Antiper | Domande
Pubblicato in Antiper, La grossa crisi, Raccolta di interventi sulla crisi economica, politica e sociale del capitalismo pubblicati tra dicembre 2011 e aprile 2012, EBOOK, 52 pag., COPERTINA.
Tutte le “varianti” sotto-consumiste attribuiscono ai bassi salari e alla conseguente caduta della domanda aggregata la causa fondamentale delle crisi. Ma cos’è la “domanda aggregata”? E’ la
“…Somma delle richieste di beni e servizi nazionali. Essa è data dalla somma di consumi (C), investimenti (I), spesa pubblica (G) e dal saldo tra esportazioni ed importazioni (E – M). Nell’analisi keynesiana il ruolo che riveste la domanda aggregata è fondamentale nel determinare il livello di equilibrio del reddito nazionale; quest’ultimo, infatti, è dato dall’intersezione tra la curva della domanda aggregata e quella dell’offerta aggregata. Per Keynes è quest’ultima che si adegua alla domanda aggregata, ragion per cui se le autorità di governo desiderano promuovere politiche di piena occupazione, sviluppo economico e riequilibrio della bilancia dei pagamenti devono necessariamente intervenire sulle componenti della domanda aggregata (ed in particolare sulla spesa pubblica) attraverso adeguate manovre di politica fiscale e politica monetaria” [3].
E’ interessante sottolineare il fatto che secondo Keynes (ma la cosa vale per tutte le “varianti”) è l’offerta che segue la domanda ovvero è la produzione che si regola sulla base del consumo, mentre per Marx vale sostanzialmente l’opposto
“Il volume della massa di merce prodotta dalla produzione capitalistica viene determinato dalla scala di questa produzione e dal bisogno di quest’ultima di estendersi costantemente, non da un circolo predestinato di domanda e offerta, di bisogni da soddisfare” [4]
Che abbia ragione Marx o che abbia ragione Keynes fa, evidentemente, una discreta differenza; una differenza che ci permette di dire: o Marx, o Keynes, ma marxismo-keynesismo proprio no.
Una prima considerazione. In linea teorica, poiché nella “domanda aggregata” (C+I+G+E-M) sono compresi i consumi (la spesa per beni di consumo di salariati, capitalisti e “autonomi” [5]), gli investimenti (la spesa per mezzi di produzione di capitalisti e “autonomi”), il saldo della bilancia commerciale (quando c’è) e la famosa “spesa pubblica”, non è affatto detto che una diminuzione della “domanda aggregata” debba discendere necessariamente da bassi salari dal momento che potrebbe dipendere dalla riduzione degli investimenti o dalla riduzione della spesa pubblica [6].
Ed infatti Keynes, che era certamente molto più realista (essendo un “Lord”…) di quanto non lo siano gli “anti-neo-liberisti”, non proponeva affatto, come soluzione della “crisi di sotto-consumo”, l’aumento dei salari, ma bensì l’aumento della spesa pubblica che in linea di principio (anzi, concretamente) può venir realizzato con i soldi dei lavoratori, ovvero diminuendo i salari, invece di aumentarli.
Seconda considerazione: non solo Keynes non ha nulla a che vedere con Marx, ma anzi, Keynes è del tutto compatibile con politiche economiche che realizzano il trasferimento di quote di reddito dalle tasche dei lavoratori verso quelle dei capitalisti. Politiche che vengono frettolosamente definite neo-liberiste laddove il neo-liberismo (nella misura in cui esiste davvero e non è una semplice invenzione degli amici del “capitalismo dal volto umano”) c’entra poco e nulla.
Gli “anti-neo-liberisti” (“neo-keynesiani di sinistra”, no global, “sottoconsumisti di tutto il mondo”, sindacalisti, ecc…) attribuiscono all’aumento dei salari, ovvero all’aumento della spesa in beni di consumo di prima necessità [7], il potere di far uscire il capitalismo dalla crisi (posto che un aumento della domanda di beni di consumo dovrebbe indurre anche una crescita della domanda di mezzi di produzione necessari per produrre tali beni di consumo). Una specie di “moltiplicatore” anti-neo-liberista. Un circolo virtuoso. Una pacchia.
La conseguenza politica dello schema anti-neo-liberista sotto-consumista è la seguente: si può adottare una misura – l’aumento dei livelli di reddito/consumo dei lavoratori – che permette l’uscita dalla crisi e che fa bene sia ai lavoratori che ai capitalisti. Per risolvere il problema delle crisi capitalistiche (ovvero il problema di industriali e finanzieri, visto che la crisi è sempre crisi del capitale, aldilà delle sue conseguenze sociali) basta dunque aumentare il salario dei proletari. Et voilà.
Seconda considerazione. L’aumento dei salari agognato dagli anti-neo-liberisti si può ottenere – classicamente – in due modi: con le buone o con le cattive.
Il buon Marx ci spiega in termini semplici perché – con le buone – i (presunti) “amici” anti-neo-liberisti dei lavoratori non otterranno mai l’aumento dei salari
“Se una persona incomincia a prendervi il vostro denaro e ve lo restituisce, poi, comperando le vostre merci, voi non vi arricchirete mai, anche se venderete a questa persona le vostre merci troppo care. Questo genere di affari può limitare una perdita, ma non può mai contribuire a realizzare un profitto” [8]
Invece, con le cattive? Beh, se le “cattive” consistessero nel puntare una pistola alla tempia di un qualche capitalista probabilmente una qualche speranza ci sarebbe (e infatti c’è chi, di questo tipo di rivendicazione di reddito, ha fatto un mestiere); purtroppo, per “con le cattive” gli “anti-neo-liberisti” intendono il semplice intervento dello Stato. E non dello Stato dei Soviet, ma del semplice Stato esistente: Prodi in Italia o Obama negli USA [9], per intenderci. Un po’ pochino per far tremare le gambe a tutti coloro che ai “prodi” e agli “obama” pagano gli onorari e le campagne elettorali.
Note
[3] Edizioni giuridiche Simone, Dizionario economico online.
[4] Karl Marx, Il Capitale, Libro II, Capitolo 2.
[5] Come “lavoratore autonomo” (per usare un’espressione giornalistica) possiamo pensare ad un artigiano con i propri utensili, un tassista con la propria auto, un consulente informatico con il proprio PC… Questi “autonomi” non possono essere catalogati come “capitalisti” sebbene i mezzi di produzione e le materie prime che mettono in movimento agiscano come capitale nel suo personale “ciclo di accumulazione” in modo del tutto analogo a quello che avviene per una grande impresa.
[6] Si potrebbe anzi affermare – e gli amici del capitalismo lo affermano, infatti – che alti salari producono riduzione degli investimenti (magari per delocalizzazione delle produzioni) e dunque una minore domanda aggregata.
[7] Da realizzarsi mediante un trasferimento di risorse dal capitale al lavoro veicolato dallo Stato attraverso la fiscalità generale (spesso si fanno gli esempi della cd “patrimoniale” o della “Tobin Tax”).
[8] Karl Marx. Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Pag. 56.
[9] Anche se finalmente arrivano le prime timide ammissioni di creduloneria. Cfr. La costituzione del comune e le ragioni della sinistra, di Michael Hardt e Antonio Negri: “Perché ci piaceva Obama? Perché egli, nelle primarie democratiche così come nelle elezioni presidenziali, aveva espresso l’intenzione costituente (non solo come “forma” del suo progetto ma come “forza” della sua politica) di trasformare attraverso l’esecutivo la società americana. Tutto ciò si è rilevato un’illusione”. Ah, beh…