Antiper | La crisi e le mele
Pubblicato in Antiper, La grossa crisi, Raccolta di interventi sulla crisi economica, politica e sociale del capitalismo pubblicati tra dicembre 2011 e aprile 2012, EBOOK, 52 pag., COPERTINA.
Te come la vedi?
Eh… la vedo che te c’ha na gross crisQuelo
Rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta
Karl Marx, Lettera a Annenkov, 1846
Da tre anni, uno degli argomenti “clou” del dibattito internazionale è quello della crisi. Ieri il crollo di Wall Street, oggi il debito italiano e il destino dell’euro. Ad osservare la sequenza temporale verrebbe da pensare che gli USA siano riusciti a risolvere i loro problemi semplicemente scaricandoli sull’Europa. E in effetti qualcuno [2] pensa proprio questo: pensa, cioè, che le banche di investimento americane, spalleggiate dalle agenzie di rating (sempre americane) e dal proprio governo (ovviamente, americano), dopo essere state graziate dal piano di salvataggio del 2008-2009 abbiano riversato i propri appetiti speculativi sull’Europa, attaccandone un paese alla volta (prima la Grecia, ora l’Italia) e determinandone la crisi attuale.
Naturalmente, che sia in corso un’attività speculativa è del tutto evidente. Del resto, in un mondo finanziario in cui la “speculazione a breve” punta più sulle tendenze dei titoli – a crescere o a decrescere – piuttosto che sul loro valore, è chiaro che è nell’interesse di chi punta sui ribassi far sì che i ribassi avvengano, così come è nell’interesse di chi intende comprare titoli di stato che i tassi di questi, per un certo periodo, salgano il più possibile. Ma se inseguiamo l’attività speculativa rischiamo di capire poco o nulla; ed infatti è proprio per questa ragione che non ci parlano che di quella.
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Della crisi (finanziaria) ci hanno detto “tutto” dal punto di vista fenomenico, ovvero dal punto di vista del (presunto) come: esplosione della bolla immobiliare e finanziaria, crack dei cosiddetti “mutui subprime”, deriva della finanza strutturata/derivata, espansione del debito privato e di quello sovrano, ecc… Molto meno, invece, si è detto dal punto di vista strutturale, ovvero dal punto di vista del perché.
È come se, osservando una mela che cade, ci si fosse concentrati solo sul suo moto (“la mela cade, la mela cade, la mela sta cadendo, la mela continua a cadere…”) senza neppure tentare di capire la legge che la fa cadere con una certa traiettoria e accelerazione.
D’accordo, la mela cade… ma il punto è: perché cade? Qual’è la legge (se ne esiste una) che ne regola la caduta?
Se non si fosse posto questa domanda Isaac Newton sarebbe rimasto a grattarsi il suo bernoccolo in testa. Allo stesso modo. se non ci domandiamo quali sono le cause profonde dei fenomeni che abbiamo di fronte (e come queste cause possano essere contrastate o, meglio ancora, eliminate) anche noi siamo destinati a grattarci i nostri bernoccoli.
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Questo è il primo di una serie di interventi sulla crisi del capitale nei quali sosterremo alcune tesi. In genere, non si tratterà di cose che abbiamo inventato noi, ma piuttosto di cose che noi condividiamo. Non c’è molto di nuovo in quello che ci accingiamo a scrivere; ma c’è molto, a nostro avviso, di non conosciuto. Del resto, esistono leggi della fisica, formule della chimica, espressioni della matematica, riflessioni della filosofia, critiche dell’economia politica… che sono note da lungo tempo, ma non per questo (parafrasando Hegel) sono anche conosciute.
Innanzitutto è sempre bene ricordare a noi stessi che non parliamo di crisi economica perché i poveri sono poveri o perché milioni di persone muoiono per fame o per malattie curabilissime. Parliamo di crisi economica perché i capitalisti non riescono ad avere saggi di profitto adeguati ai propri investimenti di capitale, perché le imprese e le banche falliscono, perché il profitto ristagna o addirittura cala… La crisi è sempre crisi del capitale, sebbene le sue conseguenze si riversino drammaticamente sulla condizione dei lavoratori in termini di aumento della disoccupazione e di riduzione dei salari.
