AA.VV. | La rivoluzione delle donne
Opuscolo, A5, 32 pagine, copertina, Autoproduzioni, 2011
Testi di Aleksandra Kollontaj, lettere dal carcere di Petra Krause e Heidi Peutsch, ricordi di Teresa Noce, poesie di Assata Shakur, fotografie di Tina Modotti…
Il senso della Giornata internazionale della donna (quella che viene comunemente ed impropriamente chiamata Festa della donna) si va perdendo anno dopo anno. Questa giornata non era stata pensata certo come giornata di svago, ma come giornata di lotta per il cambiamento politico e sociale delle donne e non solo. C’è chi dice, e non a torto, che un giorno appositamente “dedicato alle donne” non dovrebbe esistere, così come non dovrebbe esistere un giorno “dedicato ai lavoratori” o un giorno “dedicato alla Resistenza”. Ma se questo avviene è anche perché viviamo in una società che “non ricorda” ogni giorno i diritti delle donne e dei lavoratori o l’insegnamento della Resistenza; viviamo in una società che anzi, ogni giorno, impedisce l’affermazione di quei diritti e il ricordo di quell’insegnamento.
Gradualmente, la borghesia è riuscita ad appropriarsi anche di questa che era una “giornata militante” e l’ha ridotta a semplice “giornata di consumo” in cui le donne, da protagoniste-antagoniste in lotta per i diritti ad esse negati, si trasformano in marionette manovrate dal sistema “culturale” dominante. Ecco com’è che l’8 marzo, invece di essere il giorno in cui denunciare con più forza i modelli culturali che producono gli spogliarelli femminili, diventa il giorno di maggiore affluenza agli spogliarelli maschili. Una specie di giornata dell’“emancipazione a buon mercato”: ma fare per un giorno quello che i maschi fanno tutto il resto dell’anno non significa certo esprimere la propria specificità di donne..
La Giornata Internazionale della Donna ha un senso del tutto diverso da quello comune, un senso che intendiamo recuperare e attualizzare perché denso di insegnamenti. Intanto, per noi la Giornata Internazionale della Donna non è né solo, né tanto, una giornata di festa ma è piuttosto una giornata di lotta sociale e culturale contro il permanere delle disuguaglianze di genere che rendono (purtroppo, ma inevitabilmente, ci viene da dire) attuale e necessaria la lotta delle donne. Ciò nonostante il conflitto che intendiamo portare avanti non è principalmente il conflitto tra i sessi, bensì quello più generale e strutturale tra le classi. Perché se è vero, come si dice, che le donne hanno scarso accesso ai ruoli “dirigenti” e “istituzionali”, è altrettanto e più vero che a quei ruoli non hanno alcun accesso i proletari, maschi o femmine che siano. Avrebbe dunque ben poco senso, da parte delle donne lavoratrici, impegnare le proprie forze per permettere alle donne borghesi di conquistare le “quote rosa” in Parlamento o nei Consigli di Amministrazione per poi tornare a sgobbare due volte, in fabbrica o in ufficio e a casa.
Non c’è liberazione della donna se non in una società socialista: questo è il senso che diamo alla lotta delle donne. Comuniste dunque, anche in quanto donne, per realizzare quella liberazione che dentro la società della divisione del lavoro e della divisione in classi non può realizzarsi. E questa è la ragione per cui le donne comuniste non si pongono solamente come antagoniste all’esistente: lottano contro, certo, contro lo sfruttamento, contro il patriarcato, contro la violenza, contro la collocazione in ben precisi ruoli sociali e culturali…, ma lottano anche per “abolire lo stato di cose presenti” e per costruire un mondo nuovo, di liberi ed uguali: un mondo socialista. La condizione delle donne è – al pari di quella degli uomini – il prodotto di relazioni sociali che si sono affermate storicamente e che si modificano con il modificarsi delle diverse forme economiche e politiche.
Dunque, anche il ruolo della donna (se così vogliamo definirlo, perché è evidente che questo ruolo non è lo stesso per le donne lavoratrici e per le donne della classe dominante) è un prodotto storico-sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo attraverso la trasformazione della società che determina questi ruoli. Questo vuol dire che quando si tenta di analizzare la posizione della donna nella società in cui viviamo non si può fare a meno di partire dall’analisi della natura di questa società dunque, nel nostro caso, una società capitalista che si fonda essenzialmente sulla divisione in classi e sullo sfruttamento del lavoro di una classe da parte di un’altra classe. In altri termini, non possiamo non tenere conto che esiste una classe – fatta di uomini e di donne – che viene sfruttata e che ne esiste un’altra – anch’essa composta da uomini e da donne – che sfrutta, domina e accumula profitto sulle spalle dell’altra. Questo è per noi l’elemento centrale da cui partire, perché siamo convinti che la contraddizione tra i sessi si collochi all’interno di un’altra contraddizione fondamentale che è quella tra lavoratori salariati e capitalisti.
