Primomaggio | Introduzione a Noi la crisi non la paghiamo (firmato Marcegaglia, Berlusconi, Bonanni, Angeletti, Polverini…)
Analisi dell’accordo quadro per la “riforma” degli assetti contrattuali sottoscritto il 22 gennaio 2009 da CISL, UIL, UGL, Confindustria e Governo ovvero come prendere a calci nel culo i lavoratori distruggendo definitivamente il Contratto Nazionale di Lavoro, PDF, 2xA5, COPERTINA, OPUSCOLO.
Nel settembre 1997 il Governo Prodi affida ad una commissione [1] di “esperti” il compito di verificare l’andamento del Protocollo del 23 luglio 1993. Questa commissione – di cui fanno parte Gino Giugni, che ne è anche il presidente, Massimo D’Antona e Marco Biagi – può a buon diritto essere considerata “simpatetica” con le forze politiche del centro-sinistra e conclude i propri lavori con una serie di proposte, la prima e principale delle quali suggerisce
“…un maggior decentramento contrattuale ed una più precisa specializzazione funzionale dei due livelli di contrattazione. Il contratto nazionale dovrebbe rimanere una parte determinante del sistema contrattuale ma potrebbe essere ridimensionato quantitativamente e qualitativamente. Il ruolo fondamentale del contratto nazionale potrebbe essere quello di definire i minimi normativi e di orientare e controllare la contrattazione decentrata. Il livello decentrato, invece, potrebbe acquisire competenze maggiori in temi quali la flessibilità organizzativa, l’orario di lavoro ed il salario per quanto si riferisce alla quota variabile e per obiettivi. Per favorire questo decentramento laddove la contrattazione aziendale è poco diffusa, ad esempio nei settori o nelle aree in cui sono particolarmente diffuse le piccole imprese, si potrebbe prevedere il ricorso alternativo, senza sovrapposizioni, alla contrattazione territoriale” [2].
Più di recente, chi ha spinto ulteriormente avanti questa “tradizione giuslavorista ‘democratica’ e ‘di sinistra’” è stato il Prof. Pietro Ichino, esponente di spicco del Partito Democratico. Questo per dire come certe idee non siano state e non siano affatto patrimonio esclusivo della destra e come, al contrario, abbiano trovato autorevoli interpreti soprattutto a “sinistra”.
Le proposte “programmatiche” della “Commissione Giugni” si sono fatte strada gradualmente attraverso un percorso che arriva quasi a compimento proprio con l’accordo sottoscritto il 22 gennaio scorso da CISL, UIL, UGL, Governo e imprese. Di questo accordo, in fondo, non si è parlato moltissimo, se non per segnalare il dissenso della CGIL e la sua mancata sottoscrizione, mentre invece è importante analizzarne i contenuti dal momento che sarà anche e soprattutto su di essi che verrà impostata la contrattazione collettiva nei prossimi anni.
L’accordo del 22 gennaio 2009 si propone di sostituire quello del 23 luglio 1993 che aveva rappresentato la disastrosa cornice entro cui era avvenuta la contrattazione collettiva negli ultimi 15 anni, gli anni che hanno condotto i lavoratori italiani ad un pesantissimo arretramento nelle proprie condizioni di salario, di diritti, di sicurezza…
La filosofia dell’Accordo è, aldilà del fumo di propaganda, abbastanza chiara: si tratta di adottare misure volte ad aumentare i profitti delle imprese (o quantomeno di “mantenerli” nella fase di crisi che avanza)attraverso la diminuzione del salario dei lavoratori. Ovviamente, non si parla di riduzione del salario; si parla di aumento della produttività ma, come vedremo, le due cose sono strettamente collegate.
Di “produttività del lavoro” si possono dare diverse definizioni. Quella della Commissione Europea recita:
“Formalmente, la produttività del lavoro corrisponde alla quantità di lavoro necessario per produrre un’unità di un bene specifico. Da un punto di vista macroeconomico, si misura la produttività del lavoro tramite il prodotto interno di un paese (PIL) per persona attiva.
La crescita della produttività dipende dalla qualità del capitale fisico, dal miglioramento delle competenze e della manodopera, dai progressi tecnologici e dalle nuove forme di organizzazione. La crescita della produttività è la fonte principale della crescita economica” [3].
