Laboratorio Marxista | Appunti per un’analisi sociale del movimento «altermondialista»

Non è la coscienza che determina la vita,
ma la vita che determina la coscienza
Marx-Engles, L’ideologia tedesca
Si dice correntemente che le giornate di protesta contro il “Millenium round” del WTO (30 novembre – 3 dicembre 1999) abbiano segnato simbolicamente la nascita del cosiddetto “movimento no global”. Questo movimento, passato successivamente attraverso una serie di appuntamenti – dalle giornate di Genova contro il G8 nel luglio 2001 fino ai Forum Sociali mondiali ed europei – si trova oggi di fronte ad una sostanziale impasse determinata in primo luogo, ma non esclusivamente, dalla incapacità di offrire una risposta credibile ed efficace allo scenario seguito all’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001 e al lancio della cosiddetta “guerra al terrorismo” che ha portato all’occupazione dell’Afghanistan nel 2002 e dell’Iraq nel 2003.
In un quadro internazionale dominato dal ricorso sistematico e preventivo alla guerra come strumento per la “risoluzione delle controversie internazionali” – dentro la “guerra di posizione” che si gioca tra le varie aree/frazioni dell’imperialismo e tra queste e le aree dipendenti -, si mostra l’inefficacia della proposta pacifista che, oltre a non fermare le aggressioni, rischia di delegittimare le resistenze.
Si evidenziano inoltre in modo trasparente le contraddizioni di un movimento che non avendo una matrice autenticamente anti-capitalista si muove con inquietudine tra la sostanziale accettazione della “fine della storia” e la richiesta di maggiore partecipazione, informazione, protezione.
Assimilare movimento “no global” e movimento “no war” sarebbe naturalmente un errore. Si tratta di due esperienze che hanno una larga “area di intersezione”, ma che certamente non coincidono. E’ del tutto evidente, ad esempio, che la resistenza irachena fa (tautologicamente) parte del movimento contro la guerra in Iraq, ma non appartiene certo al movimento “no global” (o, come si è nel tempo ridefinito, “new global” o “altermondialista”).
Tuttavia, nei paesi occidentali (e soprattutto in Europa) le mobilitazioni contro la guerra sono state spesso promosse sotto l’egida del sedicente “movimento dei movimenti” (MdM). In Italia, ad esempio, le 2 principali manifestazioni realizzatesi contro la guerra sono state promosse il 9 novembre 2002 in occasione del FSE di Firenze e il 15 febbraio 2003 a Roma dal cartello “Fermiamo la guerra”. La stessa manifestazione del 19 marzo di quest’anno – seppure di ampiezza assai più modesta a causa della defezione delle principali organizzazioni para-istituzionali presenti nel movimento (PRC, Arci, Cgil…) è stata promossa da un cartello di forze che ha raccolto l’appello del FSM di Porto Alegre.
Partiamo allora dalla questione della guerra per poi arrivare al cuore della nostra riflessione.
Il 15 febbraio 2003, alla vigilia della seconda aggressione all’Iraq, vi fu una grande manifestazione internazionale in cui si disse che “100 milioni” di persone erano scese in piazza contemporaneamente in tutto il mondo. La cosa fece dire al New York Times che era comparsa sulla scena politica mondiale una “seconda superpotenza” che si contrapponeva alla superpotenza militare Usa: l’opinione pubblica.
Questa massa enorme di persone, che si mobilitava su parole d’ordine come “fermare la guerra prima che la guerra inizi”, sosteneva che la forza delle opinioni della “seconda superpotenza” avrebbe potuto fermare la forza delle armi della prima. Si trattava come è risultato chiaro – della ben nota illusione di pacifisti un po’ “tirchi” di spirito di iniziativa che pretendevano, con il poco sforzo di una manifestazione o di una bandiera della pace apposta al balcone o alla finestra, addirittura di poter fermare eventi le cui cause stanno all’interno di processi che scavano per decenni e coinvolgono centinaia di milioni di persone sul pianeta [1].
La “mobilitazione” pacifista contro la guerra ha messo in evidenza 2 contraddizioni.
La prima contraddizione è quella tra ampiezza della mobilitazione formale [2] contro la guerra prima dell’inizio dell’aggressione e la successiva sostanziale sparizione del movimento “no war”.
La seconda contraddizione è quella tra il dissenso contro la guerra e il mancato consenso a favore la Resistenza.
