Laboratorio Marxista | Intervento al II Campo Antifascista e Antimperialista di Malgazonta
Un testo scritto molti anni fa per l’intervento al Campo Antifascista e Antimperialista del 2003 a Malga Zonta, in Trentino, con diversi passaggi oggi sicuramente discutibili (a cominciare da qualche frase buttata lì sulla Cina), con alcune ingenuità, ma anche con alcuni punti di forza. Il testo era stato realizzato per l’intervento in assemblea e soprattutto per il dibattito interno, ma non per essere pubblicato [Antiper]
Lo scorso anno, nell’ambito della terza giornata del Campo, in una assemblea plenaria come questa, siamo intervenuti per portare il nostro contributo sul tema dell’imperialismo (e dell’anti-imperialismo).
In quel contesto si parlò anche della guerra contro l’Iraq che già allora era largamente prevedibile.
Oggi, ad un anno quasi esatto di distanza, possiamo tirare un bilancio provvisorio (giacché la situazione irachena – con tutta evidenza – non è affatto normalizzata) dell’aggressione anglo-americana e dei limiti e delle intuizioni del movimento che contro questa aggressione si è sviluppato in tutto il mondo.
Poco prima dell’inizio dell’aggressione, nel gennaio del 2003, pubblicammo un opuscolo (“ANSWER is not the answer. Riflessioni su antimperialismo, pacifismo e guerra alla vigilia dell’aggressione imperialista all’Iraq”) nel quale provavamo a sintetizzare alcune questioni e ad ipotizzare alcuni scenari. Trattandosi di un opuscolo destinato ad una diffusione “di massa” i vari temi non erano trattati con la profondità e l’ampiezza necessaria. Tuttavia quell’opuscolo ha almeno assolto ad un compito importante (dal nostro punto di vista) e cioè al compito di essere strumento di orientamento per la nostra iniziativa politica in quella fase. Nel contempo è stato oggetto di discussione e di confronto in alcuni ambiti nazionali e da questo punto di vista ha svolto anche il compito di contribuire al dibattito tra alcune forze antimperialiste in questo paese.
Alcune delle tesi contenute in “answer” si sono rivelate, con il senno di poi, esatte.
Non che questo rappresenti motivo di grande orgoglio (vuoi perché alcune ipotesi erano facilmente prevedibili, vuoi perché quasi tutti gli scenari immaginati erano invariabilmente “negativi” rispetto alla nostre aspettative), ma insomma, almeno abbiamo potuto mettere alla prova il nostro metodo di analisi e il nostro ragionamento.
Quali sono dunque le tesi fondamentali di quell’opuscolo?
Vediamone alcune.
“la forza politica di un movimento, la sua capacità di inserire all’interno del “gioco delle parti” elementi di reale rottura e – per conseguenza – di riflessione, non dipende soltanto dalla sua dimensione numerica quanto piuttosto dal suo programma di lotta e dalla sua capacità di compiere passi concreti per trasformarlo in pratica politica.” (pag. 7)
“il numero di partecipanti ad una manifestazione – per quanto grande esso possa essere – non è né l’unico, né il principale indicatore della forza di un movimento di opposizione.” (pag. 8)
Quello sviluppatosi contro l’aggressione anglo-americana dell’Iraq è stato probabilmente il più vasto movimento contro una aggressione che mai si sia realizzato.
Proprio in questa chiave emerge con esemplare chiarezza la dicotomia tra ampiezza formale del movimento e angustia del suo programma di lotta nonché assenza di risultati concreti.
Paradossalmente l’appello al “pratico” (“c’è la guerra in corso”, “bisogna mobilitarsi”, “non è il momento delle discussioni”, “bisogna essere tanti”, “bisogna fermare la guerra”) è stato raccolto in questa occasione come mai prima era stato raccolto; eppure, mai come in questa occasione ha dimostrato la sua totale inefficacia, la sua assoluta vacuità proprio dal punto di vista dei risultati “pratici”.
Ad ennesima conferma che ogni più generosa “pratica”, in mancanza di una visione strategica – cioè di una teoria – troppo facilmente risulta influenzabile dal sistema politico e culturale dominante sia che esso si manifesti attraverso le spoglie del potere “ufficiale”, sia che si manifesti attraverso le “mentite spoglie” dei leader dei vari Social Forum o partiti-sindacati della “sinistra” di regime.
