Antiper | Eccesso di capitale e finanziarizzazione
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“Questo periodico riproporsi di espansioni finanziarie nel sistema capitalistico mondiale, fin dalla sue prime origini nelle città-stato dell’Italia rinascimentale, fu notato per la prima volta da Fernand Braudel, che sottolineò le loro condizioni dal lato dell’offerta. Tutte le volte che i profitti del commercio e della produzione hanno prodotto
‘un’accumulazione di capitali superiore alle normali occasioni di investimento, […] il capitalismo finanziario […] ha saputo […] conquistare la piazza e dominare – per un certo periodo – l’insieme del mondo degli affari‘ [2].
In questa evoluzione
‘lo stato del rigoglio finanziario […] sembr[a] annunciare […] una sorta di maturità’ [3]
Le espansioni finanziarie
‘sono il segnale dell’autunno’ [4] ” [5]
Nella sezione di Caos e governo del mondo che contiene il brano precedente Giovanni Arrighi e Beverly Silver fanno un’operazione al tempo stesso meritevole e discutibile.
E’ certamente meritevole aver sottolineato la contestualità tra eccesso di capitale (“accumulazione di capitali superiore alle normali occasioni di investimento”) ed espansione della sfera finanziaria. Braudel, da buon storico, non poteva non osservare questa ricorrente contestualità e se avesse avuto un approccio marxista avrebbe osservato qualcosa di più della contestualità – ovvero la causalità – esistente tra eccesso di capitale e finanziarizzazione, con quest’ultima che diventa periodicamente una sorta di “valvola di sfogo” per capitali incapaci di valorizzarsi adeguatamente nell’ambito dei settori produttivi [6].
In altro contesto, sempre a proposito del rapporto tra finanziarizzazione e cicli egemonici, Giovanni Arrighi è ancora più esplicito
“Il capitalismo finanziario […] costituisce invece un fenomeno ricorrente che ha caratterizzato l’epoca capitalistica sin dai suoi primi passi nel tardo medioevo e nell’Europa della prima età moderna. Nel corso di tutta l’era capitalistica le espansioni finanziarie hanno segnato la transizione da un regime di accumulazione su scala mondiale a un altro. Esse costituiscono aspetti integranti della periodica distruzione dei ‘vecchi’ regimi e della simultanea creazione di ‘nuovi’ regimi” [7]
La parte discutibile del ragionamento di Arrighi e Silver è quella in cui attribuiscono al proprio “maestro” – Fernand Braudel, appunto – la virtù di aver capito per primo che la inadeguata valorizzazione dei capitali nella sfera produttiva/commerciale alimenta la finanziarizzazione.
Va bene che certi autori non vanno più tanto di moda, ma ben prima di Braudel già il povero Karl Marx aveva abbozzato piuttosto brillantemente il rapporto tra sovrapproduzione, valorizzazione insufficiente del capitale in eccesso, finanziarizzazione, crisi finanziaria, ritorno della crisi sull’economia dei settori produttivi, ecc…
Dunque: non solo le ricorrenze evidenziate da Braudel non sono casuali; si potrebbe anzi dire, al contrario, che si tratta di ricorrenze causali.
Guglielmo Carchedi va oltre e mostra come la finanziarizzazione sia causata, in ultima istanza, dalla caduta del tasso medio di profitto, ma non ne costituisca che una soluzione passeggera
“E’ opinione comune che le crisi finanziarie provochino le crisi nella economia reale, semplicemente perché le prime sembrano precedere le seconde. Tuttavia, la prima crisi finanziaria del dopo guerra si è manifestata agli inizi degli anni ’70 mentre il declino della profittabilità media nella economia reale è incominciato nel 1950 (grafico 1). Il declino della profittabilità nella sfera produttiva ha preceduto di 20 e più anni la prima crisi finanziaria. Da quel punto in poi, il lungo e persistente declino del Tasso Medio di Profitto (TMP) ha generato in rapida successione crisi finanziarie che ogni volta vengono evitate ma risorgono puntualmente in forme sempre nuove. Le crisi finanziarie rivelano la decrescente profittabilità nella sfera produttiva e sono il catalizzatore della crisi nella sfera produttiva. Le crisi finanziarie non sono causate neanche dal troppo debito cioè dal debito al di sopra delle necessità del capitale produttivo per il suo funzionamento. La successione delle crisi finanziarie mostra che il debito ‘eccessivo’ è una costante. Ma allora vi deve essere una ragione strutturale dietro questa costanti ricorrenze congiunturali. Questa è la caduta secolare del TMP” [9]
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A questo punto, la de-regolamentazione – che viene considerata la causa dell’ipertrofia dei mercati finanziari – diventa, più che una scelta ideologica (come tendono a pensare gli “anti-neo-liberisti”), una scelta obbligata, attraverso la quale tentare di 1) evitare che mercati finanziari troppo regolamentati offrano tassi di profitto troppo bassi e 2) attendere che un rilancio su vasta scala dell’economia produttiva venga a sostituire le precarie toppe apposte dalla finanziarizzazione al ciclo di valorizzazione del capitale.
La moltiplicazione degli strumenti di “finanza creativa” non è, dunque, né un problema di “legalità” né, tanto meno, un problema di “etica” [10], ma risponde semplicemente ad una ben precisa necessità di fase: evitare la sovrapproduzione assoluta [11], il blocco totale delle forze produttive, mantenere i profitti sufficientemente alti per un tempo sufficientemente lungo [12] nonostante la caduta tendenziale del saggio di profitto. Cioè a dire: una gallina oggi.
