Primomaggio | Ripartire dalle lotte. Considerazioni su ATM, Melfi ed altro
Tratto dal numero 5 di Primomaggio, foglio di collegamento tra lavoratori, disoccupati, precari… della zona apuo-versiliese, settembre 2004.
Nel corso dell’ultimo anno e mezzo l’Italia è stata attraversata da una lunga serie di mobilitazioni: dal gruppo Fiat (con la resistenza di Termini Imerese e quella ormai storica dell’Alfa di Arese) agli aeroportuali dell’Alitalia, dai lavoratori delle ditte subappaltatrici delle pulizie ferroviarie ai metalmeccanici contro il nuovo contratto, dalla scuola contro la riforma Moratti alla difesa dell’art.18… -, senza contare una miriade di altre iniziative di lotta che dal settore privato al pubblico impiego hanno visto scendere in sciopero e in piazza milioni di lavoratori. E’ in questo contesto che nel giro di 6 mesi (dal dicembre 2003 al maggio 2004) sono esplose due tra le più importanti lotte degli ultimi decenni: la lotta degli autoferrotranvieri (in particolare all’ATM di Milano) e quella degli operai della Fiat Sata di Melfi, che riassumono, in un certo senso, tutti quei sintomi di ripresa del conflitto di classe che ormai da tempo si manifestano sempre più concretamente.
La lotta degli “autoferro” e quella di Melfi mostrano, ovviamente, elementi di specificità, ma anche interessanti elementi di similarità. In particolare, condividono un elemento che a noi di Primomaggio sta particolarmente a cuore e cioè il fatto che la mobilitazione trasversale dei lavoratori a prescindere dalle tessere sindacali (e anche dal fatto stesso di avere una qualunque tessera), la disponibilità a mettere in campo forme di lotta adeguate agli obbiettivi posti e la determinazione nel perseguirli producono immediatamente un salto di qualità nei risultati ottenibili.
Chi usa l’alibi delle difficoltà per giustificare la propria adesione a sindacati concertativi e rinunciatari è servito. Le trattative sindacali classiche, le passeggiate di propaganda, le concertazioni e anche l’utilizzo in forma rituale dello stesso sciopero possono rivelarsi insufficienti, a volte persino controproducenti (quando, costando molto ai lavoratori, non realizzano alcun miglioramento concreto della situazione). Invece, unità di lotta, determinazione e coraggio imprimono (anche alle trattative) un’immediata accelerazione.
Un secondo elemento di similarità è costituito dall’atteggiamento dei sindacati confederali (pur con qualche differenza reale tra autoferrotranvieri e Melfi) i quali, incapaci di impedire lo scoppio della “rivolta”, cercano prima di ostacolarla e poi di addomesticarla, finendo per chiudere accordi “semibidone” che stanno a metà delle rivendicazioni, ma che vengono presentati ai lavoratori come grandi successi della trattativa.
Un terzo elemento di similarità è quello che, in ogni caso, le due lotte hanno messo a nudo i punti deboli della moderna organizzazione del lavoro, tanto nella grande metropoli (Milano) quanto nella grande industria (Fiat), dimostrando a chi parlava di fine del conflitto di classe che, malgrado le difficoltà poste dalle trasformazioni introdotte dai capitalisti pubblici e privati, i lavoratori riescono sempre, magari faticosamente, a ritrovare la strada della lotta.
Oggi, sia i lavoratori di Melfi, sia quelli dell’ATM (e per riflesso tutti gli altri lavoratori) si trovano obbiettivamente in una posizione migliore dal punto di vista dei rapporti di forza rispetto a quella che esisteva ancora un anno fa, indipendentemente dal fatto che si siano raggiunti solo risultati parziali. Il vero patrimonio delle lotte a Melfi e all’ATM non sono gli euro conquistati (pure importanti, ovviamente, data la crescita esponenziale del costo della vita negli ultimi anni) ma la verifica che, indipendentemente dalla triade confederale e anche contro di essa, i lavoratori possono sviluppare lotte efficaci mostrando un potenziale di lotta assolutamente decisivo che solo la mancanza di una piena autonomia politica e sindacale impedisce loro di sviluppare appieno.
Un quarto elemento di similarità è costituito dall’atteggiamento del potere politico e di alcune organizzazioni sindacali confederali che non hanno esitato a denigrare i lavoratori e a chiedere la loro repressione violenta. L’ingresso dei carabinieri e della polizia ai depositi degli “autoferro” in lotta “per rimuovere i picchetti” e la carica premeditata a Melfi segnalano che, a fronte di una mobilitazione decisa (e quasi unanime dei lavoratori – è bene sottolinearlo -) le forze repressive sono sempre pronte ad usare il manganello e la legge sotto il comando del padrone (lo Stato o gli Agnelli, poco importa).