Altri movimenti, assai meno vasti numericamente, hanno inciso assai più profondamente nelle coscienze “civili” e “democratiche” (se non in quelle rivoluzionarie, evidentemente assai meno influenzabili da movimenti fondamentalmente pacifisti).
Insomma la tesi secondo cui la forza di un movimento di opposizione non si misura solo nei termini dell’ampiezza “formale” del consenso che raccoglie ha trovato, proprio nell’aggressione imperialista all’Iraq, la più eclatante delle conferme.
“A nostro avviso gli antimperialisti devono innanzitutto avere ben chiaro che nessun consenso sarà mai sufficiente per convincere il potere a desistere dalle sue intenzioni e quindi a scongiurare la guerra. Nessuna guerra è mai finita per effetto delle contestazioni contro la guerra.” (pag. 5)
Anche noi, operando una vera e propria forzatura, usiamo spesso il termine “guerra” intendendo “aggressione”. Per questa ragione abbiamo spesso parlato di “guerra in Iraq”, “guerra in Jugoslavia”…
Questo uso disinvolto del termine guerra potrebbe suggerire l’errata convinzione che prima della “guerra” in Iraq ci fosse la “pace”.
In realtà tra guerra e “pace” non esiste una divisione netta.
Mai come oggi “guerra” e “pace” stanno in rapporto dialettico. Non si sa quando finisce l’una e quando comincia l’altra.
In “answer” abbiamo parlato di “guerra di lunga durata” cercando di evidenziare il legame profondo tra le varie fasi di aperta[1] “guerra guerreggiata” dell’ultimo decennio (Iraq 1, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq 2). Eppure il movimento ha sottovalutato l’importanza di evidenziare questo legame per sopravvalutare la parola d’ordine del “fermare la guerra prima che la guerra inizi”.
Ha preferito sottovalutare una consapevolezza che avrebbe avuto una portata politica profonda e feconda, se non per il presente almeno per l’avvenire, ma che avrebbe anche impedito la saldatura con settori che avevano appoggiato alcune di quelle aggressioni (i centro-“sinistri” italiani, i “rosso”-verdi tedeschi, i “democratici” americani…).
Del resto, uno dei limiti principali del movimento pacifista è sempre stato proprio quello di mostrare una cattiva percezione del rapporto tra “guerra” e “pace”.
Il largo movimento sembra percepire una “guerra” solo quando si muovono le portaerei (infatti i bombardamenti non autorizzati[2] dall’ONU sulle no-fly zones dell’Iraq o il dispiegamento di decine di migliaia di istruttori, militari addestrati e persino mercenari in zone di combattimento a spasso per l’Africa o l’America Latina – tanto per fare un esempio – non hanno mai sollecitato grandi “mobilitazioni pacifiste” pur andando avanti da molti anni).
Eppure oggi, dopo il crollo dell’URSS, vi sono anche altri strumenti per esercitare forme di guerra (magari “non guerreggiata”, ma pur sempre guerra, qualsiasi tipo di definizione si possa adottare).
Pensiamo agli embarghi.
“la stragrande parte di questi milioni di “mobilitati” dimenticherà, come ha dimenticato in questi 10 anni, che in Iraq con la “non guerra” dell’embargo e dei bombardamenti non autorizzati sulle “no-fly zones” (e non solo) sono morti milioni di persone[3] e si è avuto un pesantissimo arretramento a condizioni di vita di semi-sopravvivenza per la gran parte della popolazione irakena.
Possono gli antimperialisti sostenere e difendere questa “pace”?
La “pace” della fame, delle malattie, dello sfruttamento… è “pace”?
Contro questa “pace” noi diciamo che esiste una guerra che i popoli possono accettare e cioè la guerra che pone fine al sistema che produce le guerre, la guerra di classe.” (pag.10)
Dove finisce la politica (o la “diplomazia”) e comincia la “guerra”?
Questo confine, nella fase imperialista – e specialmente nell’ultimo decennio – è effettivamente così ben percepibile? Anzi, esiste un confine? La guerra è ancora la “continuazione della politica con altri mezzi” come sosteneva Von Clausevitz e ripeteva Lenin? Oppure ormai siamo all’interno di un circuito in cui guerra e politica si inseguono e si confondono, in cui i periodi che vengono percepiti come “di pace” fanno più morti di quelli che vengono percepiti come momenti di “guerra”?
Perché – se la guerra è guerra – ci si mobilita contro l’aggressione anglo-americana all’Iraq e non lo si fa per i macelli tribali in Congo o in Sierra Leone (alimentati da paesi imperialisti europei e, di nuovo, dagli USA) che sono costati in pochissimi anni milioni di morti e decine di milioni tra feriti, invalidi permanenti, senzatetto…?
