Antiper | Il crack finanziario del 2007 e la “sconfitta” del neoliberismo
Secondo la quasi totalità dei commentatori “anti-neo-liberisti” il crack finanziario del 2007 – quello, per intenderci, dei “mutui subprime” – costituirebbe un’evidente sconfitta storica e teorica del neo-liberismo dal momento che quella crisi avrebbe dimostrato inequivocabilmente come il sistema finanziario americano e internazionale siano potuti sopravvivere al proprio collasso solo grazie al massiccio intervento diretto degli Stati. E, quando lo Stato interviene – deducono gli anti-neo-liberisti – il neo-liberismo è fritto.
La prima proposta di intervento statale su vasta scala per sostenere Wall Street dopo il crack della banca di investimenti “Lehman Brothers”, nel settembre 2008, venne avanzata nei giorni immediatamente successivi e inizialmente respinta dal Congresso; fu poi approvata e perfezionata in una gigantesca operazione di “tamponamento falle” (il TARP [2]) che i giornali dell’establishment politico ed economico denunciarono come “statalista” e “socialista”. Come era prevedibile, Marx fu messo sulla copertina del Time, nonostante che egli fosse, più che un sostenitore dell’intervento in economia dello Stato borghese-capitalistico, piuttosto un sostenitore della distruzione di tale Stato.
Ma tant’è…
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Di recente [3], l’Economist ha parlato di “capitalismo di stato” e di “mano visibile” [4] (parafrasando ironicamente Adam Smith) in relazione, oltre che alla politica economica degli USA, a quella dei paesi emergenti (Cina, Russia, India…) mettendo a fuoco una parte del problema che abbiamo di fronte: Stato e mercato sono davvero antitetici come parrebbero suggerire le opposte ideologie del (neo) liberismo e dell’anti (neo) liberismo?
In termini accademici, formalmente, i (neo) liberisti sembrerebbero fautori del non intervento dello Stato in economia e del principio di sussidiarietà [5], mentre gli anti (neo) liberisti sembrerebbero pensarla all’opposto.
Alcuni anti-neo-liberisti sono favorevoli all’intervento dello Stato in funzione anti-ciclica (per sostenere la domanda aggregata nei periodi di crisi e calmierare l’inflazione nei periodi di boom); altri chiedono la re-distribuzione del reddito nazionale a favore dei lavoratori per sostenerne i consumi… Ci sono “keynesiani di destra” che chiedono soldi per le imprese e “keynesiani di sinistra” che chiedono soldi per i lavoratori… Ma tutti, sia pure in modo diverso, chiedono l’intervento dello Stato e pensano che questo intervento, direttamente o indirettamente (come nel caso della favola keynesiana del sostegno agli investimenti che crea “pieno impiego”), finisce per favorire i lavoratori.
Di più. Nella variegata area anti-neo-liberista si è consolidata la bislacca idea secondo cui tra Stato e Mercato esisterebbe una relazione di questo tipo: più Stato uguale meno mercato, e viceversa. E poiché il “libero mercato” – ovvero la presunta “assenza di intervento dello Stato” – è una cosa brutta (ricerca del massimo profitto, altissima competizione, massimo sfruttamento dei lavoratori, ecc…) lo Stato – o, per meglio dire, l’intervento dello Stato – finisce per essere, al contrario, una cosa bella.
Dunque – dicono gli anti-neo-liberisti – se gli Stati tornano protagonisti il neo-liberismo è finito. Ma le cose stanno davvero così?
