Antiper | Segni sul conto…
Pubblicato in Antiper, La grossa crisi, Raccolta di interventi sulla crisi economica, politica e sociale del capitalismo pubblicati tra dicembre 2011 e aprile 2012, EBOOK, 52 pag., COPERTINA.
Una variante di tesi sotto-consumista è quella secondo cui la crisi in atto deriverebbe dai bassi salari solo indirettamente. In questa versione si ipotizza che siano diminuiti i salari, ma che non siano diminuiti i consumi e che questo avrebbe condotto alla “bolla del credito” (che nel 2008 è parzialmente esplosa nella variante dei cosiddetti “mutui subprime”).
Si sostiene che la riduzione salariale che è avvenuta negli ultimi decenni (soprattutto negli USA) avrebbe già da tempo provocato un crollo dei consumi – e, “per conseguenza”, dei profitti – se in questi anni non si fosse avviata una fase di “credito facile” [2] capace di permettere ai consumi di restare alti nonostante la caduta dei redditi reali
“Se una simile caduta dei salari ha rialzato le sorti del profitto (e questo è stato o.k. per i capitalisti), essa ha però provocato un vuoto di domanda aggregata, dato che con quelle retribuzioni non potevano che corrispondere consumi al ribasso (e questo non è più o.k.)” [3]
In realtà, anche la seconda parte potrebbe benissimo essere “ok” perché il presunto “vuoto” [4] di domanda aggregata derivante dai redditi da lavoro (in diminuzione) potrebbe benissimo essere compensato dal “pieno” di domanda aggregata derivante dai redditi provenienti dallo sfruttamento dell’altrui lavoro (in aumento) e anche dalla domanda di nuovi mezzi di produzione messi in moto con le risorse risparmiate sui lavoratori diretti [5].
“Che fare allora per sostenere la domanda, così che la maggior produzione trovasse comunque corrispettivo d’acquisto adeguato? La soluzione, uscita dagli Stati Uniti all’alba del XXI secolo, è stata il credito al consumo privato così che, nonostante i minori salari, le famiglie potessero addirittura accrescere il livello di spesa rivolgendosi alle banche che s’erano messe a concedere aperture di credito indiscriminate, anche sorvolando sulle garanzie necessarie. L’idea era geniale: quei lavoratori a più basso reddito avrebbero corrisposto addirittura degli interessi pur di consumare oggi le merci che s’impegnavano a pagare domani. È questa l’interpretazione (che accomuna elementi d’analisi marxista, sraffista, istituzionalista e keynesiana) sull’origine della Grande Crisi dei Mutui risuonata al convegno di Siena, ottimamente organizzato da Emiliano Brancaccio, su La crisi globale. Contributi alla critica della teoria e della politica economica (26-27 gennaio 2010)”. [6]
La ricostruzione emersa al Convegno di Siena è piuttosto discutibile perché non si può fare di tutto un credito un fascio; un conto è concedere prestiti per l’acquisto di una casa a soggetti a rischio cartolarizzando il proprio credito e cedendolo a prezzo inferiore al valore nominale per scaricare il rischio di insolvenza, confidando che per un po’ il prezzo degli immobili tenda a salire (altrimenti chi se lo prende il rischio?).
Ma si può concedere, allo stesso modo, credito per comprare un’auto o un abito? Come si impacchetta un viaggio o uno smartphone o la spesa alimentare… dentro un “titolo salsiccia”? E’ evidente che c’è credito e credito.
E’ certamente vero che negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una forte polarizzazione sociale internazionale [7] (entro i paesi e tra i paesi) che ha fatto crescere il ricorso al credito da parte delle (cosiddette) “famiglie” [8], le quali riescono sempre meno a far fronte a specifici pagamenti a causa della riduzione progressiva del proprio reddito [9]. D’altra parte, sul credito ricevuto (lo riconosce anche Brancaccio) si devono pagare gli interessi [10]: quindi, ogni acquisto a credito è un acquisto a prezzo dilazionato, ma maggiorato. Di conseguenza, il ricorso al credito può essere utile nel breve termine (per far fronte ad acquisti non realizzabili con il proprio risparmio disponibile), ma nel medio termine costituisce un ulteriore peggioramento del bilancio familiare, tenuto anche conto che prestiti e interessi, prima o poi, bisogna restituirli, visto che le banche non sono organizzazioni “no profit” dedite al sostegno al reddito delle famiglie povere per tenere alta la domanda aggregata.