Per provare a spiegare queste due apparenti contraddizioni non possiamo che partire dall’analisi delle posizioni teoriche prevalenti all’interno del “movimento” e dalla sua composizione sociale.
Sulla questione delle posizioni teoriche rimandiamo ad un nostro contributo del gennaio 2003 [3], al contributo di Paolo Persichetti [4] su pacifismo e nonviolenza e all’articolo La pace nell’urna, pubblicato nei numeri 8 e 9 di Controvento [5].
Per quanto riguarda invece la composizione del movimento non abbiamo una analisi esaustiva. Abbiamo però elementi di analisi che riguardano alcuni dei “settori dirigenti” del movimento.
In quest’ottica ci pare interessante citare il lavoro collettivo sviluppato sotto la direzione di Isabelle Sommier e Eric Agrikoliansky, pubblicato recentemente in Francia (Radiographie du mouvement altermondialiste, La Dispute, Parigi 2005), che esamina la composizione del II° Forum Sociale Europeo, tenutosi a Parigi dal 12 al 15 novembre 2003.
Da questa analisi emerge come i militanti anti-globalizzazione [6] del Forum Sociale siano caratterizzati in maniera molto ben definita dal punto di vista economico e sociale. Si tratta di partecipanti fondamentalmente giovani (oltre il 50% ha meno di 35 anni), con un forte capitale culturale (titoli di studio superiori, lauree…), che godono di “una tranquilla situazione occupazionale particolarmente stabile legata ad un impiego pubblico: si tratta del 46.1% di loro” [7].
Un altro 20% è impiegato nel settore associativo.
I salariati del privato non rappresentano che poco più del 20%.
Nel dettaglio, i partecipanti appartengono alle professioni intellettuali superiori (circa il 42%) e alle professioni intermedie (circa il 44%). Appaiano fortemente sotto-rappresentati gli operai (2,2% dei partecipanti) e gli impiegati (8,8%). E anche in questo ultimo caso, gli impiegati del settore pubblico sono nettamente più numerosi di quelli del settore privato.
Quella che emerge, quindi, è una fotografia capovolta della reale composizione della società e non una sua riproduzione in scala. All’interno delle professioni intellettuali superiori, dei quadri e delle professioni intermedie le categorie socio-professionali più rappresentate sono le professioni intermedie della sanità e del lavoro sociale (20.7%), i professori e le professioni scientifiche (14%), insegnanti e assimilati (9.8%) e le professioni dell’informazione, delle arti e dello spettacolo (11.4%).
Complessivamente, quindi, gli attivisti del FSE sono persone che godono di un impiego stabile, pubblico o associativo, con professioni svolte nell’ambito della sanità, del lavoro sociale, dell’istruzione, dell’informazione, dell’arte e dello spettacolo. Tutti con un alto livello di scolarizzazione che li colloca nella scala gerarchica dei gruppi socio-professionali in una posizione medio alta. Quello che emerge è, dunque, un quadro abbastanza diverso da quello prospettato da Toni Negri all’indomani delle giornate di Genova 2001 [8].
Questo profilo viene ulteriormente rafforzato dall’analisi di quelle che sono le condizioni socio-economiche dei genitori e dei coniugi. Le caratteristiche prima descritte sono riscontrabili in una omogeneità tra generazioni e tra coniugi. I coniugi dei partecipanti appartengono per più della metà al settore pubblico; circa il 40% sono quadri o espressione di professioni intellettuali superiori, il 34% svolgono professioni intermedie.
Lo stesso vale per i genitori. Nelle madri prevale l’impiego pubblico (53%) mentre nei padri è in equilibrio il rapporto con il settore privato. Nei padri le professioni intellettuali superiori sono sovra-rappresentate (34%) rispetto ad impiegati o operai (15%).
Invertendo – e confermando anche in questo il dato della “prole militante” – la fotografia reale della società.
Isabelle Sommier commenta:
“Perdenti della mondializzazione i partecipanti al FSE lo sono tanto meno nella scelta del coniuge e nell’occupazione professionale, nessun declassamento sociale è osservato. Al contrario, come espressione di classi medie o superiori sembrano conoscere una mobilità sociale ascendente rispetto ai loro genitori, e un ancoraggio ancora più forte nell’impiego stabile del settore pubblico, in particolare nelle professioni intellettuali” [9].
