Antiper | Lavoratori al mercato
Antiper, Lavoratori al mercato, Febbraio 2012, PDF, A4, pag. 4
Nel modo di produzione capitalistico vige una sorta di “legge dei saggi di profitto comunicanti” [2] secondo la quale i capitali si spostano dai settori o i luoghi a saggio di profitto minore verso quelli a saggio di profitto maggiore.
Dal momento che il costo della forza-lavoro (il salario, in senso generale) incide sul prezzo di vendita delle merci, poter usufruire di forza-lavoro a costi inferiori consente di poter abbassare i costi di produzione. Consente, dunque: 1) di poter abbassare i prezzi per aumentare le vendite (cioè la massa di plusvalore entrante) oppure 2) di poter avere un maggiore saggio di profitto (praticando prezzi di vendita invariati e dunque rimanendo invariata la massa di merci vendute).
Quindi, quando si accusano le imprese di voler realizzare profitti attaccando il salario invece che investendo in innovazione tecnologica si dimentica – o si finge di dimenticare – che l’innovazione costa e che qualsiasi impresa, in qualsiasi parte del mondo capitalistico, prima di spendere anche un solo centesimo in nuove macchine cerca, attraverso nuove organizzazioni produttive del lavoro, attraverso il ricatto occupazionale, attraverso le de-localizzazioni… di abbassare i costi in forza-lavoro, ovvero in salari. Oppure innova perché è costrette ad inseguire al concorrenza.
L’abbassamento dei costi di produzione in forza-lavoro è stata una delle spinte maggiori verso le de-localizzazioni che, soprattutto negli ultimi decenni (ma non solo), si sono prodotte in molti settori produttivi.
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C’è una cosa che bisogna sempre tenere bene a mente: la crisi tende oggettivamente a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori e la loro capacità di resistenza. Questo vuol dire che le condizioni per poter sviluppare lotte efficaci anche solo dal punto di vista salariale o per poter realizzare “riforme” che vadano nel senso di migliorare la condizione generale dei lavoratori, tendono a peggiorare. D’altra parte, ove anche la capacità di lotta dei lavoratori potesse magicamente aumentare – nonostante la crisi – cosa potrebbe seguire ad un ipotetico aumento dei salari in un settore de-localizzabile? Potrebbe seguire il fatto che una delocalizzazione in precedenza non vantaggiosa (e per questo non realizzata) diventerebbe a quel punto vantaggiosa (e verrebbe quindi realizzata). Si produrrebbe un flusso di Investimenti Diretti Esteri (IDE) verso zone a minor costo del lavoro (a maggior saggio di profitto) e dunque una riduzione di capitali investiti (e dunque dei posti di lavoro) nelle “zone di origine”. La riduzione dei posti di lavoro produrrebbe una maggiore competizione occupazionale tra i lavoratori delle zone di origine e, di conseguenza, una riduzione del loro salario medio (e dunque un aumento del saggio di profitto anche per le imprese delle “zone di origine” che non avevano de-localizzato). In definitiva, un aumento dei salari potrebbe produrre solo un miglioramento transitorio della condizione dei lavoratori e, probabilmente, il suo successivo annullamento.
Questo ragionamento non conduce affatto – come potrebbe superficialmente apparire – alle conclusioni del “cittadino Weston” tanto argutamente criticate da Marx nei due discorsi tenuti presso l’Associazione Internazionale dei Lavoratori di Londra nel 1865 e successivamente pubblicati in Salario, prezzo e profitto ovvero al fatto che sia inutile (o addirittura controproducente) lottare per l’aumento del salario in quanto tale aumento prima o poi viene perso.
Innanzitutto perché, anche se transitorio, l’aumento dei salari sarebbe comunque un miglioramento della condizione dei lavoratori e un miglioramento transitorio è meglio di nessun miglioramento.
Inoltre, lo scenario illustrato non è inevitabile perché tutto, in definitiva, dipende dai rapporti di forza tra le classi sociali. Il punto è che questi rapporti di forza dipendono da molti fattori e tra questi fattori ci sono il potere contrattuale legato alla forza associativa dei lavoratori (ovvero alla forza e combattività delle loro organizzazioni sindacali e politiche) e il potere contrattuale legato al posto di lavoro (ovvero alla delocalizzabilità o meno dell’impresa, alla posizione favorevole o meno nella divisione tecnica e sociale del lavoro, ecc…). E a monte di questi poteri ci sono la fase storico-economica e la fase storico-politica che in certa misura li determinano: se ci si trova in una fase economica di crescita le imprese possono accettare di dover fare alcune “concessioni” (perché è fondamentale non far fermare la produzione) e questo può avvenire anche se ci si trova in una certa fase politica internazionale (come, ad esempio, quella della “guerra fredda”, per evitare che si formi un vasto sentimento anti-capitalistico).