Checché se ne dica, l’attuale crisi capitalistica non è affatto iniziata nel 2007-2008 a causa dell’esplosione della bolla finanziaria dei mutui subprime; il crack finanziario del 2008 è stato solo un passaggio (per quanto di enorme rilevanza) di una più generale crisi per sovrapproduzione di merci e capitali di lungo periodo che si è avviata all’inizio degli anni ’70 (quindi, in concomitanza con un alto livello di salari e dopo una lunga fase espansiva del capitalismo mondiale, seguita alla Seconda Guerra Mondiale). Una crisi, tuttora irrisolta, collegata alla caduta del tasso medio di profitto all’interno dei paesi cosiddetti, capitalisticamente, “avanzati”.
E’ quindi la crisi generale a permetterci di capire la crisi particolare, e non il viceversa, sebbene anche la crisi particolare offre molti nuovi spunti di riflessione su quella generale (che essendo in corso da lungo tempo tende a non essere più neppure percepita come tale).
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Nello sviluppo delle nostre riflessioni vedremo come il cosiddetto “neo-liberismo” sia fondamentalmente una costruzione ideologica che i sostenitori del “capitalismo dal volto umano” hanno escogitato per depistare dalla lotta contro il capitalismo alla lotta contro una particolare forma di capitalismo (al fine di sostenerne, in definitiva, un’altra [3]). Il fatto che a questo spostamento abbiano abboccato in molti è solo la dimostrazione che grande è la confusione sotto il cielo, ma – con buona pace del Presidente – la situazione non è affatto buona.
La traduzione politica del depistaggio “anti-neo-liberista” si concretizza nello squallido (ma tutto sommato comprensibile) sostegno elettorale degli anti-neo-liberisti alle sedicenti forze “progressiste” contro quelle “conservatrici” – o, per calarci al caso italiano, al centro-sinistra contro il centro-destra [4] – in nome di mille ragioni, una meno nobile dell’altra. Ora, a parte la natura squisitamente ideologica delle definizioni di “progressismo” e di “conservatorismo” (peraltro ormai rese obsolete dalla neo-lingua corrente entro cui domina la categoria riformata di “riformismo”) la cosa curiosa è che le misure di politica economica che vengono generalmente identificate come “anti-neo-liberiste” e quelle che vengono generalmente identificate come “neo-liberiste” non hanno affatto un collegamento rigido con gli schieramenti politici: detto altrimenti, non è per nulla vero che la “sinistra” sviluppi necessariamente una politica economica “anti-neo-liberista” e che la destra sviluppi necessariamente una politica economica “liberista”. In tanti casi, sono veri i due contrari.
Come primo esempio prendiamo quello delle privatizzazioni [5]. In genere la tendenza a privatizzare viene considerata un chiaro indice di “liberismo” (perché si postula che i “liberisti” intendano ridurre il più possibile il ruolo dello Stato, mentre gli anti-neo-liberisti intendano difendere la proprietà pubblica/comune che, in regime capitalistico, non può esercitarsi che attraverso lo Stato); eppure, in Italia le privatizzazioni sono state realizzate in larga parte dai governi di centro-sinistra con l’appoggio decisivo dei partiti che vengono sostenuti – direttamente o indirettamente – anche da tanti analisti generalmente indicati come “critici”, “neo-keynesiani” o addirittura “marxisti”. Le nazionalizzazioni, invece, sono state fatte spesso anche dalle destre (pensiamo a De Gaulle in Francia [6] e al fascismo – o agli anni ’50 per quanto riguarda l’energia – in Italia).
