Antiper | Il luogo più comune dell’economia politica
Pubblicato in Antiper, La grossa crisi, Raccolta di interventi sulla crisi economica, politica e sociale del capitalismo pubblicati tra dicembre 2011 e aprile 2012, EBOOK, 52 pag., COPERTINA.
L’economia politica è piena di affermazioni che a forza di essere ripetute come mantra finiscono per diventare “luoghi comuni”. Si tratta di affermazioni spesso contraddittorie (“la capacità di auto-regolazione del mercato”, “il necessario ruolo regolatore dello Stato”) che essendo generalmente considerate vere non vengono quasi mai verificate.
Uno dei più comuni tra i luoghi comuni dell’economia politica è certamente quello secondo cui il cosiddetto New Deal degli anni ’30-’40 avrebbe permesso agli USA e all’economia mondiale di uscire dalla crisi in cui erano precipitati dopo il crack del 1929 e la conseguente Grande Depressione.
Ma le cose sono andate proprio così?
“Poiché, come già rilevato, nessuna trasformazione socio-produttiva dell’importanza di quelle di fine ‘800 (e primissimo ‘900) si era verificata, il “keynesiano” s’immagina che il merito spetti all’aver supplito, mediante spesa pubblica, alla carenza della domanda complessiva “privata” in paesi “opulenti” (ad alto sviluppo capitalistico e con elevata propensione, marginale, al risparmio). Un cervello “più fino” si rende però conto che, non essendo usciti dalla crisi nel 1933, il vero merito dello “scossone” positivo subito dall’economia capitalistica va ascritto non tanto al New Deal (semplice “pannicello caldo” utilizzato dal ’33 al ‘37) quanto alla seconda guerra mondiale (così come il merito dell’analogo superamento dell’altra “grande depressione” del 1907 era spettato alla prima guerra mondiale; questo è un “piccolo fatto” sempre messo tra parentesi dagli economisti). Ovviamente, il suddetto “scossone” positivo avviene subito negli Usa (che non sono teatro della guerra) e, dopo aver assorbito e risanato le devastazioni della stessa, nel resto del mondo capitalistico” [2].
E ancora
“Dalla Grande Crisi se ne uscì non tanto con il New Deal – che non fu affatto, come recita un’altra vulgata, ‘keynesiano’ – ma con una nuova ancora più devastante grande guerra, il secondo conflitto mondiale. Vi fece seguito, nel mondo diviso in due dalla ‘cortina di ferro’, la gestione apertamente politica della domanda effettiva. Si trattò di un ‘keynesismo’ alquanto bastardo, caratterizzato dal traino di una forte componente di spesa militare, e per il resto da un sostegno generico alla domanda aggregata. Esso dette luogo, nel tempo, ad aumenti salariali, al consumo dal reddito come elemento di amplificazione della spesa autonoma (per l’effetto del c.d. moltiplicatore), e ad una sostanziale espansione del welfare, in un contesto che fu definito di ‘pieno impiego’. Una situazione dunque eccezionale nella storia del capitalismo, caratterizzata da lavoro ‘stabile’ e, si disse, da ‘alti salari’, tanto che talora viene definita l’ ‘età d’oro’. Si deve però ricordare che la piena occupazione seguiva alle conseguenze devastanti della disoccupazione di massa tra le due guerre, e che essa va collocata nel contesto della competizione del capitalismo con un sistema che si diceva alternativo e socialista: l’una e l’altra circostanza fecero del pieno impiego un obiettivo tanto dei governi moderati quanto di quelli progressisti. E si deve ancora sottolineare con forza che salario e welfare crebbero i modo sostanziale solo a partire dagli anni Sessanta, sulla spinta di un conflitto sociale sempre più acceso, in quello che fu la fase finale di quella ‘parentesi’. L’era c.d. fordista-keynesiana – i ‘trent’anni gloriosi’ di cui parla Jean Fourastié – potè in ogni caso essere capitalisticamente sostenibile soltanto per la crescente pressione sui lavoratori ‘produttivi’, e la conseguente, continua spinta verso l’alto del saggio di plusvalore.” [3]
L’aumento generalizzato dei salari non fu il prodotto delle politiche proto-keynesiane del New Deal e ciò che di sostegno al reddito fu realizzato ebbe soprattutto una funzione: calmierare le tensioni sociali e le potenzialità di rivolta che la crisi, in un contesto storico caratterizzato anzitutto dalla rivoluzione dell’ottobre 1917 e dalle sue conseguenze geo-politiche, avrebbe potuto determinare. In breve, una funzione anticomunista.