Procediamo un passo per volta e cominciamo dalla seguente definizione di neo-liberismo
“…La fine del secondo conflitto mondiale ha visto il rinascere dell’idea liberista, sia pure su basi nuove rispetto a quella di matrice classica; il neo-liberismo non sostiene più, infatti, che le spese statali debbano essere limitate ai soli settori della difesa, della giustizia e dell’ordine pubblico ma, in contrapposizione dialettica con i fautori del Welfare State, ritiene che lo Stato debba intervenire solo nei casi di evidente fallimento del mercato. È, soprattutto, sul piano dei rapporti commerciali internazionali che il neoliberismo si è imposto con maggior forza: organismi internazionali quali il GATT o il FMI, infatti, hanno favorito la stipula di accordi multilaterali di libero scambio e l’abbattimento dei dazi doganali.” [6]
Cosa leggiamo? Leggiamo che, secondo i neo liberisti, quando il mercato fallisce lo Stato deve intervenire. Proprio come è successo nel 2007-2008 con il crack di Wall Street: il mercato (finanziario) è fallito, lo Stato è intervenuto: schema neo-liberista.
Si tratta, con tutta evidenza, dell’assunzione esplicita (basata ovviamente sulla constatazione storico-empirica) che il mercato non si auto-regola (come postulavano i “liberisti classici”)e che quindi, tale mercato, prima o poi, dev’essere “regolato” in qualche modo.
E’ interessante anche la seconda parte della definizione dove è scritto, in sostanza, che senza l’intervento di istituzioni di carattere sovra-nazionale e inter-nazionale [7] impegnate ad abbattere gli ostacoli al “libero mercato”, tale libero mercato neppure ci sarebbe. E qui vengono alla mente le considerazioni di Karl Polanyi a proposito della nascita del mercato [8] o di Marx sulla battaglia tra liberoscambisti e protezionisti in Inghilterra in merito al varo delle “corn laws” [9].
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Consideriamo ora quest’altra definizione di neo-liberismo
“Indirizzo di pensiero economico che, in nome delle riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche all’ombra del laissez faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L. von Mises e il francese J.-L. Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato, ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in costrizione” [10]
Cosa ne ricaviamo? Che lo Stato è inefficace e inetto, certo, però deve intervenire quando si presenta una violazione del “libero mercato” perpetrata da concentrazioni monopolistiche. I neo-liberisti “non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera concorrenza” anche perché in circolazione, nell’epoca dell’imperialismo, di “libera concorrenza” ce n’è poca e sempre meno.
In questa definizione è esplicita la consapevolezza che il mercato tende a negare sé stesso nel monopolio (o nei cartelli/trust oligopolistici, come evidenziato da Hilferding e Lenin nelle rispettive analisi dell’imperialismo). E poiché è evidente che la dinamica del mercato capitalistico (“il pesce grosso mangia il pesce piccolo”) conduce dalla concorrenza al monopolio (che è la negazione della concorrenza), risulta altrettanto evidente che, senza l’intervento dello Stato “contro i monopoli”, tanti saluti a quella “libera concorrenza” di cui tanto amano sciacquarsi la bocca gli amici “liberisti” del capitalismo.
Anche qui siamo di fronte ad una prova di grande flessibilità teoretica perché viene sancito qualcosa che gli anti-neo-liberisti forse non hanno ancora capito (e che invece hanno capito benissimo tanto Keynes quanto i neo-liberisti): senza l’intervento dello Stato il mercato capitalistico evolve sempre più frequentemente verso la crisi e sempre più velocemente verso la scomparsa della concorrenza, altro che lasciamo fare al “libero” mercato.
Questo significa due cose: primo, il generico appello all’intervento dello Stato in economia non è, in sostanza, che il “cantare nello stesso coro” nel quale cantano i sostenitori del capitalismo; secondo, che dare addosso al “libero” mercato significa sparare su un uomo morto.
Tra le tante conseguenze (alcune soltanto speculative, come quelle di Karl Kautsky sul “super-imperialismo” e quelle di Paul Sweezy sulla fine dell’economia di mercato) possiamo sottolinearne una legata all’attualità (attualità in senso storico, evidentemente) ovvero il fenomeno della cosiddetta stagflazione (stagnazione-recessione con inflazione) [11].