E malgrado i continui sforzi della cultura dominante di costruire una “identità di genere” prevalente su quella sociale, di classe, in fondo ogni donna lavoratrice sa sulla propria pelle che la propria quotidianità non ha nulla a che spartire con quella delle donne di potere; sa bene che chi paga una governante non ha il problema dell’asilo e chi ha un cospicuo conto un banca non ha il problema di arrivare a fine mese. La liberazione della donna deve essere indubbiamente opera della donna stessa la quale arricchisce la propria lotta per l’emancipazione sociale con la propria specifica lotta di donna. In questa lotta per l’emancipazione le donne hanno bisogno dell’unità con le donne (e gli uomini) della propria classe per lottare contro una società entro cui esse sono vittime dello sfruttamento di uomini, ma anche di altre donne. Le donne delle classi di potere (se e quando lottano) lo fanno al limite per chiedere riforme interne al sistema gerarchico caratteristico della democrazia borghese. Per le donne delle masse popolari l’obbiettivo principale non può che essere, invece, quello dell’abbattimento della società in cui esse vengo sfruttate nella loro duplice veste di donne e di proletarie.
Prendiamo la situazione della donna rispetto al mondo del lavoro. Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore gli effetti della crisi economica del capitalismo. Gli attacchi durissimi portati alle conquiste sociali ed economiche del mondo del lavoro hanno avuto conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle donne. Il processo generale di ristrutturazione e di precarizzazione del lavoro che è stato portato avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, qualunque fosse il loro segno politico, ha prodotto l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà del lavoro, portando con sé lo smantellamento di diritti che i lavoratori e le lavoratrici avevano conquistato nelle lotte della fase precedente. Le donne (e gli immigrati, per altro verso) sono i soggetti più colpiti dal supersfruttamento attraverso contratti di lavoro “atipici”, come il lavoro interinale o i contratti part-time che molte donne chiedono non allo scopo di liberare tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia. Quindi: doppio sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che lavorano in casa. Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica porta con sé l’aumento della violenza sulle donne (e magari anche la diminuzione delle denunce, le due cose non sono affatto in contraddizione). Pensiamo alle molestie sessuali sui posti di lavoro (contro le quali, fra l’altro, non esiste in Italia una legge specifica, dato che il nostro Codice Penale punisce soltanto le violenze sessuali o i comportamenti ad esse riconducibili): quanto più il mercato del lavoro è chiuso alle donne, tanto più drammatica diventa la “scelta” di denunciare i datori di lavoro e i colleghi violenti o molesti (o anche, al limite, di lasciare il posto).
Non c’è bisogno di dire che i mass media, con i modelli “culturali” che propongono, svolgono un ruolo determinante nello proporre una cultura dell’accettazione della violenza e degli abusi sessuali contro le donne. Nel mercato del lavoro spesso poi alle donne si chiede di far corrispondere la propria immagine a quella dettata dal modello culturale dominante (naturalmente per essere funzionale alla realizzazione del profitto: più la venditrice è carina e meglio si vende la merce): ti tocca mostrarti sensuale e maliarda persino per vendere più carta igienica. Il capitalismo cerca di suggerire una sorta di naturalità dell’odierno ruolo sociale della donna. Certo, solo le donne possono essere madri, ci mancherebbe, ma non è affatto “naturale” che la donna debba occuparsi – spesso da sola – del lavoro domestico, dell’educazione dei figli o dell’assistenza agli anziani. Questa idea è caratteristica della società patriarcale (che in Italia è ancora particolarmente radicata) e porta a non considerare tutto questo lavoro, svolto gratuitamente dalla donna, come un vero e proprio lavoro. E naturalmente questo tipo di ideologia tende a rafforzarsi in fasi storiche, come questa, caratterizzate da una crisi economica che espelle migliaia di lavoratori dal ciclo produttivo in conseguenza di licenziamenti e chiusure di fabbriche. E le donne sono i primi soggetti che vengono espulsi dalla produzione, dopo essere stati impiegati principalmente in lavori precari e con salari inferiori che alimentano la dipendenza dall’uomo e dallo Stato.
Ecco che allora l’ideologia dominante tenta di giustificare questo processo (necessario, sì, ma “semplicemente” per aumentare il profitto) con la “centralità” della famiglia nell’organizzazione sociale e con il “meraviglioso” ruolo che in essa ha la donna, “padrona della casa”; ecco che tornano a risuonare i moniti della Chiesa contro ogni elemento che possa metterne in discussione l’autorità “morale” (certo un po’ minata dagli scandali finanziari e soprattutto da quelli legati ai diffusi abusi su minori). Se per il momento si non riesce ancora ad abolire la legge sul divorzio si cerca di impedire la possibilità del matrimonio per le coppie che non si considerano “normali”. Se per il momento non si riesce ad abolire la legge sull’aborto si cerca di generalizzare l’obiezione di coscienza e di imporre alle donne di riconoscere la propria “missione” e la propria stessa essenza nel compito di creare la vita. Parlare di liberazione della donna come di un obbiettivo raggiungibile all’interno di una società capitalista non è possibile; solo nell’ambito di una liberazione complessiva di tutti i oppressi, uomini e donne, sarà possibile incamminarsi sulla strada di una effettiva liberazione della donna. E questo è un processo rivoluzionario non solo perché cambia la situazione dal punto di vista degli equilibri di potere tra le classi, ma anche perché offre un impulso straordinario – rivoluzionario, appunto – alla trasformazione culturale e della coscienza. Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero ottenuto solo molti anni dopo: per fare alcuni esempi, la prima donna ministra al mondo è stata Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo attendere gli anni ’70-’80. Questa, più di tante parole, è la dimostrazione di cosa significa, anche per i diritti delle donne, una rivoluzione comunista.
Marzo 2011