Antiper | Un particolare tipo di regolazione: la de-regolazione
Uno dei mantra sulla crisi finanziaria internazionale esplosa nel 2007-2008 è quello secondo cui, tale crisi, sarebbe figlia delle politiche di “de-regulation” avviate da Reagan a partire soprattutto dagli anni ’80 e proseguite nei decenni successivi. In particolare, la de-regolazione dei mercati finanziari e la rimozione [2] del divieto imposto alle banche di usare in modo speculativo i conti correnti – e non solo solo il proprio denaro o quello esplicitamente destinato a tale scopo -, combinata con l’enorme potere accumulato dai manager, avrebbero favorito la tendenza alla de-responsabilizzazione, all’assunzione di enormi rischi speculativi e, in definitiva, a quella dilagante “mancanza di etica” che avrebbe poi prodotto il disastro.
Ora, parlare di etica alle banche e alle imprese capitalistiche è un po’ come parlare di dieta al topo davanti al formaggio: bei discorsi sì, ma l’istinto è quello che è. Inoltre, la “mancanza di etica” degli squali di Wall Street non è certo una novità e poteva essere ben rilevata molto prima del 2007-2008 (magari nel 2000-2001 all’epoca dei crolli del Nasdaq e dei fallimenti di Enron, WorldCom e di una serie di banche USA di media grandezza; o, prima ancora, verso la fine degli anni ’90, all’epoca dei crolli delle borse asiatiche, messicana, brasiliana, russa); risulta dunque evidente che la “mancanza di etica”, se fosse una spiegazione, lo sarebbe di tutte le crisi.
Certamente, nel corso degli ultimi decenni vi sono state “de-regolazioni” che hanno gonfiato le vele alla speculazione finanziaria. Ma bisogna domandarsi perché queste de-regolazioni siano avvenute ovvero quali ne fossero le finalità. E la spiegazione secondo cui, un bel giorno, un ex attore di second’ordine, vinte le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, avrebbe cominciato a “de-regolare” a destra e a manca sulla base di proprie idee di economia politica (“neo liberiste”, ça va sans dire) è una favola alla quale può abboccare solo chi pensa che le tendenze strutturali del modo di produzione capitalistico possano essere dettate dalle convinzioni di qualcuno; ovvero, per dirla in altri termini, chi pensa che sia la realtà a seguire le idee e non il viceversa, come invece in buona sostanza è.
Se ci domandiamo il perché della de-regolazione diventa immediatamente chiaro che essa è stata realizzata non per scelta, ma per necessità, in quanto doveva consentire alla speculazione finanziaria di esplodere mantenendo i più alti rendimenti possibili – cosa che una finanza “regolata” (si fa per dire) non poteva permettere – così da alleviare la sovrapproduzione di masse di capitale che non riuscivano più ad essere valorizzate nella sfera della cosiddetta “economia reale” [3]. Se a questo si aggiunge che anche i jet dei manager, comprati con i soldi ricavati dalla speculazione, sono “economia reale” come pure i consumi derivanti dai rendimenti dei titoli posseduti dalla “middle class” nord-americana e che, dunque, il “sollievo” si è esteso anche alla sfera della produzione di merci, ecco chiarita la scelta della “de-regolazione”.
Il rapporto che intercorre tra “economia reale” ed “economia finanziaria de-regolata” (per usare una terminologia divulgativa) è analogo al rapporto che intercorre tra il lavoro salariato e il lavoro del rapinatore: il lavoro del rapinatore è molto più redditizio del lavoro salariato, ma è anche molto più rischioso e prima o poi ti becchi una pallottola o qualche decennio di galera. Un capitalismo basato sulla finanza ultra-de-regolata è un sistema destinato ad esplodere? Ovviamente sì, ma chi dovrebbe preoccuparsi dell’esplosione di domani del sistema? I manager di oggi? L’anarchia della produzione capitalistica non permette un coordinamento stabile ed efficacie nella produzione presente (altrimenti le sovrapproduzioni non ci sarebbero), figurarsi in previsione di eventi che avverranno tra anni e anni…
E poi c’era sempre la speranza – come si è visto, fondata – di poter scaricare gli “effetti collaterali” delle de-regolazioni su qualcun altro: i lavoratori, anzitutto, direttamente o indirettamente (come ad esempio attraverso l’attacco al debito pubblico di alcuni paesi [4]) o anche le frazioni capitalistiche concorrenti [5].
