Antiper | 2060
Antiper, 2060, PDF, A4, 6 pag.
Nel novembre scorso, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE – o OECD in inglese -) ha pubblicato una previsione di lungo termine [1] su quello che ritiene sarà l’andamento della distribuzione della ricchezza prodotta a livello globale da qui al 2060.
Lo studio, ovviamente, non tiene conto di fattori ed eventi che oggi non possono essere previsti in termini quantitativi anche se sono piuttosto prevedibili in quanto a possibilità di accadere (come, ad esempio, una serie di crack finanziari, forse altrettanto e più virulenti di quello del 2008). Possiamo dunque dire che lo studio costituisce una stima ottimistica degli andamenti globali che si determineranno nei prossimi 50 anni e che la previsione formulata dall’OCSE di una crescita globale media del 3% all’anno deve essere significativamente corretta al ribasso (anche se al momento nessuno è in grado di quantificare l’entità di tale correzione [2]).
Lo studio costituisce una proiezione statica, basata sulle linee di tendenza che si possono intravvedere a partire dai dati storici (passato e presente). Del resto, è difficile valutare fattori che non sappiamo se e come si verificheranno; prendiamo, solo per fare un esempio, l’innalzamento relativo dei costi di produzione (e dei salari, in particolare) che può avvenire nelle “economie emergenti” o in altri contesti per effetto dello sviluppo delle lotte dei lavoratori e l’impatto che questo può avere sulla scelta, nei prossimi anni, dei paesi verso cui indirizzare gli investimenti diretti esteri di capitale (diciamo, per semplificare, le delocalizzazioni). Già adesso sono in atto varie tendenze a spostarsi da paesi come la Cina verso paesi come il Vietnam [3] e altri o, addirittura, a riportare alcune produzioni in “paesi centrali” (come gli USA [4]).
Naturalmente, nella maggior parte dei casi la de-localizzazione è una scelta strategica di medio-lungo termine (anche a causa dei costi che comporta); ma qui stiamo parlando di 50 anni e in 50 anni può verificarsi più di una “correzione di rotta”.
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Il punto saliente dello studio è che la crescita teorica media stimata dall’OCSE è spalmata in modo molto disomogeneo tra le varie aree geo-politiche.
I 34 paesi dell’area OCSE [5] – che sono considerati storicamente i paesi più “ricchi” del mondo (anche se è dubbio che questa assunzione possa valere per tutti) – fanno oggi il 64,7% del PIL mondiale (anno 2011) e nel 2060 faranno il 42,3%. I paesi fuori dall’area OCSE, che oggi fanno il 35,3% del PIL mondiale faranno il 57.7% nel 2060 e, di tale quota, ben il 45% sarà realizzato da Cina (27,8%) e India (18,2%) le quali, dunque, da sole supereranno l’intera area OCSE.
Quella che emerge è dunque la tendenza al definitivo superamento della supremazia economica degli USA e l’affermazione di uno scenario macro-economico (e inevitabilmente geo-politico) di carattere multipolare.
Il XXI secolo forse non sarà un “nuovo secolo cinese” (o “cindiano”), ma certamente non sarà un “nuovo secolo americano” [6].
Dentro questo scenario globale sussistono ulteriori scenari che lo studio permette di intravedere. Il primo, che ci riguarda più da vicino, è quello del sostanziale declino dell’Eurozona – per Europa e Giappone l’OCSE parla esplicitamente [7] di declino e di crisi -, la quale vedrà dimezzare il proprio share dal 17.1% all’8.8%.
Ciò significa che per l’Europa i prossimi 50 anni saranno tempi piuttosto duri. Si tratterà in sostanza di una recessione mascherata da stagnazione dentro la quale il tasso medio di profitto si assottiglierà ulteriormente, ricavandosi in larga misura solo dall’erosione del salario sociale.
La condizione di crisi diventerà cronica ed altrettanto croniche diventeranno le richieste ai lavoratori di accettare sempre nuovi sacrifici “per superarla”. Dunque, se per i paesi europei la situazione sarà difficile, per i lavoratori dei paesi europei la situazione sarà drammatica, dal momento che, così come la crescita non premia tutti nello stesso modo, così la crisi non punisce tutti allo stesso modo (come la stessa OCSE ha efficacemente mostrato nei suoi studi sulla polarizzazione sociale e la distribuzione del reddito [8]): il capitale si prende i vantaggi della crescita e scarica sui lavoratori le conseguenze della crisi.