Per realizzare un aumento di produttività dei lavoratori le imprese possono seguire diverse strade.
Quella evidenziata dalla Commissione Europea fa riferimento all’introduzione di nuove tecnologie, nuove organizzazioni del lavoro, maggiore formazione… il tutto finalizzato all’aumento della quantità e della qualità di merci e servizi che una “unità produttiva” (ad esempio un lavoratore) può realizzare/erogare nell’unità di tempo (ad esempio un giorno). Se con la vecchia tecnologia un lavoratore realizzava una certa produzione giornaliera e con la nuova tecnologia realizza una produzione giornaliera doppia allora si può dire che la produttività giornaliera è aumentata del 100% (è raddoppiata). Il che vuol dire, in una situazione di recessione come quella attuale, diminuire il numero di lavoratori necessari ovvero, aumentare la disoccupazione.
Per aumentare la produttività dei lavoratori si possono anche introdurre nuove o rinnovate forme di organizzazione del lavoro con lo scopo di intensificare i ritmi, ridurre i tempi morti e le scorte di magazzino ecc…
Ovviamente l’introduzione di una nuova tecnologia o, più in generale, di una nuova organizzazione del lavoro provoca sempre, per i lavoratori, un aumento dei carichi psico-fisici e una diminuzione della sicurezza e della salute; quindi, almeno potenzialmente, un aumento della conflittualità sociale.
Inoltre, l’aumento della produttività realizzato per via della cosiddetta “innovazione” costa e, come ben evidenziato da Marx nel III libro del Capitale, produce quell’aumento della “composizione organica” di capitale che rappresenta uno dei fattori concorrenti alla caduta tendenziale del saggio di profitto [4].
A differenza dei liberisti “di sinistra” e dei riformisti che sono arrivati più di recente al culto del mercato – senza capire nulla del reale funzionamento del modo di produzione capitalistico – i padroni sanno benissimo che la fonte del profitto è lo sfruttamento del lavoro salariato. Le “innovazioni” servono solo per poter mantenere (e possibilmente ampliare) lo spazio di mercato ove realizzare, attraverso la vendita delle merci, il capitale generato nella fase della produzione [5]. Certo, se produci una merce ma poi non la vendi (non la “realizzi”) è chiaro che hai una perdita e non certo un aumento di capitale. Ma al padrone non fa differenza vendere gioielli o rotoli di carta igienica [1] perché l’obbiettivo – tanto che si vendano gioielli, quanto che si vendano rotoli di carta igienica – è sempre lo stesso: accumulare sempre più capitale.
Fintanto che è possibile, quindi, i padroni cercano di realizzare l’aumento della produttività comprimendo i salari e, in particolare, di legare la maggiore quota possibile della retribuzione al raggiungimento di obbiettivi posti dall’azienda [7]. Sono quelli che vengono definiti “salari di produttività” o, per semplicità, premi.
Il “salario di produttività” dovrebbe essere contrattato nel secondo livello della contrattazione collettiva (il livello “decentrato”), tipicamente in ambito aziendale, ma molto spesso viene imposto dall’azienda senza alcuna trattativa.
I premi possono essere collettivi (ad esempio il “premio di risultato”, o “di partecipazione” come viene spesso eufemisticamente definito) o individuali. Non c’è bisogno di dire che le imprese preferiscono di gran lunga stabilire premi individuali (o “a squadre”) perché in questo modo tutti giocano il campionato, ma lo scudetto – ovvero il premio – lo vince uno solo (o comunque pochi); viceversa, con un premio “collettivo” il premio scatta per tutti o per nessuno (e questo non va bene perché il padrone preferisce sempre dividere i lavoratori, anche dal punto di vista salariale, per giocare sulla competizione tra loro).
L’accordo del 22 gennaio 2009 punta a realizzare le condizioni per un aumento della produttività basato sulla valorizzazione del “salario di produttività” perché le imprese non vogliono scucire soldi per il rinnovamento degli impianti e dei cicli produttivi, specialmente di fronte ad una crisi molto profonda e avendo l’asso nella manica di centrali sindacali tra le più arretrate e filo-padronali del mondo.