Eppure, nella sinistrata sinistra italiana si possono ancora leggere baggianate di questo tenore
“L’attuale crisi è il risultato delle politiche liberiste sbagliate fatte a livello mondiale, europeo ed italiano negli ultimi decenni, politiche di classe che hanno favorito imprenditori e banchieri, comprimendo e tagliando salari e pensioni. L’unico modo che abbiamo di fronte per uscire dalla crisi è quello di redistribuire massicciamente risorse, aumentando stipendi e pensioni e dando vita a un vero new deal europeo che metta al primo posto la necessità di fornire un vero salario europeo che uniformi verso l’alto i diversi livelli salariali dei diversi Paesi: questa è la proposta della lista comunista alle elezioni europee, l’unica che può far uscire i nostri Paesi dalla crisi che stanno vivendo.” [4]
“Ergo”, basterebbe che i padroni fossero meno ingordi e meno liberisti aumentando il salario dei lavoratori e le pensioni dei pensionati [5] ed ecco che si potrebbe ricominciare la festa, consumando a go-go. Un, due, tre… la crisi l’è terminé.
Ora, a parte la tristezza di un messaggio secondo il quale la soluzione dei disastri prodotti dal capitalismo dovrebbe essere quella di generare sempre nuovo consumo anche dove già si consuma assai (eh beh, come sinistra “di alternativa” non c’è male…), nel ragionamento esposto ci sono più sciocchezze che concetti: 1) la crisi non deriva affatto dalla compressione del salario, cioè non è una crisi di sotto-consumo; ergo 2) dalla crisi non si esce affatto erogando reddito ai lavoratori; infine 3) non esiste nessuna uscita dalla crisi “per tutti” (“i nostri paesi”, roba da matti…).
Esistono invece 1) un’uscita capitalistica dalla crisi (i cui costi verranno scaricati sulle spalle dei lavoratori) oppure 2) un’uscita dal capitalismo (sola e unica possibilità, per quanto oggi molto remota, che i lavoratori non debbano pagare la crisi prodotta dai capitalisti).
Ma l’orgia di sciocchezze non si arresta di fronte a nulla, neppure al ridicolo
“Sulla politica sociale ed economica siamo sostanzialmente d’accordo con il Vaticano e con la CEI, che parla di “maggiori tutele per i precari”, denuncia quanto siano “modesti” gli ammortizzatori sociali e parla di “lavoratori scaricati come fossero un’inutile zavorra” [6]
No comment. Per la “sinistra” la politica sociale ed economica da seguire sarebbe quella dei campioni mondiali di ipocrisia del Vaticano (bell’accoppiata con il Roosvelt degli anni ’30, non c’è che dire…). Esiste forse modo più semplice ed efficace per rappresentare la confusione mentale, prima ancora che politica, dell’asin/istra italiana?
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In generale, le scuole “sotto-consumiste” e i loro scolari ragionano solo in termini di sovrapproduzione di merci (essendo sotto-consumiste, ritengono che la sovrapproduzione sia una conseguenza del sottoconsumo) e suggeriscono ai capitalisti – che evidentemente considerano dei poveri idioti – di evitare un ulteriore peggioramento della loro situazione licenziando lavoratori e/o diminuendone i salari perché, si dice con il tono comprensivo di quelli che la sanno lunga, se i salari diminuiscono ulteriormente poi le merci chi le compra?