La lotta degli autoferrotranvieri esplode a Milano il 1 dicembre del 2003 con il primo sciopero “selvaggio” (cioè senza il rispetto delle “fasce protette” previste in osservanza della legge 146) dei lavoratori ATM che paralizzano la città. L’esplosione avviene dopo molti scioperi “normali” che hanno ormai sfiduciato i lavoratori i quali dichiarano, superando tutti, che o si violano le fasce oppure tanto vale smetterla con scioperi che hanno inciso pochissimo sull’azienda ferma ad una proposta di aumento salariale di 12 euro (contro i 106 già previsti per effetto dell’adeguamento semi-automatico dei salari all’inflazione programmata). Alla fine della lotta saranno stati 7 gli scioperi “selvaggi” a Milano di cui alcuni consecutivi.
Contro i lavoratori ATM si scatenano tutti: sindacati confederali, mass-media, partiti di ogni colore, azienda, forze repressive… meno che la gente normale, gli altri lavoratori che invece, malgrado i disagi, comprendono la lotta degli autoferrotranvieri e solidarizzano sin dal primo momento con essa.
Sulla scia di Milano molte altre città (se ne conteranno alla fine circa 50) scendono in lotta dando vita ad una mobilitazione come forse mai si era vista nel settore del trasporto pubblico locale.
A Melfi, dopo 2 giorni di “messa in libertà” dei lavoratori Sata (a causa di un sciopero proclamato in una azienda dell’indotto) i lavoratori vengono fatti fermare in azienda per aspettare la tarda mattinata quando si deciderà una nuova “messa in libertà” o il ritorno alla produzione.
700 lavoratori si ritrovano nella mensa e decidono di rompere gli indugi. Scrivono un piccolo documento di rivendicazione (annullamento dell’enorme numero di provvedimenti disciplinari, adeguamento salariale al resto del gruppo, revisione dell’organizzazione del lavoro TMC-2) che fanno firmare ai delegati presenti nel turno, scendono in sciopero, fanno un corteo interno e dietro proposta di due delegati (uno dello Slai Cobas e uno di Alternativa Sindacale) vanno a bloccare le portinerie. I lavoratori del turno successivo, quando arrivano, trovano i blocchi ai cancelli e si aggiungono alla lotta.
Per 21 giorni consecutivi i lavoratori bloccano la produzione con FIM, UILM e Fismic che organizzano il crumiraggio (fallito) e chiedono l’intervento della polizia per rimuovere i picchetti.
La FIOM decide di appoggiare la lotta. Manda a Melfi i suoi massimi esponenti (da Rinaldini a Cremaschi). E’ tutto bloccato, la Fiat è quasi alle corde, ma all’improvviso la FIOM salta la barricata e firma l’accordo insieme ai sindacati gialli padronali e crumiri (FIM, UILM, UGL, Fismic). In assemblea un quarto dei lavoratori lo boccia (ed è comunque un risultato enorme, se si pensa alla situazione di Melfi e anche al resto del gruppo Fiat), mentre moltissimi altri firmano “per disciplina” pur essendo assai poco convinti.
E’ ovvio che né Melfi, né gli autoferrotranvieri, né nessuna altra categoria o fabbrica sono in grado, da sole, di invertire stabilmente la tendenza negativa degli ultimi anni.
Si tratta di segnali, molto importanti, ma segnali.
Senza la mobilitazione generale del resto del mondo del lavoro che unisca precari e “stabili”, settori storici e nuovi settori, nell’ottica del recupero di una piena indipendenza e autonomia del mondo del lavoro da sindacati concertativi e partiti “amici” (che amici non sono per niente) anche queste “fiaccole” possono spegnersi.
Questo ultimo anno e mezzo è stato molto importante per il mondo del lavoro. Anche noi, come Primomaggio, abbiamo provato a dare il nostro modesto contributo, sia nei luoghi di lavoro in cui siamo, sia sul territorio. Il rischio concreto è che un cambiamento della configurazione politica (uscita di scena del centro-destra e ritorno al governo del centro-sinistra appoggiato dai sindacati confederali ed anche da qualche piccolo sindacato extraconfederale) possa determinare in molti lavoratori la rinascita di passate (e infondate) speranze che ci riporterebbe obbiettivamente indietro rispetto ai risultati raggiunti. Si tratta perciò di continuare a lavorare con pazienza e serietà per consolidare quanto sin qui realizzato e per ottenere nuovi risultati, facendo crescere il sostegno e la partecipazione a questo progetto di collegamento orizzontale e antiburocratico di lavoratrici e lavoratori informati e combattivi.