Ma la condizione necessaria per incentivare la corsa al “salario di produttività” è, evidentemente, quella della distruzione progressiva del salario base definito con il CCNL. Più basso è il salario di primo livello (derivante dal CCNL) e più forte sarà la spinta dei lavoratori a cercare integrazioni salariali al secondo livello.
Questo è il motivo per cui, pur enunciando come obbiettivo prioritario lo “sviluppo” del salario di produttività (che non si definisce nel primo livello della contrattazione collettiva) nell’accordo del 22 gennaio si parla solo della contrattazione collettiva di primo livello o, per meglio dire, di come “riformarla” in modo da diminuire il più possibile salario e diritti.
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Prima di analizzare come agisce sulla contrattazione nazionale l’accordo del 22 gennaio è indispensabile ricordare che in Italia la contrattazione di secondo livello riguarda solo 2 dei 17 [8] milioni di lavoratori dipendenti (cioè meno del 12%). Se la matematica non è un’opinione quasi il 90% dei lavoratori non ha contrattazione di secondo livello e la propria base salariale è solo quella ricavata dal CCNL. Ciò significa che la riduzione del CCNL colpisce quasi il 90% dei lavoratori italiani e tra questi, in modo particolare, i lavoratori precari e immigrati, ovvero quelli più deboli e ricattati. Ma anche chi ha una parte del salario derivante da contrattazione di secondo livello vedrà ridursi la parte di primo livello e non c’è proprio scritto da nessuna parte (perché, ovviamente, non dovrà accadere) che la contrattazione di secondo livello possa recuperare quanto perso al primo.
Ancora una considerazione. Noi oggi ci troviamo a difendere il CCNL dall’attacco delle imprese che vogliono ridurne notevolmente l’importanza per spostare il maggiore peso possibile sulla contrattazione decentrata dove i lavoratori sono ancora più deboli. Ma non è sempre stato così. Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 molte delle conquiste “ratificate” nei contratti nazionali erano state già realizzate nella contrattazione aziendale grazie alla pressione dei lavoratori in alcune grandissime imprese (soprattutto, industriali). In un certo senso, il CCNL estendeva conquiste che in settori importanti del mondo del lavoro erano già state acquisite. Questo per dire che, in linea di principio, non dobbiamo avere alcuna forma di feticismo: dobbiamo difendere la trincea più avanzata, quale che essa sia nella concreta situazione storica e sociale. Oggi, con il dilagare del precariato, con il pesante indebolimento della forza operaia nelle grandi e medie fabbriche, con la deriva anti-solidaristica che ha corroso anche il movimento dei lavoratori… il livello generale della contrattazione è una difesa migliore del livello aziendale o territoriale. Ma non è detto che questo debba valere in assoluto, sia perché le grandi fabbriche possono tornare a giocare – almeno parzialmente, rispetto al passato – un ruolo fondamentale, sia perché, ne siamo convinti, nuove forme di organizzazione territoriale [9] saranno decisive nella ricostruzione di una forza combattiva e organizzata dei lavoratori con cui partiti, sindacati, padroni, Stato… dovranno tornare a fare i conti.
Note
[1] Commissione di studio per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993 [CVP93].
[2] CVP93.
[3] Comunicazione della Commissione Europea del 21 maggio 2002, concernente la produttività: La chiave della competitività delle economie e delle imprese europee [COM (2002) 262 def. – Non pubblicata nel Gazzetta ufficiale]. SCADPlus, Attività dell’Unione europea. Sintesi della legislazione.
[4] Saggio di profitto: rapporto tra profitto (plusvalore) e capitale complessivamente impiegato dal capitalista per realizzarlo.
[5] Perché il capitalista dovrebbe “innovare” prodotti e processi (come si suol dire) se fosse in grado di realizzare il capitale generato nella produzione (per effetto dello sfruttamento del lavoro salariato) anche senza alcuna innovazione? Sarebbe solo una spesa inutile.
[6] E difatti, il “capitalista collettivo” – la classe sei capitalisti – vende sia gli uni che gli altri.
[7] Ovviamente maggiore è l’arbitrarietà degli obbiettivi, maggiore è l’aumento di produttività realizzabile.
[8] Comunicato Rete 28 Aprile – FISAC, Giudizio e commento sull’accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, 25 febbraio 2009.
[9] Quelle che in alcune occasioni abbiamo immaginato come Camere del Lavoro Territoriali Indipendenti (CdLTI).