Antiper | La guerra come intervento dello Stato in economia. Una nota
Tratto da Antiper | Neo-liberismo e anti-neo-liberismo tra Stato e mercato, EBOOK, 24 pag., Autoproduzioni, 2013, COPERTINA
Com’è noto anche i sostenitori del cosiddetto neo-liberismo ritengono che debba essere lo Stato ad occuparsi delle questioni che riguardano la “difesa” [2] o – per meglio dire – la guerra. E da un pezzo, a dire il vero, non si parla più granché di guerra; si parla piuttosto di “interventi umanitari”, di “polizia internazionale”, di “lotta al terrorismo”, di “sicurezza”… Le “dichiarazioni di guerra” non si fanno più e “viene naturale” pensare (ovvero, ci hanno abituato a pensare) che la guerra non abbia a che fare con l’economia, ma con la Democrazia, i Diritti Umani, la Libertà… E’ normale, dunque, che la guerra non venga percepita per quello che è ovvero per un tipico esempio di intervento statale in economia.
Parafrasando Von Clausewitz [3], si potrebbe addirittura affermare che la guerra è la continuazione dell’economia con altri mezzi, se non fosse che la guerra è stata spesso l’inizio, dell’economia. Come non pensare, ad esempio, alla guerra scatenata dai colonialisti inglesi contro i nativi americani per accaparrarsene le terre e a questo accaparramento come l’“accumulazione originaria di capitale” sulla cui base è stato successivamente edificato lo sviluppo capitalistico degli USA?
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Fin dall’antichità, come ci ricordano anche Marx ed Engels, la guerra è fondamento del modo di produzione. Era vero per i barbari
“Nel popolo barbaro conquistatore la guerra stessa costituisce ancora, come già abbiamo accennato, una forma normale di relazioni, che viene sfruttata con tanto maggiore impegno quanto più l’aumento della popolazione, perdurando il rozzo modo di produzione tradizionale che per essa è l’unico possibile, crea il bisogno di nuovi mezzi di produzione” [4]
ed era vero per la stessa Roma
“La prima forma della proprietà, così nel mondo antico come nel Medioevo, è la proprietà tribale, condizionata principalmente dalla guerra presso i romani, dall’allevamento presso i germani” [5]
Lo Stato classista nasceva appena e già il suo primo vagito era “guerra!”.
E’ bene precisare che quando diciamo guerra come intervento statale intendiamo tutte le possibili modalità attraverso cui uno Stato (o una coalizione di Stati) entra in conflitto militare con un altro Stato (o un’altra coalizione di Stati): l’occupazione coloniale di un paese è un’azione di guerra; il sostegno materiale all’insorgenza interna di un paese è un’azione di guerra; la destabilizzazione attraverso azioni terroristiche è un’azione di guerra; gli embarghi, le no fly zone ecc… sono azioni di guerra.
Ci sono molti modi attraverso cui uno Stato, usando l’opzione militare, può intervenire in economia. Per esempio, realizzando la distruzione del capitale posseduto dalle frazioni concorrenti destrutturandone o, quanto meno, sottomettendone l’apparato produttivo in modo da realizzare la fuoriuscita a proprio vantaggio da una condizione di sovrapproduzione ed il conseguente rilancio del proprio saggio di profitto. Oppure procurando alle proprie imprese materie prime e forza-lavoro a basso costo necessarie per ridurre, rispettivamente, le spese in capitale costante e in capitale variabile. O ancora, occupando mercati di sbocco imponendo – attraverso la persuasione della forza piuttosto che attraverso la forza della persuasione – le proprie merci materiali e pure quelle “spirituali”…
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Quando si parla di “intervento statale” in economia viene subito in mente la sterminata famiglia di figli, nipoti e pronipoti – “bastardi” o meno – di Lord Keynes; non poteva allora mancare il termine “keynesismo militare” al quale, tuttavia, viene spesso attribuita la nozione troppo riduttiva di semplice sostegno statale agli investimenti nel campo della produzione bellica (la spesa in armamenti, per intenderci) laddove invece il campo di azione della “guerra” è ben più vasto. Ed anzi, senza la guerra vera e propria, anche il “keynesimo militare” finisce per essere solo un sollievo economico temporaneo.