E questo, nel movimento altermondialista, vale “a tutto tondo” nonostante la nebulosa di attività e di sigle di cui è composto. Da questa nebulosa ci si potrebbero aspettare fratture nella composizione socio-economica [10]; in realtà esiste invece una omogeneità – sociale ed economica – che lega tutti i settori di attività.
In sostanza siamo di fronte ad un movimento di opinione della piccola e media borghesia (più media che piccola) e non certamente ad un movimento di lotta e (tanto meno) di classe.
Siamo di fronte a “contestatori” sostanzialmente ben integrati nella globalizzazione che intendono contestare. Per questo, nella mobilitazione del movimento no-global il rifiuto della globalizzazione si è sempre manifestato soprattutto come forma di resistenza rispetto all’equiparazione al ribasso che consegue al mettere immediatamente in concorrenza paesi imperialisti e paesi dipendenti con garanzie sociali e salariali infinitamente peggiori.
Il movimento si mobilita perché sente la necessità di porre alcuni freni ad una competizione globale tra salariati che tende a peggiorarne drasticamente le condizioni di vita.
Non si tratta, quindi, di perdenti della globalizzazione. Comunque, si tratta di “non ancora perdenti”, espressione di un “radicalismo delle classi medie” che sentono minacciate le proprie (tutto sommato buone, su scala mondiale) condizioni di vita e di lavoro.
Le vere “vittime della globalizzazione” (per usare un termine caro al movimento), che dovrebbero essere il cuore della mobilitazione altermondialista, subiscono un “fenomeno di paradossale marginalizzazione”, cioè “una doppia esclusione: sociale e militante” [11].
“Oggi in Europa le popolazioni più colpite dai processi neoliberali sono esclusi dal campo dell’espressione politica e culturale e dall’accesso ai diritti fondamentali e sociali. Parliamo degli abitanti dei quartieri popolari, degli immigrati, dei disoccupati, dei precari, dei senza casa, dei clandestini… Sono troppo spesso accantonati come oggetti di dibattiti e negati nella funzione di attori sociali autonomi” [12].
Del resto – possiamo aggiungere – per partecipare ai grandi happening internazionali ci vuole tempo e denaro. E non solo, ci vuole una forte capacità di relazione e di comunicazione.
Da più parti si è tentato di descrivere in questi anni il movimento altermondialista come un movimento capace di prefigurare la costruzione di una sorta di “società civile transnazionale” (come sono, in un certo senso, le moltitudini negriane [13]).
Invece, diversamente da quanto si possa generalmente pensare, il movimento non è affatto trans-nazionale, ma ha invece solide radici nazionali.
“All’internazionalismo dei flussi politici, economici e culturali corrisponderebbe l’internazionalizzazione dei contestatori, identici in questo alla globalizzazione che contestano e con cui dividerebbero il superamento degli Stati e delle sfere politiche nazionali. Questa tesi è in parte accreditata dalla socializzazione internazionale dei militanti altermondialisti. In realtà l’altermondialismo resta il frutto di un forte ancoraggio nazionale, degli strumenti della riproduzione del capitale culturale e di un alto livello di investimento nei giochi della politica nazionale” [14].
E’ vero che i legami con l’estero di militanti sono molto significativi: il 76% dichiara di parlare un lingua straniera, il 30% due, il 9% tre. Il 19% ha vissuto all’estero un anno o meno, il 18 per più anni. Il 72% lo ha fatto per motivi professionali. I legami con l’estero sono dunque l’effetto di un “internazionalismo professionale” e non del turismo di massa o “dell’attenzione verso i problemi del mondo”.
Il rapporto privilegiato con il piano internazionale è
“il riflesso di strategie d’internazionalizzazione dei figli delle classi superiori che ci vedono una nuova possibilità per garantirvi la riproduzione del capitale culturale e valorizzare gli investimenti scolastici. In realtà siamo di fronte a soggetti radicati per la maggior parte nell’impiego pubblico fornito dallo Stato e che non disdegnano di impegnarsi in forme politiche tradizionali della vita politica nazionale…” [15].
Non siamo di fronte a nessuna “tribù globale”.
Come sostiene Isabelle Sommier:
“Sono le categorie più radicate nella logica dello stato-nazione (come i funzionari) a costituire le avanguardie del processo di internazionalizzazione dei movimenti sociali” [16].