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Prendiamo infine una terza definizione, rappresentativa di un’intera classe di definizioni di neo-liberismo che ben conosciamo
“Neoliberismo è un termine usato dagli appartenenti al liberalismo economico (liberismo), una dottrina economica che ha avuto grande impulso a partire dagli anni ottanta, soprattutto ad opera di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Essa sostiene la liberazione dell’economia dallo Stato, la privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale” [12]
Si tratta di una definizione straordinariamente rispondente al “senso comune” e perfettamente aderente all’idea di neo-liberismo che ci è stata trasmessa negli ultimi decenni dalle variegate espressioni dell’anti-neo-liberismo. Tuttavia è anche una definizione molto discutibile dal punto di vista teorico e questo dimostra che molto spesso vengono usate armi teoriche spuntate con le quali si sviluppano posizioni politiche deficienti (più che deficitarie).
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Molti autori usano con tale generosità il termine neo-liberismo che se dai loro testi questo termine venisse cancellato forse, questi testi, si ridurrebbero della metà. D’altra parte, in effetti, anche l’abuso di un termine è sintomatico del uso ideologico che se ne fa. Ma in fondo, cos’è il neo-liberismo se non l’impossibile tentativo di mantenere in vita i “principi del liberismo” ammettendo però che il mercato, lasciato a sé stesso, non va verso alcun equilibrio e che lo Stato deve intervenire ogni volta che qualcosa non funziona? Una sorta, insomma, di liberismo keynesiano, un liberismo in cui lo Stato appare e scompare a seconda delle necessità. Un “libero” mercato per nulla libero.
Conclusione: Non è vero che i neo-liberisti non vogliono lo Stato; lo vogliono, ma solo quando serve, non c’è bisogno di dirlo, agli interessi capitalistici; sono coloro, dunque, che hanno una nozione esatta del ruolo dello Stato nel modo di produzione capitalistico: per usare il linguaggio di Marx un sovrastruttura al servizio della struttura.
Al contrario, larga parte della sinistra sbandata pensa che lo Stato possa erigersi come “soggetto terzo” tra lavoro e capitale, nientemeno che per “mediare” le contraddizioni di classe. Un qualcosa che, quindi, bisognerebbe spostare il più possibile “a sinistra” – con il che, si vuole intendere, “dalla parte dei lavoratori” -.
Ma roba da matti…
Note
[2] Il “Troubled Asset Relief Program” (TARP) è un programma del Governo degli Stati Uniti per l’acquisto di beni e titoli da istituzioni finanziarie volto a consolidare il loro settore finanziario, firmato dal Presidente George W. Bush il 3 ottobre del 2008. E’ stata una delle misure del governo per fronteggiare nel 2008 la crisi dei mutui subprime (Wikipedia, trad, Antiper).
[3] “La crisi del capitalismo liberale occidentale ha coinciso con la crescita di una nuova potente forma di capitalismo di stato nei mercati emergenti”, The economist, The rise of state capitalism, Adrian Wooldridge (trad Antiper)..
[4] The economist, gennaio 2012, The visible hand, http://www.economist.com/node/21542931
[5] Più o meno: il “pubblico” deve stare fuori da ogni attività che possa essere condotta con profitto dal “privato”. Ma quanti sono i “settori” che, nell’epoca dell’imperialismo, possono muoversi “con profitto” sui mercati internazionali senza l’appoggio di uno Stato o di una qualche sovranità territoriale dotata di poteri di tipo statuale (difesa, istituzioni, moneta…)?
[6] Liberismo, Dizionario economico online Simone. Corsivi ns.
[7] Istituzioni, peraltro, saldamente controllate da un solo paese, gli USA, e dai suoi alleati.
[8] Cfr. Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi.
[9] Cfr. Karl Marx, Discorso sul libero scambio, Laboratorio Politico, Napoli.
[10] Neoliberismo, Treccani.it
[11] Esempio attuale: i carburanti, -20% di consumo, +20% di prezzo.
[12] Neoliberismo, Wikipedia.