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Nel suo saggio più importante – La grande trasformazione – l’economista ungherese Karl Polanyi insiste su due questioni che lo conducono a rovesciare il nesso, supposto “naturale”, tra mercato e regolazione. A differenza di quanto si tende in genere a pensare – ovvero che prima sia venuto il mercato auto-regolato (cioè senza regole) e che solo poi ne sia stata imposta la regolazione – Polanyi ritiene che sia avvenuto, all’inizio, piuttosto l’opposto
“Non vi era nulla di naturale nel laissez-faire. I mercati liberi non avrebbero mai potuto esistere se si fossero lasciate le cose al loro corso. Così come le manifatture del cotone, la principale industria del libero scambio, furono create con l’aiuto di tariffe protettive, premi di esportazione e sussidi salariali indiretti, lo stesso laissez-faire fu attuato dallo stato” [6]
“il laissez-faire non era un metodo per conseguire qualcosa ma era la cosa da conseguire” [7]
Questa posizione fa venire in mente quella con cui Marx, nel primo libro de Il Capitale, descrive la cosiddetta accumulazione originaria di capitale. In quel contesto Marx non si riferisce al lassaiz-faire, ma alla creazione delle condizioni per l’avvio su vasta scala del ciclo capitalistico e analizza un importante e noto esempio di espropriazione dei mezzi di produzione [8]. Tutto il processo analizzato da Marx mostra che l’accumulazione originaria tutto fu meno che un fenomeno spontaneo; fu, al contrario, un processo caratterizzato da misure giuridiche e atti “istituzionali” – statali, possiamo dire, visto che i numerosi “enclosures acts” furono emanati dal Parlamento inglese tra l’inizio del 1700 e l’inizio del 1800 – volti a conseguire l’obbiettivo della creazione delle condizioni per una “normale” riproduzione del modo di produzione capitalistico.
E fu dunque togliendo a piccoli coltivatori e a piccoli allevatori la possibilità di sopravvivere – privandoli [9] dei loro mezzi di produzione – che si formò la prima condizione necessaria per la riproduzione del modo di produzione capitalistico ovvero l’esistenza di un “proletariato” che per sopravvivere fosse costretto a vendere l’unica merce posseduta, la propria forza-lavoro, e che non fosse mai in grado – come classe – di emanciparsi da questa condizione [10].
Parafrasando Marx, si potrebbe dire che, così come la creazione delle condizioni necessarie all’avvio e alla riproduzione del ciclo capitalistico di accumulazione non si determinarono spontaneamente, ma bensì attraverso l’azione dello “Stato”, allo stesso modo la creazione delle condizioni necessarie all’avvio e la riproduzione del laissez-faire non si determinarono spontaneamente, ma bensì, anch’esse, attraverso l’azione dello Stato
“La strada verso il libero mercato era aperta ed era tenuta aperta da un enorme aumento in un continuo interventismo centralmente organizzato e controllato.
Rendere la «semplice e naturale libertà» di Adam Smith compatibile con le necessità di una società umana era una questione estremamente complicata. Ne sono testimoni la complessità dei provvedimenti nelle innumerevoli leggi sulle recinzioni, la quantità di controllo burocratico reso necessario nell’amministrazione delle New Poor Laws che per la prima volta dal tempo del regno della regina Elisabetta erano effettivamente controllate dall’autorità centrale, o l’aumento dell’amministrazione governativa implicato nel meritorio compito della riforma municipale. E tuttavia tutte queste roccaforti dell’interferenza governativa venivano erette con l’idea di organizzare qualche semplice libertà, come quella della terra, del lavoro o dell’amministrazione municipale” [11]
Nel lassaiz-faire non solo non c’era nulla di “naturale” ma anzi, per renderlo possibile, fu necessario un crescente intervento dello Stato
“Gli amministratori dovevano stare costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema. Così anche coloro che più ardentemente desideravano liberare lo stato da tutti gli obblighi non necessari, e tutta la filosofia dei quali richiedeva la limitazione delle attività dello stato, non potevano far altro che affidare allo stato stesso i nuovi poteri, organi e strumenti richiesti per l’applicazione del laissez-faire”
Polanyi non si ferma alla constatazione che il laissez-faire fu possibile solo attraverso l’azione dello Stato, ma va oltre; sulla scorta della propria ipotesi teorica del “doppio movimento” sostiene che l’affermarsi non spontaneo del mercato auto-regolato aveva prodotto una reazione spontanea della società
“Su questo paradosso se ne inseriva un altro: mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello stato, le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era” [12]
“La punta legislativa del movimento contro un mercato autoregolato così come si sviluppò nella prima metà del secolo, dopo il 1860 apparve come spontanea, non diretta da un’opinione ma attuata da uno spirito puramente pragmatico” [13]
La teoria del “doppio movimento” di Polanyi è suggestiva, sebbene piuttosto discutibile. Indiscutibile, invece, è il fatto che il lasseiz-faire (diciamo, la de-regolazione) non sia stato il prodotto spontaneo e naturale della storia, che non venne realizzato contro ma grazie all’intervento dello Stato e che la sua evoluzione non sia dipesa da ragioni ideologiche, ma da ragioni storico-sociali.