Dunque, così come la globalizzazione capitalistica non produce la scomparsa dello stato-nazione (per una serie di ragioni di cui abbiamo parlato in altri contesti [17]), così oggi non si può descrivere la mobilitazione altermondialista come “l’affermazione di una sfera trans-nazionale autonoma”, ma piuttosto come una alleanza di resistenza che la piccola e soprattutto – la media borghesia dei paesi industrialmente e tecnologicamente avanzati oppongono al peggioramento delle proprie condizioni di vita che consegue dalla concorrenza internazionale della forza-lavoro.
Se quanto detto vale per i militanti dei paesi “capitalisticamente avanzati” [18] bisognerà pur riflettere, in un altro momento, anche su quella che è la composizione dei militanti altermondialisti dei paesi dipendenti. Il lavoro della Sommier e di Agrokoliansky rileva che anche qui
“le mobilitazioni sono filtrate e importate da intellettuali ed élite delle classi medie, fortemente ancorati a dinamiche nazionali, che hanno condizioni di privilegio per l’accesso all’internazionale (conoscenza delle lingue, possibilità di spostarsi, accesso alle produzioni scientifiche)” [19].
Questi spunti per una analisi di classe del movimento altermondialista possono contribuire a spiegare il perché di un movimento incapace di sviluppare azioni concrete e coerenti contro la guerra persino dopo una (formalmente) larghissima mobilitazione.
Del resto nella genesi stessa del movimento [20] sono contenute le premesse delle sue scelte successive.
Basti ricordare che nel 1999 a Seattle, in occasione del Millenium Round del WTO [21], una componente fondamentale delle mobilitazioni fu quella dei lavoratori industriali americani organizzati dall’AFL-CIO che chiedevano a Bill Clinton, allora Presidente, l’imposizione di barriere doganali all’importazione di acciaio dall’estero (in particolare dall’Europa). E fu proprio la posizione assunta dagli USA ancor più degli scontri di piazza – a determinare il fallimento del vertice.
La natura “difensiva” delle rivendicazioni di una componente fin dall’origine importante del movimento è significativa anche perché è una costante; molte volte, infatti, abbiamo visto all’opera rivendicazioni di carattere “difensivo”, come quelle di José Bové contro il business dell’agro-industria o quelle contro il dumping economico e sociale nei prodotti agricoli denunciate dai coltivatori americani colpiti dagli effetti del NAFTA [22].
Ovviamente noi dobbiamo opporci ad ogni livellamento al ribasso delle condizioni di vita di comunità o gruppi di persone. Ma, altrettanto ovviamente, dobbiamo opporci alla sperequazione che esiste tra i livelli di vita dei paesi imperialisti e quelli dei paesi dipendenti. Purtroppo, su questo versante, il movimento sembra essere molto più “incerto”, non riuscendo ad andare oltre alcune proposte velleitarie come la Tobin tax, il commercio equo e solidale, le banche etiche [23]… e appoggiando le forze elettorali di “sinistra” o centro-“sinistra”. I “no global”, infatti, votano [24].
A questo punto, non stupisce che il “proscenio del movimento” sia occupato dalle classi medie con i loro “organismi a corrente politicamente alternata” (Berlinguer sì – Moratti no, Pacchetto Treu sì Legge Biagi no, bombardamento all’uranio impoverito della Jugoslavia sì guerra in Iraq no, ecc…) mentre le organizzazioni di classe stanno quando va bene ai margini e quando va male direttamente fuori dal movimento. Non stupisce che esistano inchieste che rilevano come solo il 3% delle persone abbiano partecipato al FSE di Firenze (6-10 novembre 2002) in un ottica anticapitalista [25].
E non è “colpa del destino cinico e baro” se ad esempio assistiamo, all’interno del movimento altermondialista, alla sovra-rappresentazione di Organizzazioni Non Governative (ONG)
“…il più delle volte insignificanti dal punto di vista del loro impatto reale, ma allo stesso tempo ben dotate finanziariamente e grazie a questo capaci di concentrare il loro tempo per preparare degli “show” piuttosto che attrezzarsi a condurre battaglie lunghe e prolungate” [26].