Per la stessa ragione, anche la “madre” di tutte le de-regolamentazioni della seconda metà del ‘900, ovvero la rottura del gold standard exchange, decisa dagli USA nel 1971, deve essere analizzata prima come conseguenza della caduta del saggio di profitto nella precedente “golden age” e poi come causa della successiva turbolenza finanziaria.
Braudel avrà certamente intuito “per primo” tante cose interessanti, ma non il fatto che la “finanziarizzazione” e la crisi finanziaria sono anzitutto la conseguenza (e solo in un secondo tempo la causa) della crisi della cosiddetta “economia reale”, ammesso che, nell’epoca dell’imperialismo, possa essere stabilita una distinzione molto netta tra questi due tipi di “economia”.
Ovviamente, il problema fondamentale non è “chi ha capito cosa” per primo, ma avere o non avere capito qualcosa. E il fatto che Braudel e Marx abbiano capito un punto essenziale va a loro merito. E per quale ragione il punto sia essenziale è presto detto: se la finanziarizzazione – la “sovraspeculazione” – è principalmente un effetto della crisi di valorizzazione del capitale allora la soluzione di tale crisi non risiede nella regolazione dei mercati finanziari la quale regolazione, quando e se avverrà, avverrà solo e comunque nell’interesse del profitto, non certo per proteggere i “cittadini” o i “piccoli risparmiatori” delle conseguenze della speculazione.
A dire il vero, la soluzione delle crisi non risiede neppure nella de-regolamentazione dei mercati finanziari perché questa può solo ritardare, ma non risolvere, il problema anche se, ovviamente, quando non si riesce proprio ad risolverlo, un problema, si può sempre tentare, almeno, di scaricarlo su qualcun altro. E questo è uno dei motivi per cui troviamo incredibilmente ipocriti e retorici i rimbrotti ai top manager delle banche coinvolte nel crack finanziario, dal momento che questi manager sapevano benissimo cosa stavano facendo – un sacco di soldi – ed avevano chiarissimo il proprio target – far durare la giostra il più a lungo possibile -; del resto, del doman non v’è certezza… e una speculazione finanziaria che si ponesse il problema del destino al lungo termine del sistema capitalistico nel suo complesso piuttosto che quello dell’immediata [13] realizzazione di un surplus che speculazione sarebbe?
Questo, e non l’accanimento anti-operaio o la naturale cattiveria del padrone, spiega come mai il “governo tecnico” di Mario Monti (come, beninteso, quelli che lo hanno preceduto e quelli che lo seguiranno) si occupi con tanta diligenza di salario (diretto), salario (indiretto) e ancora salario (differito): perché la riduzione del salario sociale di classe è sempre la più diretta contro-tendenza alla caduta del saggio di profitto [14] sebbene anche questa sia una soluzione necessariamente transitoria perché nel capitalismo un equilibrio stabile a tempo indeterminato è, semplicemente, impossibile.
Note
[2] Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Einaudi, 1982
[3] Ibidem
[4] Ibidem. Con questa affermazione Braudel intende sottolineare che la finanziarizzazione segnala la fine di un ciclo egemonico e l’inizio del successivo. E’ in base anche a questo schema che Arrighi diagnostica l’attuale “autunno” del ciclo egemonico statunitense e l’alba di un nuovo ciclo egemonico (ancora nebuloso, ma che ritiene di poter cominciare ad intravvedere in un “ciclo cinese”; cfr Adam Smith a Pechino, Fetrinelli).
[5] Giovanni Arrighi, Berverly J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori Editore, pag. 36
[6] La sovraccumulazione di capitale, direbbe Marx nel Cap. XV del terzo libro del Capitale.
[7] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, NET, pag.10
[8] K.Marx-F.Engels, Neue Rheinische Zeitung Revue, Maggio-Ottobre 1850.
[9] Guglielmo Carchedi, Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell’euro, 2011.
[10] Non è un po’ ridicolo parlare di problemi “etici” rispetto alla speculazione finanziaria quando la “volontà di profitto” dei settori dell’economia reale (petrolieri o produttori di armi, per fare un esempio) è la causa delle guerre che si succedono l’una dopo l’altra? Quanto poi alla legalità, non è che gli schiavi dei campi di cotone che alimentavano le industrie tessili inglesi dell’800 all’epoca della prima grande industrializzazione su vasta scala fossero poi tanto d’accordo ad essere deportati dall’Africa per partecipare a questa bella “economia reale”.
[11] Cfr. Karl Marx, Il capitale, Terzo libro, Sezione III, Cap. XV.
[12] Se riesco a rimandare il problema a dopo la mia morte dal mio punto di vista ho risolto il problema. Stare a pensare troppo ai posteri non fa bene al profitto.
[13] Si osservi che il problema del contenimento delle transazioni a brevissimo termine se lo stanno ponendo anche le centrali del grande capitale internazionale; non a caso Francia e Germania sostengono l’introduzione della cosiddetta “Tobin tax”, già cavallo di battaglia del movimento no global.
[14] Come ha ri-mostrato di recente Guglielmo Carchedi “dal 1950 al 1986 i salari aumentano relativamente ai profitti (il P/S diminuisce) ma il tasso di profitto cade invece di salire e nel periodo dal 1987 ad oggi i salari diminuiscono (il rapporto P/S aumenta) ma il tasso di profitto aumenta (invece di cadere)”. [Note: P/S è il rapporto Profitti/Salari]