Prendiamo questo lungo passo di Guglielmo Carchedi
“Alcuni autori sostengono che gli investimenti governativi civili potrebbero in teoria causare una ripresa economica auto-alimentata ma che essi non hanno avuto questo effetto a causa del loro grandezza limitata. L’esempio solitamente menzionato è il crash del 1929, la seconda Guerra Mondiale che ne derivò e il susseguente lungo periodo di prosperità. L’argomento è come segue: se massicci investimenti indotti dallo stato nell’industria militare hanno tirato fuori l’economia da una lunga e profonda recessione e prodotto l’Età dell’Oro del capitalismo, non potrebbe lo stesso essere fatto investendo nella economia civile? Non potrebbe questa essere la condizione per una ripresa di lungo termine, possibilmente secolare? I dati empirici smontano immediatamente tale ipotesi. Il debito federale lordo come percentuale del PIL è diminuito costantemente nell’Età dell’Oro, dal 121.7% nel 1946 al 37.6% nel 1970 [6]. L’Età dell’Oro non è stata causata dalle politiche Keynesiane [7].
Carchedi mostra che il rapporto tra debito pubblico e crescita negli anni della cosiddetta “golden age” (i 3 decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale) è il seguente: crescita sostenuta e spesa statale in calo: sembrerebbe una contraddizione, almeno rispetto alla “vulgata” sulla natura “keynesiana” della “golden age”: e invece è la dimostrazione che nella “golden age” la crescita è derivata soprattutto da altri fattori che non quello degli investimenti statali (stiamo parlando principalmente di USA ed Europa).
Ma, si potrebbe obbiettare, l’intervento statale non deve servire a sostenere costantemente gli investimenti, bensì ad avviare il processo virtuoso. Deve funzionare come l’avviamento a manovella delle vecchie auto. Poniamoci dunque la domanda: quanto è durato l’effetto manovella degli investimenti statali nell’industria bellica?
E allora, che cosa ha causato il lungo periodo di prosperità del dopo guerra? Consideriamo l’impatto reale dell’economia di guerra. Prima della guerra, il TMP cadde dal 14% nel 1929 al 6% nel punto minimo della recessione nel 1933. Dopodiché, incominciò a riprendersi e nel 1939, poco prima della guerra, era salito all’11%. Dopo un periodo molto breve in cui la redditività indotta dalla guerra salì, il TMP cadde verticalmente. Solo un anno dopo la fine della guerra, nel 1946, era tornato al 14%, il livello del 1929 [8]. La guerra ebbe solamente un effetto di breve durata sulla redditività media del dopoguerra. Contrariamente a quanto si crede quasi universalmente, il declino del sistema incominciò poco dopo la guerra e non nei primi anni 1970 anche se divenne evidente in quegli anni” [9].
E’ possibile che parlare di “declino del sistema” possa far insorgere un fraintendimento; quello che Carchedi intende dire è che già dall’immediato dopoguerra inizia [10] il declino del tasso medio di profitto (TMP); questo declino è in generale, sì, un problema per il “sistema”, ma un problema che non produce effetti critici immediati fintanto che può essere controbilanciato da un aumento della massa di profitto realizzata grazie all’espansione della produzione (cosa che, in generale e semplificando, è stata possibile fino all’inizio degli anni ’70 quando si è conclamata una condizione di sovrapproduzione in alcuni settori strategici).
Ecco perché, nonostante il declino del TMP, il trentennio post Seconda Guerra Mondiale viene definito “golden age”. E senza contare un altro fattore: quando c’è forte domanda di merci (come nell’epoca della “golden age”) c’è anche (aldilà della produttività del lavoro) forte richiesta di forza-lavoro ciò che ne fa crescere il prezzo; e il maggior prezzo della forza-lavoro, a parità di altri fattori di costo, tende a far decrescere il tasso medio di profitto. Ed è (anche) questo che spiega come nel trentennio “d’oro” si sia avuta crescita della massa di plusvalore e declino del saggio di plusvalore.
Secondo Carchedi l’“effetto guerra” (che anche qui, però, viene letto solo dal versante del sostegno statale alle produzioni belliche) ha dunque avuto un impatto, ma di breve periodo e di limitata ampiezza: non è stato pertanto il “keynesismo militare” che ha fatto uscire il capitalismo dalla crisi in cui era piombato dopo il ’29.
Cosa è stato, allora, a determinare la fuoriuscita temporanea dalla crisi e a permettere lo sviluppo della “golden age”? Sono stati gli effetti della guerra; e non gli effetti della guerra “fredda” o del riarmo pre Seconda Guerra Mondiale, ma gli effetti della guerra vera e propria [11].