“…A Rio [Conferenza dell’Onu sull’ambiente e lo sviluppo, 1992 – ndr] abbiamo visto le grandi imprese internazionali creare delle proprie Ong, per poter partecipare a questo movimento, per poter mettere lo zampino anche nella corrente delle Ong, e portare avanti le loro tesi anche in quest’ambito. D’altra parte, molte Ong dipendono fondamentalmente dai finanziamenti pubblici e privati, per cui la loro pretesa di rappresentare la società civile mondiale va presa con molta cautela. Beninteso, ci sono delle Ong che fanno delle cose egregie, ma molte altre Ong sono fasulle, sono di fatto delle organizzazioni governative o dipendenti dalle aziende, quindi di fatto sono schierate da quella parte” [27].
Il fatto che settori della classe media – soprattutto occidentale – si mobilitino per difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro dagli effetti della concorrenza internazionale tra salariati senza scivolare verso posizioni protezionistiche o addirittura xenofobe non è un fatto da disprezzare, data la situazione.
In ogni caso, si tratta di una nuova versione della vecchia richiesta di un “capitalismo dal volto umano”, tra l’altro enormemente depotenziata dalla smaccata tendenza alla virtualità propria del “movimento”. Al posto delle vecchie e dure lotte per l’orario e per il salario, petizioni per il reddito di cittadinanza; al posto della disobbedienza/boicottaggio radicale contro la guerra, le passeggiate per la pace. Al posto dello scontro sociale, la concertazione.
Note
[1] Laboratorio Marxista, ANSWER is not the answer, Gennaio 2003, Autoproduzioni: “La guerra del Vietnam, tanto per fare un esempio, è finita grazie alle pallottole dei Vietcong, e non grazie “fiori nei cannoni” dei pacifisti. Il fatto che nei paesi imperialisti i “fiori nei cannoni” – con tutto il bagaglio culturale (musicale, letterario, artistico…) correlato – abbiano avuto più spazio nella comunicazione di massa persino della stessa resistenza del popolo vietnamita è solo l’ennesima dimostrazione che il potere cerca di scegliersi anche le forme di opposizione a sé stesso. Il potere auspica che la forma più alta di contestazione alle sue guerre di rapina, alle sue aggressioni, ai suoi massacri, ai suoi veri e propri genocidi… siano i “fiori nei cannoni”, i convegni sulla democrazia, l’equidistanza tra aggrediti e aggressori, la rinuncia non violenta alla lotta, l’espressione debole del dissenso, l’esposizione dell’iride ai balconi o alle finestre, le manifestazioni liturgiche dell’indignazione del momento… Il potere è disposto a tollerare (comunque sempre entro certi limiti) il dissenso politico, anche quello più radicale; non tollera invece chi intende passare dal dissenso all’opposizione politica e sociale organizzata; soprattutto non tollera coloro che sono consapevoli della irriformabilità del modo di produ zione capitalistico e della necessità della distruzione di ogni gerarchia di potere ad esso correlata”.
[2] Formale, perché oltre alle bandiere della pace esposte ai balconi delle finestre o alle passeggiate “una tantum” di protesta si è visto ben poco. I lavoratori, ad esempio, non hanno utilizzato neppure l’arma dello sciopero.
[3] Laboratorio Marxista, ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell’aggressione all’Iraq, Autoproduzioni, gennaio 2003.
[4] Paolo Persichetti, Disobbedire non basta. I malintesi della nonviolenza: “Una delle ragioni forti poste a fondamento della scelta non violenta è la rinuncia ad esercitare forme di potere. La non-violenza più radicale ed integrale, rivendica la sua totale asimmetria rispetto all’esercizio del potere. Essa non si pretende un contropotere ma, rifiutando ogni forma di simmetria e concorrenza, si vuole altro dalla logica del potere stesso. Secondo i suoi sostenitori, attraverso il metodo non violento si otterrebbe con successo il passaggio dal potere esercitato “su” (dominazione), al potere esercitato “con” (cooperazione con gli altri) oppure al potere “dall’interno” (forza psicologica e spirituale). Ma il ricorso ad un brillante escamotage sintattico non risolve il dilemma del potere, la natura della sua origine… Che fare quando il rapporto di forza si fa fisico e chi sta lottando non vuole semplicemente testimoniare sé stesso, ma innanzitutto non vuole soccombere ?”.