Più che quello “polanyiano”, il tipo di “doppio movimento” che regola il rapporto tra “pubblico” e “privato” – diciamo, tra regolazione e de-regolazione – è il seguente: normalmente è il privato che fa impresa, ma quando la situazione va in tilt lo Stato si accolla i problemi e si prende le “mele marce” (Mussolini attraverso l’IRI, Bush Jr attraverso il TARP, ecc…). Quando la situazione torna sotto controllo le mele (cioè le attività capaci di generare profitto) vengono ricollocate nell’ambito del privato. Letta in questi termini, la dialettica di “pubblico” e “privato” diventa piuttosto semplice e si comprende come di essa possa avvantaggiarsi solo chi controlla lo Stato (nel capitalismo, i capitalisti): nella transizione dal pubblico al privato prendendosi le “mele buone”; nella transizione dal privato al pubblico mollando le “mele cattive”.
Queste brevi note ci permettono di misurare il valore sostanzialmente ideologico, tanto della formula “neo-liberista” “meno Stato, più mercato”, quanto della formula “anti-neo-liberista” “più Stato, meno mercato”. Stato e mercato non stavano in opposizione ieri, non stanno in opposizione oggi, non staranno in opposizione domani (almeno fintanto che lo Stato resterà una sovrastruttura del modo di produzione capitalistico).
Luglio 2012, Anche in Antiper, Neo-liberismo e anti-neo-liberismo tra Stato e mercato
Note
[2] Si tratta del “Gramm–Leach–Bliley Act” (altrimenti detto “Financial Services Modernization Act”) approvato nel 1999, all’epoca della presidenza Clinton. Una delle giustificazioni addotte da parte delle grandi banche di investimento a sostegno dell’introduzione di questo provvedimento consisteva nel fatto che, nei momenti di stagnazione o crisi, le persone tendono a privilegiare il risparmio a discapito dell’investimento. Con il vecchio assetto (in cui si potevano usare gli investimenti, ma non i risparmi nell’attività speculativa) le grandi banche avrebbero avuto, in quei momenti di crisi, scarsità di denaro disponibile, non avrebbero potuto investire e ci sarebbe stato un crollo anche del saggio di profitto (finanziario) con successive ricadute sull’“economia reale”, ecc… Quella “giustificazione”, che aveva un sua plausibilità formale, si è rivelata del tutto inconsistente tanto è vero che il crack del 2007-2008 ha prodotto un gigantesco “credit crunch” ovvero, proprio l’eventualità che si intendeva scongiurare. Il divieto (rimosso dal “Gramm-Leach-Bliley Act”) era stato introdotto dopo il crack del ’29 con il “Glass–Steagall Act” del 1933.
[3] Cfr Antiper, Eccesso di capitale e finanziarizzazione, aprile 2012
[4] Chi può avere dubbi sul fatto che le conseguenze dell’attacco al debito pubblico si stiano riversando, all’interno dei paesi colpiti – i famosi PIIGS -, sulle spalle dei lavoratori (ed anche di alcuni settori della piccola e media borghesia) e non certo su quelle del grande capitale industriale e finanziario?
[5] Il 2007-2008 è stata una fase di profonde trasformazioni nell’assetto della finanza nord-americana e di crescita della sua dimensione oligopolistica, con numerose ed importanti concentrazioni e centralizzazioni, per usare la terminologia di Marx.
[6] Karl Polanyi, La grande trasformazione, pag. 178, Einaudi.
[7] Karl Polanyi, ibidem.
[8] Si tratta delle cosiddette “enclosures” (recinzioni) degli “open fields” (campi aperti ad uso civico/comune) che ridussero tanti piccoli contadini e piccoli allevatori alla fame e li spinsero, dopo le leggi contro il vagabondaggio, allo spostamento dalla campagna verso la città.
[9] In questo senso possiamo parlare di proprietà privata come di proprietà di cui qualcuno è stato privato.
[10] “Con il termine enclosures ci si riferisce alla recinzione dei terreni comuni (terre demaniali) a favore dei proprietari terrieri avvenuta in Inghilterra tra il XVII ed il XIX secolo. Gli enclosure acts danneggiarono principalmente i contadini, che non potevano più usufruire dei benefici ricavati da quei terreni, a favore dei grandi proprietari: per le recinzioni era necessario sostenere spese di tipo privato ma anche legali, che scoraggiavano i piccoli proprietari. Alla fine del XVIII secolo, tale sistema aveva portato alla concentrazione della proprietà terriera nelle mani dell’aristocrazia inglese e, inoltre, aveva creato una massa di lavoratori disoccupati, la manodopera a basso costo che sarà quindi impiegata nel nuovo ciclo produttivo industriale” (Fonte Wikipedia).
[11] Karl Polanyi, ibidem, pag. 180.
[12] Karl Polanyi, ibidem, pag. 180.
[13] Karl Polanyi, ibidem, pag. 181.