Antiper | Linguaggi e rivoluzioni
Tratto da “Rivolta araba”, raccolta di interventi sulle rivolte arabe del 2010-2011.
“Quella primavera che aveva travolto principalmente le ex repubbliche sovietiche per consegnarle alla democrazia – transizione auspicata (e finanziata) da fondazioni americane sia repubblicane che democratiche – stava appassendo, per la gioia degli anti-americanisti che avevano stigmatizzato il carattere eterodiretto e non spontaneo di tali rivoluzioni. Poi è arrivata la rivolta in Tunisia e quella in Egitto (ribattezzata rivoluzione dei gelsomini) e le metafore floreali sono tornate in auge. Insieme a loro, sono riemersi i maestri di allora, i primi che in questo secolo hanno rovesciato un regime con metodi non violenti e che da allora sono diventati specialisti di rivoluzione, richiesti in tutto il mondo. Sono i serbi di Otpor, quelli che tra il 1999 e il 2000 cacciarono Milosevic e che adesso insegnano i loro metodi attraverso Canvas, il centro di azione non violenta” [1]
Nel passato, per chiarirne il segno politico, le operazioni “di pace” promosse dal regime venivano definite “operazioni di guerra”, le riforme sociali promosse dal regime venivano chiamate contro-riforme, le “rivoluzioni” sostenute dal regime venivano chiamate “contro-rivoluzioni”…
Oggi che lanciarsi in un’aggressione imperialista dopo l’altra viene chiamato “realizzare interventi umanitari” oppure “operazioni di pace”, attaccare i diritti, il salario o le pensioni dei lavoratori viene definito “fare le riforme”, sobillare popolazioni a rivoltarsi per renderle proprie schiave viene chiamato “fare rivoluzioni”…, sarebbe necessario avere (almeno) un proprio vocabolario critico.
Invece, il regime della guerra dice rivoluzione e il movimento contro la guerra pure. Olpà, bipartizan.
La trasformazione del linguaggio è sempre sintomo anche di una trasformazione culturale e dunque di una evoluzione materiale nel rapporto reciproco tra le classi. La mancanza di un linguaggio critico non è che il riflesso della mancanza di un pensiero critico e della completa egemonia della classe dominante che mai come oggi è stata capace di imporre i propri schemi culturali. Sia chiaro, la classe dominante si manifesta in modi diversi (e attraverso organizzazioni diverse) di fronte alla classe dominata. Oggi che il PD è in prima fila nella guerra contro il popolo libico (più in prima fila persino della destra che frena per ragioni di interesse) il movimento per la pace riposa. In pace. Quando, nel 2002-3 si trattava di sgambettare il Berlusconi neo-eletto e di prendere il tram del movimento no global le manifestazioni erano “oceaniche”. Si vede che i morti di 9 anni fa erano diversi da quelli di 9 giorni fa.
Nel 2002 le CGIL diceva (almeno a parole) di essere contro la guerra. Oggi che dice?
“La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, votata con dieci paesi a favore e con l’astensione di Cina, Russia, Brasile e Germania, definisce una posizione chiara e finalmente responsabile della comunità internazionale nei confronti delle diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani, detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni sommarie, nonché l’uso dell’aviazione e di milizie di mercenari da parte del regime di Gheddafi nei confronti della popolazione e degli insorti” [2]
Eh, beh… Adesso sì che c’è una posizione chiara e responsabile…Questa CGIL non assomiglia come una goccia d’acqua a quella socialdemocrazia inglese di cui parlava qualcuno confrontandola all’Emiro afghano? Come la definiva? Ah sì, reazionaria. Ecco, ben detto.
Note
[1] Cecilia Tosi, Regole per una rivoluzione non violenta, Limes on line
[2] Comunicato della Segreteria Nazionale della CGIL del 18 marzo 2011