[5] Controvento, n.8, La pace nell’urna (1), marzo 2004: “…questo richiamo al pacifismo e alla nonviolenza, che assomiglia un po’ al desiderio della piccola borghesia e dell’aristocrazia operaia dei paesi imperialisti occidentali di godersi in santa pace i frutti economici e consumistici ottenuti, in larga parte, attraverso lo sfruttamento dei popoli dei paesi dipendenti. Questi settori non vogliono la guerra non tanto per ragioni etiche (dato che si muovono con assai diversa determinazione a seconda del colore politico del governo), quanto piuttosto perché temono che la guerra sottragga risorse al loro “welfare state”; nello stesso tempo, non comprende pienamente che in una situazione di stagnazione internazionale questo “welfare state” lo pagano soprattutto i proletari dei paesi più poveri e che la guerra, oltre ad essere strumento di conquista di aree geo-politiche e di mercati delle merci, dei capitali e degli uomini, è lo strumento per annientare ogni forma di resistenza al dominio delle principali potenze industriali, dunque anche dell’Italia, membro del G8”.
[6] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere, agosto 2000, Autoproduzioni: “Intanto sul concetto di “globalizzazione” bisogna intendersi. Se per “globalizzazione” si intende l’estensione a livello mondiale del mercato capitalistico allora la globalizzazione è tutto meno una novità dal momento che Marx prima e Lenin dopo (ma ovviamente non solo loro) hanno ampiamente messo in luce la tendenza storica del modo di produzione capitalistico a sottomettere a sé ogni altro modo di produzione. Se per “globalizzazione” si intende il fatto che non esiste più un campo non capitalistico (un campo socialista) o che lo sfruttamento del proletariato internazionale è sempre maggiore anche qui siamo più alla scoperta dell’acqua calda che non a quella di gran novità teorica visto che lo sfruttamento del proletariato è il tratto caratteristico del modo di produzione capitalistico e la scomparsa di una alternativa socialista all’imperialismo è nota da decenni. Se invece l’uso del termine asettico di “globalizzazione” serve solo ad affossare la categoria marxista di imperialismo il conto torna e si capisce bene perché, di questo “concetto”, facciano così largo uso tanto gli ideologi della borghesia imperialista quanto quelli della borghesia “di sinistra” (riformisti, pacifisti, ecologisti, “antagonisti”…)”.
[7] Isabelle Sommier-Eric Agrikoliansky, Radiographie du mouvement altermondialiste, La Dispute, Parigi 2005, pag. 107.
[8] Secondo Negri (cfr. Andretta-Della Porta-Mosca-Reiter, Global, no global, new global. La protesta contro il G8 a Genova, Laterza 2002) saremmo di fronte ad una “nuova composizione del proletariato. I giovani che hanno manifestato a Seattle, a Göteborg, a Quebec City, a Genova sono davvero figli del popolo perché non hanno né avranno un salario duraturo”.
[9] Isabelle Sommier-Eric Agrikoliansky, Radiographie du mouvement altermondialiste, La Dispute, Parigi 2005, pag. 113.
[10] Ci si potrebbe aspettare cioè che i raggruppamenti parziali corrispondessero a micro-stratificazioni di classe.
[11] No Vox, Contributo alla preparazione del FSE di Parigi, 9 febbraio 2003. No Vox è una rete concepita come tentativo di dare cristallizzazione organizzativa ad una serie di attività ed associazioni attive in Francia dal 1990 che si occupano dei cosidetti “Sans” (“Senza”).
[12] Ibidem.
[13] Antonio Negri, Impero, moltitudini, esodo (Da un intervento alla facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza”): “Il concetto di moltitudine: dal punto di vista scientifico è un concetto certamente ancora primario, che si lancia per vedere se funziona. Ma quando per qualificare il nuovo proletariato si parla di moltitudine si parla di una pluralità di soggetti, di un movimento nel quale operano singolarità cooperanti. C’è una differenza abissale dal concetto di classe. La moltitudine lavora, è completamente sfruttata, ma si mette assieme attraverso la rete, i collegamenti, la cooperazione, il linguaggio”.
[14] Isabelle Sommier-Eric Agrikoliansky, Radiographie du mouvement altermondialiste, La Dispute, Parigi 2005 pag. 112.
