imposizione, ma di orientamento. È, direi, una tecnica di conversione. La sola cosa importante è trovare il mezzo più semplice e più efficace perché avvenga il ribaltamento del Soggetto. Non si tratta affatto di imporgli la vista, già ce l’ha. Ma poiché è mal diretta e non si volge alle realtà adeguate, bisogna a ogni costo riorientarla.