Ma quando si trovano in una fase di stagnazione – o addirittura di recessione – le imprese capitalistiche non possono più accettare di dover fare neppure piccole concessioni perché già devono, al contrario, smantellare precedenti concessioni per recuperare competitività e profittabilità. Se in queste fasi i lavoratori accettano lo smantellamento – o sono costretti ad accettarlo – non succede granché: semplicemente, peggiorano le loro condizioni materiali. Se invece si genera una poderosa resistenza contro lo smantellamento si produce anche una poderosa repressione. Lo sviluppo di questa situazione conduce a due sole vie di uscita: la rivoluzione, se esiste una direzione politica capace di orientare il movimento delle masse in quella direzione, oppure, più frequentemente, la contro-rivoluzione.
Oggi, purtroppo, la possibilità che i lavoratori dei paesi capitalisti “avanzati” (come l’Italia) riescano a resistere allo smantellamento delle loro precedenti conquiste o, addirittura, a realizzare aumenti salariali superiori all’aumento del “costo della vita”, ha una bassa probabilità di realizzarsi e questo fa sì che, a causa della crisi, della concorrenza tra “interni” e “immigrati” e della concorrenza tra residenti nelle zone di origine e residenti nelle zone di destinazione delle de-localizzazioni… i lavoratori subiscano un ulteriore sbilanciamento dei rapporti di forza a proprio svantaggio (e quindi a vantaggio dei capitalisti).
Questo rende ancora meno probabile (di quanto già non sia) il fatto che un ipotetico aumento dei salari possa produrre, come sostengono gli intellettuali della sinistra politica e sindacale, il rilancio dei consumi, l’aumento dell’occupazione, la fuoriuscita dalla crisi e così via delirando… anche perché ogni euro che viene destinato ai consumi di prima necessità dei lavoratori viene distolto dai consumi di prima necessità e di lusso dei capitalisti, nonché dai loro “consumi produttivi” (mezzi di produzione, materie prime, investimenti finanziari, ecc…) e quindi non realizzerebbe alcun maggiore consumo globale (dal momento che la ricchezza prodotta non viene cambiata semplicemente cambiando il modo in cui viene re-distribuita).
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La de-localizzazione delle attività produttive [3], che in una prima fase rappresenta sempre un potente fattore di contro-tendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto, in una seconda fase, dopo il livellamento al ribasso dei salari che inevitabilmente determina, cessa di agire come contro-tendenza.
Come già visto, la de-localizzazione viene usata sia per accedere a costi della forza-lavoro e delle materie prime più bassi, sia per ricattare i lavoratori dei “paesi di origine” a causa del minor numero di posti di lavoro a loro disposizione e quindi per costringerli a cedere quote di salario in cambio del mantenimento del posto di lavoro.
In definitiva, la progressiva estensione della de-localizzazione fa aumentare poco i salari nelle zone di destinazione e li fa diminuire molto nelle zone di origine [4].
Via via che la de-localizzazione va avanti il differenziale salariale comincia a diminuire e con esso anche il vantaggio a realizzare la de-localizzazione (e dunque la tendenza a de-localizzare). Si riduce, dunque, la possibilità di usare quella particolare forma di aumento del grado di sfruttamento del lavoro che deriva dalla competizione internazionale tra i lavoratori [5].
Quando l’imperialismo non trova ostacoli alla propria espansione geo-economica anche i lavoratori del centro imperialista ne subiscono le conseguenze: a volte “vantaggiosamente” (come nel caso delle “aristocrazie operaie” [6]), molto più spesso svantaggiosamente.
Dunque, maggiore è la resistenza sociale da parte dei lavoratori dei paesi dominati dall’imperialismo e minore è il ricatto sui lavoratori dei paesi imperialisti. Ecco una buona ragione per sostenere le resistenze contro i piani di espansione dell’imperialismo dal momento che quando i lavoratori del resto del mondo sono più forti il capitale ha minore capacità di metterli in competizione con noi e quindi anche noi siamo più forti.
Note
[2] Cfr Karl Marx, Il Capitale, Terzo libro, Sezione II
[3] Ciò che Marx chiamava “commercio estero”. Cfr K. Marx, Il capitale, Libro III, Sez. III, Cap. XIV.
[4] Infatti, solo un parte del capitale variabile (cioè del capitale speso complessivamente in salari) precedentemente impiegato nelle zone di origine verrà impiegato in quelle di destinazione dal momento che la delocalizzazione ha senso solo se consente una riduzione capitale variabile e non un suo semplice trasferimento.
[5] Cfr. K.Marx, Lavoro salariato e capitale; K.Marx, Il capitale, Libro III, Sez. III, Cap. XIV. Dopodiché, può addirittura diventare vantaggioso, per tutta una serie di ragioni non solo di ordine economico, riportare quote di produzione nei paesi che avevano de-localizzato diversi decenni fa (un esempio su tutti, il trasferimento in corso da Fiat Italia alla Chrysler).
[6] Per inciso, la sparizione dal vocabolario stesso del “movimento” della preziosissima nozione di “aristocrazia operaia” (quel segmento della classe operaia che si allea con l’imperialismo in cambio di alcune briciole ricavate dallo sfruttamento dei paesi sottomessi) è un sintomo abbastanza consolidato dell’involuzione del cd “movimento”