Ammesso che sia possibile farlo dati gli attuali rapporti di forza tra le classi, opporsi in modo efficacie all’erosione del salario sociale potrebbe mandare in tilt il capitalismo europeo al quale non resterebbero che due opzioni: 1) de-localizzare ulteriormente (facendo crescere ancora disoccupazione strutturale e malcontento popolare) oppure 2) reprimere violentemente ogni opposizione sociale ai disegni del grande capitale industriale e finanziario europeo (e a quel punto quello di Monti parrà essere stato un governo di mammolette).
Quanto detto ci permette di affermare un altro punto fondamentale: dentro la gabbia dal capitalismo i lavoratori europei sono destinati ad un lungo periodo di sconfitte e di arretramenti sociali, un inferno rispetto al quale le sconfitte e gli arretramenti di questi anni sembreranno un paradiso. Altro che Safe European Home.
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Lo studio dell’OCSE evidenzia una cosa che a prima vista può apparire incongruente: nonostante il profondo ri-equilibrio nella ripartizione della ricchezza globale prodotta, non vi sarà un analogo ri-equilibrio del reddito e permarranno grandi squilibri tra paesi ricchi e paesi poveri, sebbene i paesi ricchi tendano a diventare molto più poveri. Il motivo principale di questa situazione consiste nel fatto che nei paesi emergenti la crescita demografica – e ovviamente l’accumulazione di capitale – assorbirà gran parte della crescita economica.
Si leggano, per sincerarsene, i dati di Angus Maddison [9] i quali evidenziano lo scarto tra crescita del PIL globale e crescita del PIL pro capite: nel 2030 Europa Occidentale e USA avranno rispettivamente 31.389 e 45.744 dollari di PIL pro capite (12.556 e 16.662 miliardi di dollari di PIL globale [10]) mentre Cina e India ne avranno rispettivamente 15,763 e 7,089 (22.983 e 10.074 miliardi di dollari di PIL globale [11]). Il PIL globale cresce molto di più in Cina e India di quanto non cresca in Europa e negli USA ma si spalma (statisticamente parlando cioè a prescindere dall’effettiva re-distribuzione interna) su una popolazione molto più ampia e che cresce più rapidamente.
Non si svilupperà se non in forma contenuta, pertanto, quel fenomeno di crescita diffusa del reddito derivante dalla crescita economica che si è spesso determinato nei “paesi emergenti” o, come si diceva una volta, “in via di sviluppo” (come è avvenuto, per fare un esempio, nell’Italia del boom economico).
Del resto il principio cardine di ogni delocalizzazione è quello che i costi complessivi debbano diminuire sensibilmente; ciò significa che una parte dei costi in capitale variabile che venivano sostenuti nei paesi di origine non si trasformeranno in capitale variabile speso nei paesi di destinazione, ma in profitti. Il che, a sua volta, indica una perdita netta di reddito globale per i lavoratori intesi come classe internazionale.
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Una nota. Quella dell’OCSE non è l’unica proiezione di lungo termine sull’economia mondiale. Di tali proiezioni ve ne sono diverse. Forse vale la pena segnalarne una in particolare, realizzata da un istituto piuttosto influente negli scenari finanziari internazionali: Goldman Sachs [12].
Anche Goldman Sachs ha fatto le sue previsioni, concentrandosi sui paesi cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) ed ha ricavato la conclusione che questi paesi potrebbero, già a partire dal 2039, superare i paesi G6.
“Nei prossimi 50 anni, Brasile, Russia, India e Cina – le economie BRIC – potrebbero diventare una forza molto più grande nell’economia mondiale. I BRIC potrebbero diventare un’importante nuova fonte di spesa globale nel prossimo futuro e, se le cose procederanno nel verso giusto, il complesso delle loro economie potrebbe superare quello degli attuali paesi G6 già dal 2039” [13]
Conclusione: il vecchio G8 contro il quale tanto si era manifestato nei primi anni 2000 sta evaporando. Paesi come Canada, Italia, Gran Bretagna, Francia… diventeranno sempre meno rilevanti [14] e probabilmente sempre più gregari degli USA visto lo stato in cui versa attualmente la cosiddetta Unione Europea.