“Ci si è abituati al fatto che noi siamo il paese che ha il 23-esimo posto su 30 nei salari OCSE e così siamo entrati nella crisi” [7]
“… e allora bisogna dire che questa cosa non solo non è equità, è iniquità, perché nell’Italia di oggi, entrata in questa crisi già con questa situazione difficile, pensare che in questa situazione si ricomincia a colpire nella sostanza il mondo del lavoro, questa è una cosa sbagliata socialmente, e che tra l’altro aggraverà la crisi perché io mi domando: come si può pensare ad una ripresa man mano che si deprimono i salari, man mano che si deprime la spesa degli enti locali… Chi compra le cose che si dovrebbero fare?” [8]
Anche il povero Cremaschi è convinto che deprimere i salari aggravi la crisi e che l’unica via di uscita per il capitale sia aumentare il reddito e il consumo dei lavoratori (altrimenti “chi compra le cose che si dovrebbero fare?”). Purtroppo per Cremaschi, le “cose” non sono costituite solo da beni destinati al consumo dei lavoratori, ma anche da beni destinati al consumo – di lusso e di “prima necessità” – dei capitalisti e, soprattutto, da mezzi di produzione (anche questi comprati dai capitalisti).
Marx ha mostrato con i propri schemi di riproduzione (semplice [9] e allargata [10]) che la dinamica stessa del ciclo capitalistico tende a generare la propria domanda (anche se, ovviamente, la crisi è sempre possibile). E questo è tanto più vero quanto più aumenta la composizione organica di capitale [11] dal momento che questo aumento rende sempre più rilevante, nella riproduzione del ciclo, la quota di capitale costante (i mezzi di produzione) rispetto a quella di capitale variabile (la forza lavoro).
Ma gli intellettuali e i dirigenti politico-sindacali della sinistra, a forza di non porsi il problema del modo di produzione capitalistico (con il quale hanno da tempo deciso di convivere sostanzialmente in armonia) non capiscono più come funziona.
Forse non hanno mai sentito parlare di “anarchia della produzione capitalistica” (una della cause della sovrapproduzione), ma che ogni capitalista, la prima cosa che fa quando esplode una situazione di crisi, sia quella di cercare di distruggere capitale nella versione “variabile” attraverso licenziamenti, mobilità, cassa integrazione, contratti di solidarietà, ecc… almeno questo lo può vedere chiunque abbia voglia di vedere.
E allora, che senso ha continuare ad implorare i capitalisti di ascoltare suggerimenti offerti – senza essere stati richiesti – per il loro bene?
Note
[2] Gianfranco La Grassa, Adesso che lo dice un premio Nobel.
[3] Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx
[4] http://lnx.paoloferrero.it/blog/?p=1436
[5] Ma non c’era anche il Ministro Paolo Ferrero quando il Primo Ministro Romano Prodi riduceva le finestre pensionabili, aumentava l’età pensionabile, incentivava il lavoro precario – e quindi la riduzione del salario – mantenendo la Legge Biagi?
[6] http://lnx.paoloferrero.it/blog/?p=1437. Interessante notare che con il post sul suo blog (“Sui diritti sociali d’accordo con il Vaticano ma politici che appoggiano la chiesa solo sui diritti sociali sono sepolcri imbiancati”) Paolo Ferrero si lamenta dell’ipocrisia di chi dice di sostenere le posizioni del Vaticano (“sono sepolcri imbiancati”) e “dimentica” di ricordare l’ipocrisia del Vaticano medesimo alle cui tesi “sociali” rivendica la propria sincera (e non ipocrita) adesione
[7] Giorgio Cremaschi, Omnibus, La7, 26 maggio 2010
[8] Ibidem
[9] Karl Marx, Il Capitale, Volume II, Capitolo 20, Riproduzione semplice
[10] Karl Marx, Il Capitale, Volume II, Capitolo 21, Accumulazione e riproduzione allargata
[11] Sul tema della creazione di domanda cfr. anche Lenin, Caratteristiche del romanticismo economico