Antiper | Ci sono rivoluzioni e “rivoluzioni”
Da Rivolta araba, raccolta di interventi sulle rivolte arabe del 2010-2011.
Ovunque l’Occidente riesca a provocare o a spingere rivolte – o anche vere e proprie guerre civili – suscettibili di evolvere a proprio vantaggio là, ci dicono, c’è una “rivoluzione” e questa rivoluzione viene identificata in genere con un colore (verde, arancione…) o con un richiamo floreale (cedri, gelsomini).
La questione se le rivolte che attualmente si sviluppano in Nord Africa e in Medio Oriente siano rivoluzionarie, contro-rivoluzionarie o altro… non è una questione secondaria ma probabilmente non ci sarebbe stato bisogno di soffermarsi troppo sulla questione se queste rivolte non fossero state definite in modo quasi universale come “rivoluzioni”, tanto dall’informazione di regime quanto da quella di movimento e da gruppi ed “intellettuali” se-dicenti “antagonisti”.
A prima vista potrebbe apparire che se tutti sostengono uno stesso concetto allora questo concetto debba essere presunto vero; ma la verità non è qualcosa che possa essere messa ai voti e probabilmente prima di Copernico e Galileo nessuno si sarebbe azzardato neppure a pensare che la terra non fosse al centro dell’universo. A questo punto è lecito pensare che l’“unanime” definizione delle rivolte arabe come di “rivoluzioni” possa essere – anzi sia – il sintomo della ormai definitiva perdita da parte dei cosiddetti “antagonisti” di un punto di vista davvero “antagonista”.
Checché ne dicano imperialisti e “antagonisti” rivoluzione non è semplicemente sinonimo di cambiamento e una rivoluzione non è semplicemente l’abdicazione di qualche leader incartapecorito – che, tra l’altro, era ormai solo di ostacolo di più giovani ed energici leaders -, come in Tunisia; rivoluzione non è neppure una tendopoli in piazza o una sassaiola da cui ci ripararsi con bottiglie di plastica, come in Egitto. Tanto meno rivoluzione è una rivolta armata che issa bandiere monarchiche e chiede di essere spalleggiata dai missili della Nato, come in Libia.
Se questo intervento fosse rivolto agli “antagonisti” potrebbe anche terminare qui. La cantonata che questi “antagonisti” hanno preso (e continueranno necessariamente a prendere) è talmente ridicola e (al tempo stesso) colossale che segna un punto di non ritorno oltre il quale non c’è alcun dialogo possibile, ma solo la presa d’atto di una separazione politica e culturale definitiva.
Di segnali di questa involuzione se ne erano già avuti molti: nel 1999 con la Jugoslavia, nel 2002-2004 sull’Iraq e dal 2001 sull’Afghanistan. Si era già capito che con le strizzate d’occhio ai ribelli kosovari, le nenie sui fascisti talebani, le baggianate sulla non-violenza assoluta… stava diventando impossibile avere un approccio minimamente accettabile sul tema della guerra che, non ci stancheremo di ripeterlo, costituisce uno degli elementi fondamentali per la comprensione del funzionamento del modo di produzione capitalistico nell’epoca dell’imperialismo.
Si poteva sperare che resistessero almeno alcune “sacche” antimperialiste, ma ormai c’è rimasto ben poco di cui sperare. Mai come oggi misuriamo la nostra incolmabile distanza da tutti i neo-nostalgici trotzko-stalino-bordighian-maoist-luxemburghian-autonomen-internazionalisti-centrosocialisti [1] i quali, mai come oggi, ci appaiono la pesante zavorra della quale qualsiasi ipotesi di ricostruzione di un progetto politico comunista e rivoluzionario deve necessariamente alleggerirsi.
Note
[1] A scanso di equivoci, non stiamo parlando di personalità che hanno fatto la storia del movimento comunista e non stiamo parlando di autonomia o internazionalismo. Stiamo parlando della deriva dell’attuale movimento antagonista, comunista, anticapitalista.