[15] Ibidem, pag. 113
[16] Ibidem, pag. 123
[17] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere: “Non solo il ruolo degli stati nazionali non viene meno, ma addirittura si manifesta proprio a causa della crisi in tutta la sua necessità storica. Innanzitutto perché i capitali hanno sempre e non potrebbero non avere – una “matrice” nazionale. Inoltre, la spartizione dei mercati e la distruzione di capitali necessaria al mantenimento o al rilancio di livelli sufficientemente elevati di saggio di profitto no si realizza con buoni propositi, ma attraverso l’imposizione della forza e soprattutto di quella militare. Davvero non vedere le continue “guerre di posizione” che gli imperialisti scatenano in tutto mondo e che dal crollo dell’URSS in poi non si sono certo attenuate -, significa vivere (o volere vivere) fuori dalla realtà. Non vedere come il temporaneo rafforzamento in questa fase dell’Europa e, soprattutto, degli USA non sia che la diretta conseguenza delle guerre scatenate in Iraq e Iugoslavia, degli interventi in Africa, in America Latina, in Asia…vuole dire vivere (fare finta di vivere) nel paese dei balocchi (o degli allocchi). Si può credere davvero che le masse popolari diseredate del mondo accettino rassegnate di morire letteralmente di fame e di malattie e non che, invece, siano costrette con la violenza ad accettare tali condizioni? E chi è in grado di esercitare la propria “azione diretta” sui mercati internazionali delle merci e delle materie prime se non gli eserciti che sono, appunto, la più concreta delle manifestazioni del ruolo dello stato ?”.
[18] Cioè ad avanzato sviluppo delle forze produttive.
[19] Isabelle Sommier-Eric Agrikoliansky, Radiographie du mouvement altermondialiste, La Dispute, Parigi 2005 pag. 125.
[20] Quando parliamo di “movimento” ci riferiamo soprattutto ai suoi gruppi dirigenti e “caratterizzanti”. Non avrebbe senso descrivere il movimento anti-G8 di Genova 2001 a partire dalla presenza alle manifestazioni di qualche migliaio di manifestanti del “blocco nero” oppure di qualche centinaio di militanti di formazioni antimperialiste, anarchiche o rivoluzionarie.
[21] World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio, OMC).
[22] North American Free Trade Agreement, Accordo Nord-Americano per il Libero Scambio, sottoscritto da USA, Canada e Messico.
[23] n + 1, La febbre di Seattle: “Oggi gli economisti specializzati in problemi internazionali dei paesi poveri teorizzano la sostituzione degli aiuti massicci a tasso privilegiato con forme di prestito individuale a tassi correnti, pochi dollari a famiglia, per facilitare la costituzione di poderi agricoli e di piccole attività artigianali e commerciali. E vantano questo ritorno all’economia primitiva come unico mezzo per invogliare le banche locali a sostituire gli organismi internazionali nel fare prestiti, dato che i miserabili onorano il debito meglio dei governi. Con sistemi del genere l’ultra-reazionaria politica terzomondista è riuscita persino a far insediare popolazioni in zone dove solo le zanzare riuscivano a vivere e che gli uomini avevano evitato per millenni perché soggette a inondazioni e bufere, senza minimamente intaccare la precaria condizione di masse enormi”.
[24] Eccezion fatta per alcuni settori, tanto più minoritari (ed ininfluenti sulla “linea” generale del movimento) quanto più radicali. A proposito degli appetiti elettorali nei confronti dei “no global” e dei pacifisti cfr La pace nell’urna, Controvento, nn.8-9.
[25] Fabio de Nardis, Note a margine del Forum Sociale Europeo, Il Dubbio, Rivista di critica sociale, Anno III, Numero 3, 2002.
[26] Samir Amin, Qualche riflessione e proposta sui Forum Sociali, lettera, Gennaio 2005. Samir Amin, membro del Consiglio Mondiale del Forum Sociale, non ha partecipato al forum di Porto Alegre di quest’anno in aperta critica del funzionamento dei Social Forum.
[27] Contro l’universalismo, Intervista a Serge Latouche di Antonio Caronia, Socialpress, 28 settembre 2004. Cfr anche S. Latouche Giustizia senza limiti: “Le associazioni e le reti che, a torto o a ragione, pretendono di fare da contrappeso [alla potenza finanziaria delle aziende transnazionali] sono in larga misura strumentalizzate dai giganti dell’economia e della finanza. Una società civile mondiale non esiste” (cit. Dall’intervista pubblicata da Socialpress).