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Carchedi indica gli elementi che hanno permesso al tasso medio di profitto negli USA di produrre un balzo negli anni della guerra
“Come fece la guerra a causare un tale balzo nel TMP nel periodo 1940-45? Il primo fattore fu la caduta della composizione organica a causa della quasi completa utilizzazione dei mezzi di produzione esistenti (piuttosto che la produzione di nuovi mezzi di produzione). Il denominatore del TMP non solo non aumentò ma cadde perché il deprezzamento fisico fu maggiore dei nuovi investimenti. Allo stesso tempo la disoccupazione era praticamente sparita. Questa diminuita disoccupazione rese possibili maggiori salari [12]. Ma i maggiori salari non intaccarono i profitti. Infatti, la conversione delle industrie civili in quelle militari ridusse l’offerta di articoli civili a favore degli articoli militari. I maggiori salari e la ridotta produzione di beni civili significarono che il potere d’acquisto dei lavoratori doveva esse grandemente compresso al fine di evitare l’inflazione. Ciò fu fatto istituendo la prima tassa sui redditi generale, scoraggiando la spesa per i beni di consumo (il credito al consumo fu proibito) e stimolando il risparmio dei consumatori principalmente attraverso investimenti in titoli di guerra. Conseguentemente, il lavoro fu forzato a posporre le spese di una ragguardevole porzione dei salari e i crescenti salari ebbero scarso effetto sul TMP [13]. Allo stesso tempo, il tasso di sfruttamento dei lavoratori aumentò [14]. In essenza, la guerra fu una massiccia produzione di mezzi di distruzione finanziata dal lavoro” [15]
Quando Carchedi dice “i maggiori salari non intaccarono i profitti” intende evidenziare il fatto che i maggiori salari dei lavoratori non furono spesi in una maggiore quantità di beni di consumo (come teoricamente sarebbe dovuto avvenire), né furono messi dai lavoratori “sotto il materasso”, ma furono bensì accaparrati dallo Stato che li usò per il sostegno statale alla spesa bellica ottenendo anche, in questo modo, di poter contenere l’inflazione che sarebbe potuta derivare da un incremento della domanda di beni di consumo a fronte di una diminuzione dell’offerta di tali beni (posto che la produzione era fortemente orientata verso l’industria bellica i cui prodotti non sono propriamente beni di consumo di prima necessità per i lavoratori).
I maggiori salari derivanti dalla “piena occupazione” non impattarono dunque eccessivamente sul TMP perché venne scoraggiato il consumo e incoraggiato il risparmio privato da indirizzare verso i titoli di Stato destinati a sostenere l’economia di guerra. Larga parte dei maggiori salari non fu spesa in consumi (cioè non fu goduta dai lavoratori), ma venne girata al sistema delle imprese attraverso le commesse belliche dello Stato (cioè fu goduta dal grande capitale). I lavoratori finirono per finanziare, prima i capitalisti, e poi la guerra: un destino ben particolare di certe conquiste economico-rivendicative…
Note
[2] “…il neo-liberismo non sostiene più, infatti, che le spese statali debbano essere limitate ai soli settori della difesa, della giustizia e dell’ordine pubblico ma, in contrapposizione dialettica con i fautori del Welfare State, ritiene che lo Stato debba intervenire solo nei casi di evidente fallimento del mercato”, “Liberismo”, Dizionario economico online Simone.
[3] Carl von Clausewitz, Della guerra: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»
[4] Karl Marx – Fredrich Engels, L’ideologia tedesca, Origine dello Stato e rapporto dello Stato con la società civile, [4].
[5] Karl Marx – Fredrich Engels, Ibidem.
[6] (Nota Carchedi) U.S. Office of Management and Budget, historical tables, table 7.1.
[7] Guglielmo Carchedi, Dietro e oltre la crisi, agosto 2011.
[8] (Nota Carchedi) Prendo questi dati da Freeman, 2010. I miei dati incominciano nel 1948.
[9] Guglielmo Carchedi, Dietro e oltre la crisi, agosto 2011.
[10] (Nota Carchedi) Nonostante la crescita post-guerra (ed anzi, a causa di essa) il TMP cominciò a diminuire già dall’immediato dopoguerra e proseguì fino almeno alla metà degli anni ’80.
[11] Cfr. Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx, “Dalla Grande Crisi se ne uscì non tanto con il New Deal – che non fu affatto, come recita un’altra vulgata, ‘keynesiano’ – ma con una nuova ancora più devastante grande guerra, il secondo conflitto mondiale”.
[12] (Nota Carchedi) “Tra il gennaio del 1941 e il luglio del 1945 i salari medi settimanali nella industria manifatturiera negli Stati Uniti aumentò del 70%.” (Milward 1977, p. 236. Si veda anche pagina 238).
[13] (Nota Carchedi) “In queste circostanze il miglioramento durante la guerra dei salari reali non fu comparabile a un simile miglioramento in tempi di pace” (Milward, op.cit., p.239).
[14] (Nota Carchedi) “La settimana lavorativa media negli Stati Uniti aumentò da trentotto a quarantacinque ore durante la guerra” (Milward, op.cit., p.229).
[15] Guglielmo Carchedi, Dietro e oltre la crisi, agosto 2011.