Come secondo esempio prendiamo quello del cosiddetto “libero scambio”. In Italia il partito che sostiene con più forza l’imposizione di dazi sulle importazioni di prodotti cinesi e una politica commerciale anti-liberoscambista (e il “libero scambio” viene considerato un indice di “liberismo” [7]) è un partito di destra, la Lega Nord, che tra l’altro gode del consenso di molti lavoratori settentrionali [8].
Ecco qua. Due semplici esempi e tutte le “coordinate” dei semplici di spirito politico saltano: partiti di destra che vorrebbero imporre dazi protezionistici e partiti di sinistra che sostengono la privatizzazione di tutto il privatizzabile… Per di più, una volta demistificata la concezione dello Stato che domina a “sinistra” italiana e nel movimento se-dicente “comunista” italiano, non rimarrà traccia (o forse, si può dire, non rimarranno che tracce) di “liberismo” in coloro che vengono universalmente indicati (e spessi si auto-indicano) come paladini del medesimo. E questo per la semplice ragione che, come vedremo nei prossimi interventi, il “liberismo” non esiste più da molti decenni, di fatto neppure in ambito accademico, e lottare contro di esso significa lottare contro un oleogramma.
Note
[2] Cfr. Giorgio Gattei.
[3] E’ questo, in sostanza, l’altro mondo possibile del fu movimento “no global”: un capitalismo “non liberista” e “dal volto più umano”.
[4] Salvo i casi in cui, in nome della salvaguardia degli interessi generali del grande capitale, i centro-sinistri progressisti appoggiano governi bi-partizan. E’ successo in Germania qualche anno fa e sta succedendo attualmente in Grecia e Italia.
[5] A rigore, quelle degli anni ’80-’90 non sono state neppure vere privatizzazioni, ma piuttosto regalie agli “amici degli amici” cui è stato consentito di rilevare – in tutto o in parte – aziende pubbliche di grandissima rilevanza strategica (e di sicuro ritorno economico) senza sborsare neanche una lira, facendo magari ricorso al cosiddetto leverage buy out, una sorta di quella che Marx definisce nel III Libro del Capitale “economia di puro credito”. Cfr. Giorgio Gattei al Convegno “Marx e la crisi” organizzato da Riccardo Bellofiore all’università di Bergamo del 23 aprile 2010.
[6] “…tra il 1944 e il 1946 Charles De Gaulle espropriò la Renault, le quattro banche principali, il trasporto aereo, le miniere, l’energia elettrica e il gas”. Federico Rampini, Nazionalizzazioni, PBMStoria. Nello stesso articolo è interessante anche il seguente passaggio:“Nel cercare ispirazione, più che all’Unione sovietica Roosevelt guardò con interesse all’Italia fascista. Dopo il crac del 1929 il consigliere di Mussolini Alberto Beneduce salvò dal fallimento le maggiori banche italiane con l’ingresso dello Stato nel loro capitale, poi inventò l’Iri (anche queste originariamente dovevano essere soluzioni provvisorie, in realtà in Italia lo Stato-padrone durò oltre mezzo secolo)”. Tanto per ricordarci il modello che ispirava il “Presidente del new deal”.
[7] Sebbene Marx in un suo famoso discorso ebbe modo di prendere posizione contro certe tendenze protezionistiche del suo tempo (cfr. Karl Marx, Marx’s Speech, On the Question of Free Trade, Jan 9 1848, marxists.org; Cfr. Karl Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, Opere Complete, vol. 6, [1845-1848], Editori Riuniti, Roma, 1973, Pag. 469 .
[8] I quali infatti sostengono le proposte protezionistiche (soprattutto l’imposizione di forti dazi sulle importazioni di merci cinesi) nello stesso identico modo in cui nel 1999, a Seattle, gli operai dell’AFL-CIO manifestavano contro la riunione del WTO e chiedevano l’imposizione di dazi sull’importazione negli USA di acciaio europeo. Naturalmente né gli operai leghisti, né quelli americani, hanno mai manifestato per l’imposizione di dazi sulle esportazioni di merci da loro prodotte.