Un conto è gestire/cedere un rischio, anche elevato, di insolvenza. Un altro contro è gestire/cedere una certezza, di insolvenza. Chi se la compra? Chi cartolarizza/cede il proprio “credito a rischio” sarà anche furbo, ma non sono tutti deficienti quelli che lo comprano [11].
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“Il punto di partenza è la debolezza del movimento dei lavoratori, che ha reso possibile un mondo di bassi salari. D’altra parte, il mondo è strutturalmente instabile, come stiamo cominciando a sperimentare. Oggi ogni paese tenta di tenere basso il livello dei salari, facendo così diminuire la domanda interna, e deve trovare mercati esteri per i propri prodotti. Questo meccanismo ha funzionato negli ultimi 10 anni perché gli Stati Uniti hanno funzionato come “aspiratutto” per il prodotto in eccesso degli altri paesi. E non perché i salari dei lavoratori americani fossero alti, ma per effetto dell’accumulo di un enorme debito privato negli Stati Uniti. Questo sistema ha portato i lavoratori a pagare i mutui che avevano con nuovi prestiti e a pagare gli interessi su questi prestiti con nuove carte di credito” [12].
In realtà, il punto di partenza non è affatto la debolezza del movimento dei lavoratori dal momento che è necessario domandarsi perché il movimento dei lavoratori è debole. E il movimento dei lavoratori è debole per una ragione oggettiva (la crisi – e non solo quella finanziaria attuale, ma anche quella di lungo periodo – riduce il potere contrattuale dei lavoratori che colpisce) e per una ragione soggettiva (le principali organizzazioni politiche, sindacali e sociali del movimento dei lavoratori [13] sono organizzazioni completamente addomesticate ed integrate nel sistema capitalistico, ivi comprese quelle che piacciono tanto a Brancaccio).
Alla domanda “come mai il reddito medio dei lavoratori diminuisce?” alcuni rispondono: che è colpa del “neo-liberismo” e dei padroni troppo ingordi. Ma questa risposta non è sufficiente perché i padroni sono sempre ingordi di profitto e, potendo, vorrebbero sempre pagare i lavoratori il meno possibile, “neo-liberismo” o meno.
Ed inoltre: possiamo davvero pensare che la semplice diffusione di un pensiero economico possa determinare l’evoluzione della realtà? In un mondo idealistico rovesciato – o alla facoltà di Economia – forse sì; ma nel mondo reale certamente no, perché nel mondo reale vale esattamente il contrario e sono le teorie economiche “alla moda” che seguono l’andazzo politico ed economico dominante.
Alla domanda di cui sopra (“come mai il reddito medio dei lavoratori diminuisce?”) dobbiamo rispondere in un altro modo. Prima di tutto ricordando che, essendo il capitale un rapporto sociale, è il rapporto di forza tra le classi sociali che ne determina il larga misura l’andamento: si potrebbe dire: sono gli uomini che fanno la propria storia. Ma – come ricorda Marx – gli uomini fanno la propria storia entro un ben preciso contesto storico
“Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione” [14]
I “fatti” di cui parla Marx sono caratterizzati oggi dalla crisi (si potrebbe dire “dal tradimento”) delle organizzazioni storiche del movimento dei lavoratori e dalla crisi generale del capitalismo con le connesse modificazioni dello scenario geo-politico (delocalizzazioni, migrazioni, ecc…). Sono questi gli elementi principali che hanno indebolito i lavoratori nella contrattazione del proprio salario (che soprattutto per queste ragioni ha preso a scendere).
A rigore, si dovrebbe dire che le organizzazioni storiche del movimento dei lavoratori non hanno quasi mai davvero “tradito” perché molto raramente sono davvero state dalla parte dei lavoratori. Diciamo magari che, con il passaggio dalla fase di crescita a quella di maturità/sovrapproduzione e con le conseguenti contromisure adottate dal grande capitale (delocalizzazioni e innovazione tecnologica labor saving, innanzitutto), hanno gradualmente perso la capacità di proporsi come intermediarie tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro. E’ quello che in altro contesto abbiamo definito il “ciclo sgonfiato” [15].