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La dinamica del modo di produzione capitalistico e la crisi riscrivono continuamente quegli equilibri geo-politici che hanno poi una ricaduta immediata sulla condizione materiale di miliardi di persone sul pianeta, sia dal punto di vista del reddito che dal punto di vista dell’ambiente stesso in cui si svolge la loro vita.
Dimenticarsene, ritirandosi dentro una visione nazionale o addirittura regionale, è certo un moto comprensibile perché dettato dalla paura e dal senso di impotenza, ma la globalizzazione capitalistica offre anche enormi opportunità per costruire quella dimensione internazionale della lotta di classe senza la quale è impossibile anche solo pensare un autentico cambiamento.
Note
[1] OECD Economic Policy Paper n.3, Looking to 2060: Long-term global growth prospects
http://www.oecd.org/eco/outlook/2060%20policy%20paper%20FINAL.pdf
[2] Del resto la stessa OCSE afferma che in assenza di cambiamenti politici “ambiziosi”, potranno emergere squilibri che potrebbero compromettere la crescita (“In the absence of more ambitious policy changes, imbalances will emerge which could undermine growth”).
http://www.oecd.org/eco/outlook/lookingto2060.htm
[3] Dezan Shira & Associates, Incremento del costo del lavoro in Cina: Vietnam l’alternativa
[4] Per fare un esempio. Il tendenziale spostamento di produzioni dall’Italia agli USA da parte della FIAT come deve essere inteso? Come un ritorno di produzioni negli USA o come una delocalizzazione dall’Italia? Cfr. anche Federica Bianchi, Ora la Cina è in America, L’Espresso, 7 febbraio 2013, in cui si mostra che i differenziali tra USA e Cina in termini di costo del lavoro e costi totali di produzione sono passati dai valori (rispettivamente) di 51% e 31% del 2005 ai valori di 30% e 16% del 2013.
[5] Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
http://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_per_la_Cooperazione_e_lo_Sviluppo_Economico
[6] Ci ricordiamo tutti il Project for a New American Century (PNAC), il “think thank” neo-conservatore legato all’amministrazione Bush Jr. che sosteneva la necessità di affermare con ogni mezzo, anche militare, la supremazia USA nel mondo.
[7] OECD, Looking to 2060: A Global Vision of Long-term Growth
[8] Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries (OECD, 2008) e Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising (OECD 2011).
[9] Angus Maddison, Contours of the world economy, I-2030 AD, Essays in Macro-Economic History, Oxford University Press 2007, pag. 337.
[10] Con una popolazione prevista per Europa Occidentale e USA, rispettivamente, di 400 e 364 milioni di persone.
[11] Con una popolazione prevista per Cina e India, rispettivamente, di 1458 e 1421 milioni di persone.
[12] Dreaming with BRICs: the path to 2050, Dominic Wilson & Roopa Purushothaman, 1st October 2003, Goldman Sachs Global Economics Website, Paper No: 99: “Nei prossimi 50 anni, Brasile, Russia, India e Cina – le economie BRIC – possono diventare forze molto più grandi nell’economia mondiale. Stimiamo la crescita del PIL, del reddito pro capite e dei movimenti di capitale delle economie BRIC fino al 2050” (“Over the next 50 years, Brazil, Russia, India and China – the BRICs economies – could become a much larger force in the world economy. We map out GDP growth, income per capita and currency movements in the BRICs economies until 2050”).
[13] Goldman Sachs, CEO Confidential, October 2003, Issue n. 12, DreamingWith BRICs: The Path to 2050: “Over the next 50 years, Brazil, Russia, India and China—the BRICs economies—could become a much larger force in the world economy. The BRICs could become an important source of new global spending in the near future—and if things go right, their economies together could be larger than today’s G6 by 2039”.
[14] Malgrado l’iperattivismo militare di paesi come la Francia in Libia, Mali, Siria…