Se l’embargo dell’ONU ha prodotto 1 milione e mezzo di morti che senso aveva dire “fermiamo la guerra prima che la guerra inizi”? La guerra non era già forse iniziata per il popolo iracheno? E se sì perché non ci sono mai state manifestazioni tra il 1991 e il 2003 contro la guerra della fame e delle malattie scatenata dall’ONU contro l’Iraq con l’appoggio non solo degli USA ma di tutti i paesi compresi quelli che in questa occasione si sono messi di traverso?
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La recente aggressione imperialista all’Iraq ha portato alla ribalta le tesi di quella area definita neo-conservative (neo-conservatrice) che controlla di fatto l’amministrazione Bush. Su molti “insospettabili” giornali italiani sono apparse ricognizioni sulle tesi “newcons” (da “la Repubblica a “il Sole 24 ore” al “Corriere della sera”). Chi ha avuto la voglia di andarsi a rileggere le proposte avanzate nel corso degli anni dagli esponenti di questa area ha avuto certamente la sensazione – al primo impatto – di essersi imbattuto in un gruppo di megalomani imbevuti di manie di grandezza.
Ben pochi si sono domandati se le proposte dei “newcons” fossero il prodotto della degenerazione delle loro menti “fasciste” e delle loro velleità “imperiali” o piuttosto il prodotto della necessità di potenza e di egemonia degli USA, estrema razio di un sistema capitalistico “a rischio” che senza l’effetto stabilizzatore di questa supremazia potrebbe tendere pericolosamente rapidamente verso quello che potremmo definire “disequilibrio globale” che, come sappiamo, produrrebbe o il socialismo o la barbarie.
Infatti se è vero che l’equilibrio in generale è il prodotto di forze a somma vettoriale nulla è anche vero che l’equilibrio politico può essere il frutto di una supremazia talmente soverchiante da non ammettere azioni contrastanti.
Per chiarire.
Rispetto all’aggressione contro l’Iraq uno squilibrio – la soverchiante supremazia militare USA – era al tempo stesso la causa dell’iperattivismo degli USA e dei sui alleati e dell’immobilismo dei suoi oppositori (Francia, Germania, Russia, Cina…) i quali hanno alzato la voce sì… ma, insomma… hanno alzato solo la voce.
Naturalmente questa è una visione perlopiù statica della situazione.
Andando alla ricerca degli elementi dinamici vediamo invece che per la prima volta e in forma mai così plateale si è realizzato uno scontro politico-diplomatico (con pesanti invettive reciproche) tra gli USA e suoi ex-alleati/subordinati (Francia e Germania innanzitutto).
Fino a quando si è mantenuto il quadro (fondamentalmente) bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale gli USA si sono assunti l’onere della difesa della propria area di influenza.
Saltato quel quadro ne è nato un altro.
Multipolare dal punto di vista economico-finanziario (e ora anche valutario), unipolare dal punto di vista politico-militare.
E’ questa la contraddizione che rappresenta meglio la situazione attuale in campo internazionale e ci permette di cogliere l’evoluzione dinamica degli eventi.
Gli USA hanno un budget per le spese militari e di intelligence di circa 400 miliardi di dollari.
Se anche l’Europa dovesse sborsare 400 miliardi di Euro per inseguire la supremazia USA sarebbe costretta a tagliare un modo drastico il sostegno alle propria economia e alla proprie industria, nonché al proprio “welfare” con conseguenze imprevedibili sul fronte interno.
Certo, grazie alla propria supremazia militare e soprattutto valutaria nel corso degli anni gli USA hanno potuto strangolare le economie di mezzo mondo cercando di scaricare sugli altri le proprie spese (stampando dollari quando necessario). La nascita dell’euro e il suo rafforzamento liquidano la possibilità per gli USA di usare il signoraggio del dollaro per coprire tutte le proprie contraddizioni.
E’ in questa situazione che nascono le teorie “guerrafondaie”.
Dicono i “newcons”: se gli USA hanno ancora un’arma – e visto che il dollaro lo è sempre meno – che la usino!
Pochi hanno cercato di capire se le tesi “newcons” siano solo i deliri di un gruppo di arrivato (inspiegabilmente) al potere oppure l’incarnazione di una “necessità storica”, gli interpreti più puri di una politica di supremazia che negli USA non contagia solo i “repubblicani” fascisti, ma anche i “democratici” buoni. Hanno ragione quei compagni che nel valutare il movimento contro la guerra negli USA ricordano che il 30% degli statunitensi non ha mollato all’attacco mediatico ed ha mantenuto ferma la sua posizione contro la guerra. Però il 70% è più dei soli repubblicani e inoltre la guerra ha sempre fatto lievitare i consensi a chi la faceva (tanto è vero che talvolta la scelta dei tempi per certe iniziative militari veniva fatta con un occhio alle scadenze elettorali).
Infine, bisognerebbe capire questo 30% che posizioni abbia su altre questioni (per esempio sull’attacco all’Afghanistan, visto che Bush è arrivato ad indici di popolarità del 90%, cioè mai visti prima, dopo l’11 settembre).
Si è fatto un gran parlare della famosa “teoria dell’attacco preventivo”. Anche il papa l’ha condannata.
Ma questa teoria (peraltro assai vecchia nella storia), per quanto riguarda gli USA, è in fase di elaborazione/gestazione da molti anni e non è affare di una particolare amministrazione o un’altra.
L’idea tutta romantica poi che una strategia militare “di attacco preventivo” debba essere criticata in quanto non conforme al diritto internazionale è davvero divertente. Come se tutte le guerre non si facessero in deroga al “diritto internazionale” o proprio per riscrivere tale “diritto”. Come se il “diritto internazionale” vigente non si fosse imposto attraverso l’uso della guerra e della violenza!
E ancora più “divertente” è appellarsi ad un “diritto” internazionale nel nome del quale si compiono operazioni di “polizia internazionale” ed embarghi che fanno morire milioni di persone…
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I limiti di azione pratica del movimento pacifista derivano dai suoi limiti teorici.
Più che una analisi della guerra, delle sue ragioni, delle sue dinamiche, delle sue implicazioni (seguendo il suggerimento di Lenin contenuto in Il socialismo e la guerra, opuscolo scritto in piena prima guerra mondiale – nel 1915 – subito prima della Conferenza di Zimmerwald) i pacifisti si limitano a deplorarne gli effetti sulle popolazioni e a tentare di esorcizzarla attraverso delle specie di gigantesche “danze della pioggia” (le oceaniche manifestazioni) o veri e propri totem (le bandiere della pace).
All’interno del movimento contro la guerra c’era chi si appellava all’ONU, chi si appellava al papa, persino chi si appellava a Chirac o Putin… senza rendersi conto che l’ONU, il Vaticano, i vari paesi imperialisti “oppositori” degli USA si schieravano contro l’unilateralità degli interventi e non contro gli interventi (ai quali del resto hanno quasi sempre preso parte).
Il fatto è che, più che opporsi all’intervento, francesi, tedeschi, russi… sono stati esclusi dall’intervento perché questo aveva l’obbiettivo dell’occupazione diretta da parte degli USA. La guerra del 1991 non aveva questo obbiettivo ed infatti tutto il mondo è stato chiamato a partecipare (e a sostenere per il 70% le spese militari).
Non c’è bisogno di sottolineare l’assoluta arbitrarietà e inconsistenza della questione del pericolo delle “armi di distruzione di massa” (WMD, Weapons of Mass Destruction). Sia Bush che Blair sono nell’occhio del ciclone dei mass media dei rispettivi paesi per le bugie e le false “prove” inventate a giustificazione dell’attacco. Che si trattasse di una gigantesca montatura non è mai stato in discussione.
Del resto alcuni “analisti” molto tempo prima dell’attacco suggerivano esplicitamente il rischio che questo attacco avrebbe provocato una reazione ostile da parte di alcuni paesi europei:
Barry R. Schneider, Radical Responses to Radical Regimes: evaluating preemptive counter-proliferation, Washington, DC: National Defense University Institute for National Strategic Studies, McNair Paper 41, May 1995.
Citato in First Strike Guidelines: the case of Iraq, Project on Defense Alternatives Briefing Memo #25,Charles Knight, 16 September 2002, (revised and updated 11 October 2002).
Questo PDA (Project on Defense Alternatives) è una delle centinaia di strutture legate alla NATO e alla difesa USA. Interessanti alcuni “studi” che pubblica sul proprio sito Internet [http://www.comw.org/pda/index.html].
Ce n’è uno, ad esempio, intitolato Bush Administration Policy Toward Europe: Continuity and Change, sempre di Knight la cui presentazione è
“The demise of the Oslo peace process in 2001 and a likely renewal of intense war with Iraq in 2002 or 2003 will play very differently on each side of the Atlantic. In certain circumstances the differences might be so great that European powers would feel compelled to reject American leadership and pursue a separate course” che a grandi linee suona così: “La dismissione del processo di pace di Oslo nel 2001 e ravvivarsi dell’ipotesi di guerra in Iraq nel 2002 o nel 2003 saranno percepiti in modo molto diverso dalle due sponde dell’Atlantico. In alcuni casi le differenze potrebbero essere così marcate da spingere le potenze europee a rigettare la leadership americana e a dare vita ad un politica autonoma”. Un testo scritto nell’agosto 2002, ma assai lungimirante data la posizione assunta recentemente da Francia e Germania sulla guerra all’Iraq! (Pag. 31, nota 45)
Da queste e da tutta una serie di altre considerazioni era possibile derivare la conclusione che il vero obbiettivo dell’aggressione all’Iraq fosse principalmente quello di colpire gli interessi di alcuni paesi imperialisti europei (e non solo) in quell’area per ridimensionarne le velleità sullo scacchiere internazionale. Anche per questa ragione quella contro l’Iraq era da definire come aggressione imperialista.
L’incomprensione della natura dell’aggressione, delle sue ragioni di fondo, delle necessità inderogabili a cui essa in qualche modo tentava di rispondere (cioè la progressiva perdita di egemonia USA in campo economico e valutario) ha fatto sì che nel movimento contro la guerra le parole d’ordine “egemoni” fossero parole d’ordine assolutamente velleitarie del tipo “Fermare la guerra”, “Fermare la guerra prima che la guerra inizi” e così via…
In “answer” ci siamo soffermati sul tema della impossibilità oggettiva di fermare una azione di forza senza mettere in campo una forza almeno uguale e contraria.
Anzi, come ben analizzato da alcuni compagni[4] quella che noi definiamo “pace” è semplicemente il prodotto transitorio di un equilibrio di forze senza il quale ha forse senso “sperare”, ma certamente ha poco senso “confidare”, nella “pace”.
In una situazione di squilibrio di forze (e mai come oggi esiste un fortissimo squilibrio militare tra gli USA e il “resto del mondo” soprattutto in quanto il “resto del mondo”, anche laddove oggi si coalizzasse in funzione anti-USA, non sarebbe mai altrettanto omogeneo) la tendenza dell’amministrazione USA ad usare la propria supremazia militare per riconquistare o rafforzare la propria egemonia economica è troppo forte per cedere alle richieste, neppure tanto insistenti, di manifestanti armati di bandierine[5].
L’idea, poi, di affidare ad altri imperialisti (europei, asiatici o euro-asiatici) il destino della resistenza contro l’imperialismo USA è un abbaglio su cui non varrebbe la pena neppure di soffermarsi se non fosse parzialmente ripreso addirittura da noti “maitre a penser” del “calibro” di Toni Negri, le cui tesi costituiscono la base ideologica di spezzoni “importanti”[6] del movimento contro la guerra (come ad esempio i cosiddetti “disobbedienti”) e che sono state adottate persino all’ultimo congresso del PRC.
La coalizione pacifista e antirazzista americana ANSWER è stata – ed è – l’incarnazione vivente di quella incomprensione di cui parlavamo poc’anzi sebbene rappresenti una espressione di quel pacifismo onesto e combattivo, per certi aspetti radicale, che in diverse circostanze storiche ha dato un importante contributo ai movimenti di lotta contro le guerre. In questo senso, si tratta di una espressione ben diversa da quella posticcia dei vari centro-“sinistri” italiani, verdi tedeschi, democratici americani… responsabili della condivisione politica e militare di altre aggressioni imperialiste; per questa ragione meritava di essere presa in considerazione.
Nel nostro opuscolo abbiamo in sostanza valorizzato il ruolo di ANSWER dicendo però che la sua proposta politica, come quella di una qualsiasi altra coalizione pacifista, non poteva essere la soluzione al problema del “fermare la guerra” e della “pace”.
E allora: qual è questa soluzione?
Moltissimi compagni ritengono che oggi il nemico principale sia l’imperialismo USA e che la condizione necessaria anche solo per immaginare una trasformazione dei rapporti di forza tra le classi sia quella di una sua sconfitta epocale.
La storia ci insegna che per quanto invincibile in una certa fase storica nessun potere si è mantenuto all’infinito tale. Così non è stato per nessuno degli imperi del passato remoto e di quello recente.
Non si vede perché lo stesso non debba accadere agli USA.
Però c’è modo e modo di perdere la propria supremazia.
Primo. Se un imperialismo cade perché un altro imperialismo è sorto ed è diventato più forte dove sta il vantaggio della sconfitta del primo?
Se la sconfitta degli USA fosse il prodotto della vittoria dell’UE cosa avremmo da brindare?
Secondo. Se un imperialismo affonda per implosione (un po’ come il vecchio impero romano, almeno così si dice) siamo proprio certi che non tenderà a portarci tutti all’inferno con lui invece di lasciarci la libertà di costruire una nuova società? Siamo davvero certi che la sconfitta degli USA sarà altrettanto indolore di quella dell’URSS (tanto per fare un esempio)?
Terzo. Immaginiamo di favorire (alla Negri ed altri, per intenderci) la formazione di un polo imperialista europeo capace di competere a livello politico-militare oltre che a livello economico-monetario con gli USA nell’ottica di tentare di ristabilire l’equilibrio e scongiurare la guerra (ammesso che gli USA non scatenino una guerra frontale all’Europa prima che questo possa realizzarsi); ma se nello stesso tempo l’Europa perseguita tutte le opposizioni politiche e sociali interne, introduce “liste nere”, trasferisce ricchezza dai lavoratori ai capitalisti per sostenere la competizione, smantella le conquiste sociali per destinarle al proprio riarmo, mette in galera l’opposizione di classe, elimina alcune garanzie minimamente democratiche… avremmo davvero fatto un passo in avanti? E’ inserendoci nella spirale della competizione politico-militare “globale” sostenendo un imperialismo contro l’altro che troviamo la strada per la liberazione, per l’emancipazione, per il rovesciamento dell’imperialismo nel suo complesso?
Senza l’azione rivoluzionaria cosciente delle masse proletarie nord-americane è pensabile una transizione verso un modello progressivo di rapporti sociali e di produzione?
In moltissime delle analisi che circolano nel movimento e anche nell’area antimperialista le masse proletarie USA sono semplicemente inesistenti sebbene rappresentino oggettivamente un crogiolo esplosivo di contraddizioni, talvolta assai più “polari” in termini culturali e sociali che in tanti altri paesi.
Gli USA sono stati un laboratorio di molte sperimentazioni e il fatto che non si sia affermato storicamente un partito “comunista” stile PCI non necessariamente è una cosa negativa.
Non è da sottovalutare che molte delle cose più interessanti che sono avvenute nell’ambito del movimento anti-capitalista negli ultimi anni hanno trovato negli USA la loro nascita o il loro sviluppo.
Noi non abbiamo mai esaltato Seattle e riteniamo che ci fosse assai meno da esaltare di quanto invece non si sia esaltato, tuttavia quel movimento è stato oggettivamente un elemento di innovazione e di “dinamizzazione” dello scenario politico del movimento…
Il problema è che i sedicenti antimperialisti, invece di proporsi come prospettiva hanno preferito scegliere alternativamente la strada dello “chisenefreghismo” o quella del “baciaculismo”.
Lasciamo perdere, poi, i sedicenti “autentici” comunisti…
Nella strategia USA l’aspetto del “fronte interno” è assolutamente centrale.
Non bisogna dimenticare infatti che la prima misura adottata dopo l’11 settembre è stata l’introduzione dell’USA Patriot Act, cioè di un insieme di pesantissime restrizioni agli stessi diritti civili e “democratici” (tra l’altro ANSWER nasce proprio all’indomani dell11 settembre per ostacolare la strada intrapresa dall’amministrazione Bush in questo senso).
Noi, a differenza di tanti altri, non ci siamo mai addentrati troppo sul “chi” e il “come” dell’11 settembre. Un po’ perché non avevamo tutti gli elementi per formulare un ragionamento serio, un po’ perché ci è sempre sembrato non troppo importante.
Di sicuro, noi riteniamo gli Stati Uniti assolutamente capaci, tecnicamente e “moralmente”, di eseguire una operazione come quella delle Twin Towers e del Pentagono. Anzi, non escludiamo che l’abbiano davvero compiuta, o quantomeno lasciata compiere, proprio loro, più o meno direttamente.
E, altrettanto di sicuro, hanno utilizzato quell’evento per scatenare una offensiva politico-mediatico-militare che stavano covando da tempo (per sincerarsene basta andarsi a rileggere i memoriali e le analisi che molti degli attuali e autorevoli membri dell’amministrazione Bush facevano quando ancora non facevano parte del governo[7]).
Siccome nessuno si beve la storia della “guerra al terrorismo” e tenuto conto che la strategia USA viene “da lontano” è ovvio che la storia del terrorismo è solo una scusa (una “buona scusa”, bisogna dirlo, per far presa su quella parte dell’opinione pubblica interna e internazionale , fondamentalmente le “classi medie”, la conquista del cui consenso rappresenta il via libera di fatto a qualunque operazione) risulta che ci troviamo di fronte ad una situazione particolare che necessita una capacità di analisi molto maggiore di quella che fino ad oggi siamo stati in grado di mettere in campo.
Qui gli slogan servono a poco.
Anche noi ne usiamo, ovviamente, per la ragione per cui uno slogan è più facile da digerire per chi è a digiuno di analisi, di teoria e anche delle sole informazioni.
Ma quando affrontiamo le cose in sede di approfondimento gli slogan non bastano più.
Le cose sono oggettivamente complesse. E semplificare troppo cose complesse le trasforma in cose banali, non in cose semplici.
Abbiamo dalla nostra un metodo di analisi, ma non possiamo ad ogni passo guardare indietro per trovare in qualche “libretto rosso” o in qualche “bibbia rossa” le risposte a tutte le domande che la realtà ci pone quotidianamente. In questo modo trasfiguriamo il marxismo nel suo contrario, cioè in una dottrina metafisica e metastorica, in un complesso di dogmi astratti.
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Sulla questione delle difesa ad oltranza si è sviluppato in Italia un dibattito assurdo.
Riccardo Barenghi, direttore del “Manifesto” scrive un articolo in cui si domanda (e domanda) se è giusto sperare nella resistenza ad oltranza degli iracheni all’aggressione americana. Ne nasce una polemica in cui molti esponenti del centro-“sinistra” dichiarano la loro speranza che, visto che la guerra è ormai iniziata, è bene che “duri il meno possibile” (naturalmente per limitare il numero delle vittime, per carità).
Da alcuni settori più “radicali” del movimento si insorge contro i centro-“sinistri” per sostenere il diritto degli iracheni a difendersi.
Ecco un paradosso.
Come al solito, settori radicali piccolo-borghesi sostengono con tutte le loro forze il martirio dei popoli aggrediti dall’imperialismo salvo fare poco o nulla per impedirlo.
Gli iracheni hanno fatto, nella situazione data, l’unica cosa che potevano fare.
Hanno “assorbito” lo “shock and awe” frenandolo solo per il tempo necessario a organizzare la “ritirata”; hanno fatto prendere posizione alle truppe anglo-americane e hanno cominciato con la guerriglia nelle città con uno stillicidio che produce il terrore dei militari, costretti a muoversi in città ostili che non possono più radere al suolo (standoci dentro).
Quello che è effettivamente successo era una cosa talmente ovvia che anche noi, in “answer”, l’avevamo prevista (ma ovviamente non solo noi).
“Riteniamo improbabile che l’avanzata delle truppe USA possa essere ostacolata in maniera significativa dall’esercito irakeno e non crediamo che possa farlo, almeno nell’immediato, neppure la resistenza popolare.
Auspichiamo un nuovo Vietnam, ma l’Iraq non è il Vietnam e l’oggi non sono gli anni ‘60-‘70. In un paese come l’Iraq, la resistenza non può avvenire che all’interno delle città, attraverso la guerriglia urbana”
Invece, vagheggiare la “difesa ad oltranza” contro un esercito che in nessun modo poteva essere fermato in campo aperto e che avrebbe messo in moto una forza distruttiva ancora maggiore in caso di maggiore resistenza, salvo poi parlare di “tradimento” dell’esercito e del regime (in Italia abbiamo avuto diversi esempi di questa assurda tesi), era davvero il sintomo del pericoloso delirio di “antimperialisti da operetta”.
Come andranno poi le cose lo vedremo.
Che l’Iraq possa diventare effettivamente come il Vietnam è tutto da dimostrare. Saddam Hussein (o chi per lui) non è Ho Chi Min, la situazione storica è completamente diversa e diversa è anche, se vogliamo, persino la conformazione idro-geologica del paese.
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In “answer” abbiamo individuato come obbiettivo prioritario e praticabile degli anti-imperialisti nel movimento contro la guerra quello di “raccogliere e formare forze rivoluzionarie”, cioè usare l’attenzione che gli stessi mass-media ponevano sull’intervento militare per sedimentare nel modo più profondo la coscienza che sono l’imperialismo e la sua crisi economica-politica che rigenerano costantemente la guerra più che le manie di grandezza dell’amministrazione Bush.
Anche per questa ragione riteniamo un limite quello di indirizzare tutta la nostra battaglia conto “l’America” solo perché gli USA fanno quello che l’Europa o la Russia o la Cina non hanno la forza di fare ma che fanno ogniqualvolta ne hanno la possibilità.
Il primo passaggio di questa “raccolta e formazione” di forze (in prospettiva) rivoluzionarie è quello della irreversibile rottura epistemologica con il pacifismo (“non bisogna essere pacifisti”) e con l’opportunismo (“non bisogna farsi dirigere dai pacifisti”). Senza questa rottura si va solo a rimorchio e non si porta avanti alcun autonomo punto di vista antimperialista.
In realtà, anche questa volta, si è confermata una volta di più la regola che comitati e coordinamenti di antimperialisti, tavole rotonde e quadrate, funzionano benissimo quando il movimento non c’è (perché sono il luogo dove cercare contatti e farsi conoscere) ma vengono spazzati via appena il movimento si mette in moto (perché il movimento diventa l’epicentro della raccolta di contatti e di conoscenze).
Il problema è che le forze antimperialiste (e quelle comuniste) nel nostro paese in questa fase non sono minimamente credibili (soprattutto per il loro sbriciolamento, per la loro autoreferenzialità, per la loro limitata comprensione del mondo…) ed infatti non sono minimamente credute.
Andare alla spicciolata nel movimento a cercare di raccogliere in fretta e furia consensi e simpatie si rivela obbiettivo rigorosamente impraticabile tanto è vero che – salvo casi del tutto particolari – le fasi “di movimento” si rivelano poco proficue per il rastrellamento di nuovi “adepti”.
Il punto che a noi sembrava importante sottolineare è quello che un’area antimperialista che fosse stata capace di muoversi in modo coordinato avrebbe potuto guadagnarsi una agibilità e una autorevolezza dentro il movimento che poi sarebbe stata un patrimonio per tutte le singole espressioni di quest’area.
Obbiettivo (dal nostro punto di vista) fallito ancora una volta.
Ciò non toglie che l’esigenza di costruire un’area antimperialista organizzata con un programma di lotta comune resti un obbiettivo fondamentale.
Malgazonta, 17 agosto 2003
Note
[1] E diciamo “aperta” perché esistono decine di “guerre guerreggiate” cui i paesi imperialisti partecipano o hanno partecipato direttamente o indirettamente con “uomini e mezzi”. Basti pensare ai vari Plan Colombia…
[2] Specifichiamo la mancanza di autorizzazione non come una mancanza di legittimità – che non riconosciamo minimamente ad un organismo fantoccio come l’ONU – ma bensì proprio per sottolineare quale considerazione USA e Gran Bretagna avessero mai avuto nei confronti dell’ONU medesima e quale attitudine avrebbero avuto a prendere in considerazioni sue risoluzioni contrarie ai loro interessi.
[3] La FAO parlava di 1 milione di morti già nel 1995: “Più di un milione di iracheni sono morti – 567.000 dei quali bambini – come conseguenza diretta delle sanzioni economiche …”, FAO, 1995. Cit. in Gli effetti delle sanzioni, Campagna per la dissociazione unilaterale dalle sanzioni economiche all’Iraq, promossa da Un ponte per… e Comitato Golfo.
[4] N+1, La politiguerra USA, giugno-luglio 2003
[5] A questo proposito non sarebbe superflua una riflessione sull’efficacia della grande manifestazione di massa come strumento di lotta. In Italia, ad esempio, proprio il movimento contro la guerra e quello per la difesa dell’art.18 hanno mostrato che le rituali manifestazioni tendono a diventare al tempo stesso più grandi e più impotenti.
[6] Interessante in questo senso l’intervento pubblicato sul sito “Guerra sociale. Critica libertaria al capitalismo” (http://www.guerrasociale.org/negri.htm) nel quale si mette in evidenza, tutto sommato correttamente, seppur brevemente, il ruolo che svolgono i “disobbedienti” – e più in generale il movimento dei Social Forum -.
[7] Project for a New American Century, Carnegie Endowment, Policy Review, American Enterprise Institute, Institute for National Strategic Studies, National Military Strategies…