In definitiva, pur essendo una schematizzazione, è più corretto dire che è la crisi che determina la diminuzione del salario e non il viceversa. La differenza è, evidentemente, rilevante; sia in termini di analisi sia, soprattutto, in termini di prefigurazione degli scenari di breve-medio termine (visto che nel lungo termine saremo tutti morti, come ebbe a dire efficacemente un economista molto in auge tra gli “anti-neo-liberisti”).
Note
[2] L’esempio sarebbe proprio quello dei mutui subprime: erogazione di credito a soggetti ad alto rischio, impacchettamento del rischio e sua cessione attraverso “portafogli” composti da titoli “buoni” (cioè con alti rating) e titoli “tossici”.
[3] Giorgio Gattei, La Grande Crisi degli anni ’00, in Contropiano n.1, 2010
[4] Si osservi che Gattei parla di vuoto (“gap” in inglese). Per una critica delle teorie sotto-consumistiche (basate sul cosiddetto “demand gap”) cfr Anwar Shaikh, An Introduction to the History of Crisis Theories, 1978, U.S. Capitalism in Crisis, U.R.P.E., New York)
[5] La maggiore domanda di mezzi di produzione finisce per tradursi in una maggiore domanda di “lavoro vivo” necessario per produrre questi mezzi di produzione (chiamiamoli lavoratori “indiretti”) e quindi in un aumento della domanda aggregata per beni di consumo di prima necessità che anch’esso compensa il “demand gap” di Gattei.
[6] Ibidem.
[7] Rif. su Income distribution, Gini coefficient, OECD Growing unequal…
[8] Prevalentemente “occidentali”, anche se, con il cosiddetto microcredito, si cerca di prendere all’amo anche i paesi più poveri. Altro che “banche etiche”…, non è certo per caso che il banchiere Muhammad Yunus ha ricevuto il Premio Nobel).
[9] La riduzione del reddito fa diminuire il risparmio delle famiglie che non “mettono da parte” e ricorrono ai prestiti quando devono far fronte a certi pagamenti. Prima le famiglie si facevano prestare denaro per acquisti molto importanti (la casa, innanzitutto, o un’auto). Pian piano i prestiti vengono contratti anche per affrontare l’acquisto dei libri scolastici dei figli o per una piccola vacanza o per un trasloco ecc…).
[10] Acronimi come TAN, TAEG, Euribor… sono ormai entrati nel lessico comune.
[11] Tenuto anche conto del fatto che la diminuzione di risparmio e l’aumento dell’indebitamento delle “famiglie” fanno sì che sia sempre meno possibile scaricare il rischio su di esse (in veste di “piccoli risparmiatori”), alla fine della catena (e che dunque buona parte del rischio si deve scaricare su qualche istituto di credito. E infatti, dal crack del 2007-2008, sono fallite centinaia di banche di piccola, medie e grandi dimensioni),
[12] Intervista a Emiliano Brancaccio di Waldemar Bolze per Junge Welt, 9 ottobre 2008, pubblicata sulla Monthly Review con il titolo The Global Financial Crisis has a social cause, too: the world of low wages (Traduzione Antiper 2010).
[13] Nel linguaggio di Erik Olin Wright possiamo parlare di “potere associativo” (associational power) e “potere strutturale” (structural power) dei lavoratori: “In questo articolo, la nostra attenzione si concentra soprattutto su ciò che definisco potere associativo della classe operaia – le varie forme di potere che derivano dalla formazione di organizzazioni collettive dei lavoratori. Ciò che include sindacati e partiti, ma anche una varietà di altre forme, come consigli di fabbrica, forme di rappresentanza istituzionale dei lavoratori nei consigli di amministrazione dentro situazioni di compartecipazione o anche, in talune circostanze, organizzazioni comunitarie. Il potere associativo può essere messo a confronto con quello che può essere definito come potere strutturale della classe operaia – ovvero il potere che deriva dalla semplice collocazione dei lavoratori all’interno del sistema economico. Il potere che deriva direttamente dalla rigidità del mercato del lavoro o dalla posizione strategica di un determinato gruppo di lavoratori all’interno di un settore industriale strategico costituiscono esempi di potere strutturale” (Erik Olin Wright, Working-Class Power, Capitalist-Class Interests, and Class Compromise, University of Wisconsin, Trad: Antiper 2011).
[14] Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.
[15] Antiper, Il ciclo sgonfiato.