Antiper | Capitalisti ottusi
Pubblicato in Antiper, La grossa crisi, Raccolta di interventi sulla crisi economica, politica e sociale del capitalismo pubblicati tra dicembre 2011 e aprile 2012, EBOOK, 52 pag., COPERTINA.
Sostenere che i bassi salari costituiscono la causa della crisi [2] contrasta con l’evidenza empirica dal momento che all’inizio di ogni crisi i salari sono sempre più alti di quanto non siano alla fine. Addirittura, questo fatto ha dato origine ad una teoria (sulla crisi) chiamata “profit squeeze” [3].
Una banale spiegazione della tendenza dei salari a decrescere durante le fasi di crisi è costituita dal fatto che la crisi porta con sé un aumento della disoccupazione e questo aumento della disoccupazione porta con sé, a sua volta, un aumento della tendenza dei lavoratori ad accettare condizioni salariali e sindacali peggiorative in cambio del mantenimento del posto di lavoro [4].
Naturalmente, il fatto che i salari all’inizio della crisi siano più alti non significa che essi siano alti,; ovvero, è possibile che i salari siano già bassi all’inizio e che si riducano ulteriormente durante. Questo, tuttavia, impedisce che l’aumento dei salari possa costituire la soluzione della crisi dal momento che le crisi “finiscono” (se così si può dire) con un abbassamento dei salari (e in parte si dovrebbe anzi dire grazie a tale abbassamento).
Anche il buon Marx non era per nulla convinto che fossero i bassi salari a determinare la crisi. Era convinto, anzi, del contrario
“È pura tautologia dire che le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di consumatori in grado di pagare. Il sistema capitalistico non conosce altre specie di consumo all’infuori del consumo pagante, eccettuate quelle sub forma pauperjs o quelle del «mariuolo». Il fatto che merci siano invendibili non significa altro se non che non si sono trovati per esse dei compratori in grado di pagare, cioè consumatori (sia che le merci in ultima istanza vengano comprate per consumo produttivo ovvero individuale). Ma se a questa tautologia si vuol dare una parvenza di maggior approfondimento col dire che la classe operaia riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il salario in generale cresce e la classe operaia realiter riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi cavalieri del sano e «semplice» buon senso – dovrebbe allontanare la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica comprenda delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo momentaneamente consentono quella relativa prosperità della classe operaia, e sempre soltanto come procellaria di una crisi” [5].
“… le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il salario in generale cresce e la classe operaia realiter riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo”: non sembra proprio un ragionamento sotto-consumistico… Al contrario, l’affermazione di Marx sembra molto più vicina alle teorie sul “profit squeeze” che possono essere considerate antitetiche a quelle sotto-consumistiche.
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Ora, noi sappiamo – empiricamente – che quando la crisi esplode ogni singolo capitalista (di qualsiasi latitudine o longitudine, di qualsiasi epoca storica, di qualsiasi lingua, religione, altezza, sesso, colore degli occhi… esso sia) la prima cosa che fa è cercare di tagliare (quantomeno in termini relativi) il salario dei lavoratori [6] perché questo consente una diminuzione dei costi di produzione.
“La lotta della concorrenza viene condotta rendendo più a buon mercato le merci. Il buon mercato delle merci dipende, caeteris paribus, dalla produttività del lavoro, ma questa a sua volta dipende dalla scala della produzione. I capitali più grossi sconfiggono perciò quelli minori”. [7]
Poiché la produttività del lavoro si misura in unità di prodotto per unità di forza lavoro – e, per conseguenza, in unità di prodotto per unità di salario visto che la forza-lavoro ha un costo che si chiama, appunto salario [8] -, aumentare la produttività significa, semplicemente che, per avere lo stesso output basta un numero minore di lavoratori, ovvero basta una massa inferiore di salario. Detto in altri termini: diminuire i salari a parità di intensità di lavoro (o anche aumentare l’intensità di lavoro a parità di salari).
Queste è proprio la direzione opposta rispetto a quella indicata dai sotto-consumisti i quali si sgolano a sostenere che la soluzione di ogni problema è lì a portata di mano, “basta” aumentare il salario dei lavoratori… E invece no, piuttosto che aumentare il salario dei lavoratori questi capitalisti ottusi e auto-lesionisti si farebbero tagliare un braccio…
Sia chiaro: i lavoratori hanno sempre il diritto di lottare per migliori condizioni di salario o per difendere le condizioni sociali esistenti, ma non certo, come sostengono certi sinistri intellettuali, politici e sindacalisti, per far uscire il capitalismo dalla crisi.
“Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più” [9]
Il risultato fondamentale, oltre la lotta immediata, è la trasformazione delle lotte parziali in lotta di classe, in lotta politica, e dei lavoratori in classe, in partito.
Note
[2] Gli accademici sotto-consumisti la chiamano spesso “crisi di realizzo” (ovvero crisi per mancata “realizzazione” del capitale contenuto all’interno delle merci prodotte, attraverso la loro vendita). Si tratta di una formulazione volutamente ambigua che include sia le “crisi di sottoconsumo”, sia le “crisi di sovrapproduzione”, poiché in entrambi i casi c’è una parziale mancata realizzazione delle merci prodotte. Una formulazione che non distingue il processo effettivo (il “sotto-consumo determina la sovrapproduzione” oppure “la sovrapproduzione determina il sotto-consumo”).
[3] cfr Anwar Shaikh, An introduction to the history of crisis theories, IV Capitalism as Self-Limiting Accumulation, Class Struggle and the Profit Squeeze.
[4] Durante le crisi, in sostanza, i lavoratori si indeboliscono dal punto di vista sindacale. E tanto più si indeboliscono dal punto di vista sindacale, tanto meno hanno la capacità di realizzare conquiste che non sono riuscite neppure nei momenti in cui erano molto più forti (e da qui discende il nostro profondo fastidio per tutte quelle parole d’ordine e quegli s/propositi sindacali, tanto bellicosi a parole, quanto vani e inconsistenti praticamente, che in certe fasi sembrano una vera e propria presa in giro dei lavoratori e della loro capacità oggettiva a fermare l’attacco dei capitalisti).
[5] Karl Marx, Il capitale, Volume II, Capitolo 20, IV.
[6] Nel senso di tagliare quote di capitale variabile attraverso aumenti di produttività e quindi creazione di maggiori quote di plusvalore relativo, se vogliamo usare – e noi vogliamo usare – il linguaggio di Marx.
[7] Karl Marx, Il capitale, Volume I, Cap. XXIII. Nel passo indicato è interessante osservare che Marx lega la produttività anche alla “scala della produzione”. E infatti la crisi spinge alle fusioni/acquisizioni/federazioni tra imprese omogenee (e non) dal punto di vista dell’attività economica, spinge cioè alla dimensione imperialistica del capitalismo: pescecani contro i lavoratori e pescecani tra di loro.
[8] Salario, non fa mai male ripeterlo, sociale, globale ovvero comprensivo di retribuzione diretta, indiretta e differita.
[9] Karl Marx – Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista