Anwar Shaikh | Il capitalismo è incapace di auto-espansione?
Tratto da Anwar Shaikh, Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi, in U.S. Capitalism in crisis, U.R.P.E New York, 1978, Traduzione 2012 a cura di Antiper
Sin dall’inizio, la visione del laissez-faire di un capitalismo armonioso e privo di crisi è stata tormentata da una altrettanto vecchia e persistente visione di un capitalismo strutturalmente incapace di accumulazione. [In questa visione] si assume che le forze interne del sistema possano al più riprodurlo in modo stazionario: ma, se stagnante, il capitalismo degenera rapidamente. La competizione mette gli uni contro gli altri, e non c’è crescita che qualcuno possa realizzare se non a discapito di qualcun altro. Capitale contro capitale, lavoratore contro lavoratore, classe contro classe. O l’antagonismo diventa troppo intenso e il sistema esplode oppure degenera in una società (come la Cina di una volta) nella quale una ristretta élite di potere grava su una condizione di povertà di massa e di miseria umana. In entrambi i casi, un capitalismo che non accumula non dura a lungo.
È interessante osservare come questo argomento a confutazione si basi sullo stesso assunto originario della teoria che attacca. La teoria ortodossa ha sempre sostenuto infatti che lo scopo finale di tutta la produzione capitalistica è quello di produrre per il consumo: ciò che non viene consumato viene ora reinvestito nella produzione allo scopo di garantire un consumo futuro. In tutti i casi è il consumo che detta legge. Nell’oscurità della teoria sotto-consumista, questa stessa nozione dovrebbe diventare un’arma per attaccare il capitalismo.
Attraverso la lunga e complessa storia di questo ramo di teoria della crisi, ricorre di continuo il seguente argomento: sì, il regolatore finale di tutta la produzione è nei fatti il consumo, attuale o futuro; d’altra parte, la produzione capitalistica non risponde ai bisogni, ma al potere di acquisto; non alla domanda, ma alla domanda “effettiva” (cioè a dire, la domanda solvibile). E tale è la natura contraddittoria della produzione capitalistica che, ove lasciata a sé stessa, è incapace di generare sufficiente domanda effettiva per supportare l’accumulazione. I meccanismi intrinseci del sistema, in altre parole, tendono a condurlo verso la stagnazione: esso necessita pertanto di fonti esterne di domanda effettiva – esterne ai suoi meccanismi fondamentali – al fine di continuare a crescere.
A. Il concetto di “demand gap”
Negli ultimi 150 anni, ci sono stati molti tentativi di definire l’esatta natura del problema del sottoconsumo. Nonostante la varietà delle formulazioni è comunque abbastanza sorprendente quanto sia costante la nozione secondo cui è la domanda per beni di consumo il regolatore ultimo dell’intera produzione.
Supponiamo di dividere tutta la produzione sociale in due rami principali o “Sezioni”.
La Sezione I produce mezzi di produzione (materie prime, carburante, impianti, attrezzature, ecc.) mentre la Sezione II produce beni di consumo e servizi (cibo, abbigliamento, divertimento ecc.).
Il principio fondamentale della teoria sotto-consumistica è, quindi, che la domanda di beni di consumo e servizi determina non solo il livello di produzione della Sezione II (beni di consumo), ma anche quello della Sezione I (mezzi di produzione). La produzione nell’industria dei mezzi di produzione è alla fine regolata dalle richieste dell’industria dei beni di consumo: la domanda di mezzi di produzione è perciò “derivata” dalla domanda per beni di consumo.
Si osservi che questo non afferma semplicemente che la produzione della Sezione II influenza la produzione della Sezione I e viceversa. Dice qualcosa di molto più forte e cioè che la causalità è unidirezionale, che la Sezione II dirige e la Sezione I lo segue.
Parallelamente a questa nozione troviamo quella della circolazione come di un processo in base al quale il prodotto sociale viene ripartito tra i lavoratori e i capitalisti.
Così, del prodotto sociale totale, una parte è concepita come sostituzione delle risorse impiegate nel produrlo e la parte rimanente, il prodotto netto, è concepita come disponibile per la “redistribuzione” tra lavoratori e capitalisti.
Un’analoga dicotomia viene fatta dal lato del reddito. [Del ricavato] delle vendite di tutte le aziende, si dice che una quota di denaro venga accantonata per sostenere le spese in mezzi di produzione sostenute durante la produzione. Il resto è il margine operativo netto delle aziende che viene diviso tra salari e profitti. Questo reddito netto, che gli economisti ortodossi chiamano reddito nazionale netto, sta all’origine della domanda effettiva.
La produzione netta comporta pertanto due lati. Da un lato abbiamo beni e servizi e dall’altro lato abbiamo il reddito netto in denaro che è uguale alla somma di salari e profitti: offerta da una parte e domanda effettiva dall’altra.
Possiamo adesso esporre il problema fondamentale della teoria sotto-consumista. I lavoratori di solito spendono tutti i loro salari. Essi perciò “ri-acquistano” una porzione del prodotto netto, al suo prezzo normale, ma poiché essi non ricevono mai l’intero reddito netto, non possono mai riacquistare l’intero prodotto netto. Il consumo dei lavoratori lascia sempre un “demand gap”; inoltre, più bassa è la quota di salario, più grande è il “demand gap”.
A questo punto dell’analisi il surplus del prodotto è ancora da vendere, e il reddito del capitalista – il profitto – deve ancora essere speso. Se surplus e profitto potessero accoppiarsi, tutto il prodotto sarebbe venduto e il “demand gap” completamente colmato. Ma a quali condizioni questo può accadere?
I primi sotto-consumisti tendevano a concepire il prodotto netto come composto solamente da beni di consumo. Data la loro premessa fondamentale che la produzione della Sezione I è regolata dalle richieste della Sezione II, essi finivano inevitabilmente per ritenere che in qualsiasi momento la produzione della Sezione I fosse appena sufficiente a rimpiazzare le risorse usate complessivamente dal sistema. Ciò significa che, sebbene il prodotto sociale totale sia costituito tanto da mezzi di produzione (Sezione I) quanto da beni di consumo (Sezione II), il prodotto netto (il totale meno ciò che serve per rigenerare il ciclo) è costituito solamente dai beni di consumo [*].
Secondo questo punto di vista, dopo che i lavoratori hanno speso i propri salari per “riacquistare la propria parte” del prodotto netto restano, da un lato, un surplus di prodotto sotto forma di beni di consumo e, dall’altro, profitti non spesi che formano il “reddito” del capitalista. Ne consegue perciò che il “demand gap” sarà colmato solo se i capitalisti spenderanno tutti i loro profitti in consumi personali. Ma allora non ci possono essere investimenti [ulteriori], dunque [non ci può essere] alcuna crescita e alcuna accumulazione generata internamente.
Ciò non significa che i capitalisti non cercheranno di accumulare, ma che, in effetti, i tentativi di accumulazione della classe nel suo insieme saranno contro-producenti. Dopotutto, nella concorrenza accanita tra capitalisti, le dimensioni del patrimonio sono un indice di forza importante.
Un modo importante per aumentare dimensione e potenza è [quello] di risparmiare, investire e perciò crescere. Pertanto i capitalisti continueranno a cercare di accumulare. Si immagini perciò di partire dalla situazione iniziale descritta sopra, nella quale la Sezione I produca il minimo indispensabile di mezzi di produzione per mantenere la capacità produttiva del sistema e la Sezione II produca un quantità di beni di consumo integralmente “ricomprati” dai lavoratori e dai capitalisti che consumano tutto il proprio reddito. Supponiamo ora che la prossima volta i capitalisti spendano solo parte dei loro profitti in beni di consumo; il resto lo investono comprando mezzi di produzione, assumendo [altri] lavoratori e creando aziende nella Sezione I e/o nella Sezione II.
A questo punto accade una cosa curiosa. Poniamo che il profitto totale ammonti a 200.000$ che i capitalisti in un primo momento spendono interamente in consumi personali. Ora supponiamo che [i capitalisti] riducano il proprio consumo [personale] a 150.000$ e che investano i rimanenti 50.000$ usandone 30.000 per comprare mezzi di produzione (dalle scorte della Sezione I) e 20.000$ per assumere lavoratori (dall’esercito di riserva dei disoccupati). Il calo netto nella domanda di beni di consumo è di 30.000$, dal momento che la diminuzione nei consumi dei capitalisti è parzialmente compensata dal consumo extra [20.000$] dei nuovi lavoratori assunti. Tuttavia, la domanda per beni di consumo diminuirà, cosicché le vendite nella Sezione II cadranno facendo cadere la domanda di mezzi di produzione riducendo così le vendite [anche] nella Sezione I.
Tuttavia, proprio l’azione che porta a tutto questo ha simultaneamente ampliato la capacità produttiva in generale. Il tentativo di espandere la capacità ha perciò reso eccedente, non solo la capacità extra aggiunta, ma anche una parte della capacità che esisteva prima. Inevitabilmente questo porta a ridurre i costi. L’accumulazione generata internamente nega sé stessa.
Dal momento che l’espansione avviene gradualmente e richiede tempo per realizzarsi, si può immaginare che ci voglia un po’ di tempo affinché la carenza di “domanda effettiva” faccia sentire i suoi effetti e ancora altro tempo affinché la contrazione che ne consegue si realizzi. La conseguenza della tentata accumulazione sarebbe perciò un’espansione seguita da una contrazione con una accumulazione netta nel ciclo pari a zero. Questo, secondo la logica della teoria del sottoconsumo, sarebbe il comportamento atteso da una economia capitalistica lasciata a sé stessa. I cicli di espansione e contrazione non sono estranei alla storia del capitalismo. Allo stesso tempo, [proprio] lo studio della storia rende chiarissimo che questi cicli sono accompagnati da enormi crescite secolari nelle economie capitalistiche reali – un fatto che si pone in netto contrasto con un capitalismo intrinsecamente stagnante come quello sottinteso da una logica sotto-consumista.
Perciò, le teorie sotto-consumiste hanno dovuto inevitabilmente fare ricorso a fattori “esogeni” (esterni) per spiegare questo stridente contrasto tra storia e teoria. Nelle prossime due sezioni che trattano la storia delle teorie sotto-consumiste pre e post Marx, vedremo quale importante posizione occupino questi elementi esterni.
B. Teorie sotto-consumiste conservatrici e radicali
Nella parte precedente ho tentato di presentare sia la logica essenziale che sta dietro le argomentazioni sotto-consumiste, sia le implicazioni che ne derivano e nel fare ciò ho usato strumenti concettuali moderni come quello delle “due sezioni” di Marx e quello dell’analisi dell’offerta e della domanda aggregate di Kalecki. Ma questi [ultimi] concetti sono relativamente nuovi ed è abbastanza naturale che l’argomentazione non appaia precisamente in questa forma nella storia delle teorie sotto-consumiste. In effetti, ciò che colpisce di questa storia è che mentre la nozione di “demand gap” appare ovunque, l’implicazione [ad essa] corrispondente circa l’impossibilità di un’accumulazione capitalistica auto-sostenuta viene colta raramente.
Questa implicazione viene costantemente evitata in particolar modo tra le teorie marxiste. E’ una ben difficile condizione quella di vivere e scrivere nel XIX secolo, in un periodo di crescita capitalistica quasi esplosiva e teorizzare che la crescita non è intrinseca alla produzione capitalistica.
Convinti della validità della loro posizione fondamentale, sebbene ignari su – o poco propensi ad accettare – le sue implicazioni, i primi sotto-consumisti adottarono quasi universalmente la posizione secondo cui troppa accumulazione avrebbe causato la crisi. Partivano dal presupposto che l’economia cresceva ad un certo tasso “sostenibile” e seguendo la logica che ho delineato nella parte precedente, essi quindi presumevano che i capitalisti avrebbero ridotto una parte del consumo e investito l’ammontare così risparmiato in un supplemento di mezzi di produzione e lavoratori. Così, mentre questo investimento avrebbe esteso la capacità produttiva, la riduzione netta della domanda di beni di consumo e il suo effetto successivo sulla domanda di mezzi di produzione si sarebbero risolti nel sottoutilizzo anche della capacità [produttiva] che esisteva in precedenza. “Troppo risparmio” avrebbe portato ad un crollo [**].
Ma ciò che in realtà implicava la loro logica era che qualsiasi risparmio avrebbe portato a un crollo, un fatto che venne presto fatto notare dai loro avversari. Nel suo eccezionale studio intitolato Le teorie del sottoconsumo, Michael Bleaney riassume così il dilemma dei primi sotto-consumisti:
“la posizione generale di questi autori indicava che esiste un limite oltre il quale il saggio di accumulazione diventa pericolosamente alto, minacciando di accelerare il crollo. Ma la logica dell’argomentazione da essi sviluppata è che questo limite è, in effetti, un saggio di accumulazione pari a zero, come viene fatto notare in modo efficace da Chalmer. Così essi cadono in una trappola dalla quale devono uscire abbandonando parte dei loro risultati oppure dichiarando apertamente l’assurdità delle loro conclusioni” [1].
Il primo importante economista che approdò a questo dilemma fu Thomas Malthus (anni ’20 dell’800). Fedele alla tradizione del sottoconsumo, egli sosteneva che è la domanda dei beni di consumo che regola la produzione cosicché solo un certo tasso di crescita è “sostenibile”.
Ovviamente, data la logica della sua argomentazione e l’implicita conclusione in essa contenuta, Malthus non fu mai in grado di dire quale fosse questo tasso di crescita “sostenibile”. Tuttavia egli enfatizzò [il fatto] che risparmiare (troppo) fa sì che il consumo dei capitalisti non possa colmare il “demand gap” lasciato dal consumo dei lavoratori, cosicché le crisi di sovrapproduzione (sottoconsumo) diventano chiaramente possibili nel capitalismo. Nelle mani di Malthus questa tendenza al sotto-consumo diventò un’apologia reazionaria a favore dei proprietari terrieri feudali i cui alti tenori di vita e i cospicui consumi venivano presentati come un gradito contrappeso alla tendenza dei capitalisti all’eccessivo risparmio. (Malthus è anche celebre per il suo attacco alla classe dei lavoratori attraverso la sua cosiddetta teoria della popolazione. Allora, come adesso, queste brutali “leggi naturali” non furono mai destinate a rappresentare il comportamento delle classi dominanti “civilizzate”).
Simonde de Sismondi, contemporaneo di Malthus, vide anche lui una tendenza al sotto-consumo nel capitalismo. Ancora una volta troviamo l’assunzione che il livello di consumo regola la produzione totale cosicché la produzione può crescere solo tanto quanto cresce il consumo. Ma il capitalismo restringe il consumo delle masse tenendole in povertà; i lavoratori sono troppo poveri per ricomprare il prodotto del proprio lavoro (qui [appare] di nuovo l’onnipresente “demand gap”). Inoltre, via via che il capitalismo si sviluppa, la distribuzione del reddito diventa sempre più diseguale, cosicché il consumo delle masse cresce più lentamente della ricchezza totale (si allarga il “gap”). In Sismondi perciò non solo esiste una tendenza sotto-consumista, ma essa diventa sempre peggiore con la progressiva maturità del capitalismo. Con il tempo le crisi si aggravano e la competizione tra le nazioni per i mercati esteri diventa sempre più violenta.
A differenza del reazionario Parson Malthus, Sismondi era un radicale profondamente impressionato dalle sofferenze dei contadini e dei lavoratori sotto il capitalismo. In questo periodo egli fu a capo di quello che Marx chiamò il socialismo piccolo-borghese impegnato a lottare contro la crudeltà e la distruzione provocata dal capitalismo cercando di riformarlo, così da migliorarne le condizioni [sociali]. Sismondi stesso sosteneva cambiamenti radicali nella distribuzione del reddito a favore dei contadini e dei lavoratori, e guardava allo Stato per realizzare queste ed altre riforme economiche [2].
Tanto la scuola sotto-consumista malthusiana quanto quella sismondiana si riferiscono ai mercati esteri come fonti per la domanda di consumi. In Malthus questo è solo un riferimento di passaggio, in Sismondi, invece, i mercati stranieri sono uno sbocco importante per la sovrapproduzione interna e considera la crescente concorrenza internazionale come derivante dall’aggravarsi del problema del sotto-consumo. Ovviamente, affinché il commercio internazionale sia una soluzione a questo problema, una certa nazione deve esportare verso altre nazioni più di quanto importi da esse. Questo è evidentemente impossibile per il mondo nel suo insieme. Se tutto il commercio è confinato solo alla sfera capitalistica, allora il commercio estero è interno al sistema capitalistico e non offre via d’uscita al problema del sottoconsumo. Di conseguenza Sismondi non concepisce il commercio estero come una soluzione generale del problema.
Tra il periodo di Sismondi (metà dell’800) e il periodo di J.A. Hobson (inizio del ‘900) si verifica la grande svolta nella storia del capitalismo che segna l’inizio dell’era dell’imperialismo. Nel periodo che va dagli anni ’70 al 1914, ad esempio, gli investimenti europei all’estero crebbero di oltre il 700%, molti dei quali verso il cosiddetto Terzo Mondo. Non è quindi affatto sorprendente che dal primo ‘900 il commercio estero, attraverso l’imperialismo, iniziasse a sembrare una soluzione al problema del sotto-consumo. Dopotutto, se si concepisce il mondo in termini di nazioni capitaliste imperialiste e Terzo Mondo sottosviluppato, diventa possibile anche immaginare che questo Terzo Mondo possa assorbire i risparmi in eccesso dei paesi capitalisti sviluppati – sia direttamente nella forma di investimenti esteri, sia indirettamente sotto forma di esportazioni di merci. Sia in Hobson che in Rosa Luxemburg (di cui tratterò nella prossima sezione) il legame tra sotto-consumo e imperialismo diventa molto importante.
Hobson inizia nel modo ormai familiare di tutti i sotto-consumisti identificando esplicitamente l’oggetto ultimo di tutta la produzione, anche sotto il capitalismo, come produzione di beni di consumo. Inoltre, fu il primo a trattare in modo esplicito la Sezione I (l’industria dei mezzi di produzione) come strettamente subordinato alla Sezione II (l’industria dei beni di consumo) cosicché l’intero processo di produzione possa essere trattato come sistema integrato verticalmente che inizia con le materie prime e procede attraverso diversi stadi fino al prodotto finale che consiste solo in beni di consumo. Per ultimo, anche Hobson inizia ipotizzando un tasso di crescita “sostenibile” (che ovviamente non può definire) e va quindi avanti a mostrare che (troppo) risparmio porta a un crollo. Le crisi nascono dal (troppo) risparmio [3].
Hobson introduce anche il concetto di “surplus” che gioca un ruolo importante nella sua successiva analisi. In termini generali, il “surplus” viene definito da Hobson come l’eccedenza di valore dell’output, in termini monetari, rispetto ai costi strettamente necessari per produrre quell’output [4]. Questo concetto comporta la distinzione tra costi di produzione necessari e costi di produzione non necessari, così come tra costi di produzione e altre spese (costi di vendita, tasse sul fatturato, ecc…). E’ un concetto più ampio rispetto a quello che ho definito in precedenza come profitti (ricavi meno costi), ma è necessario puntualizzare qui la differenza.
In ogni caso, la nozione di surplus di Hobson include “costi” non necessari come i profitti di monopolio e la rendita terriera (poiché questi non derivano da nessun tipo di produzione). Via via che il capitalismo si sviluppa, questi “redditi improduttivi” aumentano e poiché i loro beneficiari tendono a consumare poco, finisce per realizzarsi un risparmio eccessivo. C’è quindi un peggioramento del problema del sotto-consumo [5].
Secondo Hobson, il commercio estero fornisce uno sbocco per il risparmio in eccesso e un mercato per la produzione in eccesso, anche nel quadro di un capitalismo competitivo. Comunque, mentre l’industria si concentra e si diffonde il monopolio, il problema del sottoconsumo si sposta ad un livello qualitativamente più elevato. Da un lato i profitti monopolistici accrescono il surplus portando ad un risparmio maggiore; dall’altro, poiché i monopoli ottengono questi extra profitti grazie all’aumento dei prezzi essi tendono a restringere il mercato. Gli stessi fattori che espandono il risparmio riducono così i suoi sbocchi e l’imperialismo si presenta come soluzione: l’imperialismo è la fase suprema del sottoconsumo.
Ma per Hobson le cose non devono andare necessariamente in questo modo. La radice delle crisi e dell’imperialismo sta nella disuguaglianza di reddito e negli eccessivi redditi dei monopolisti e dei rentiers, mentre la soluzione sta in riforme appropriate:
“facciamo in modo che ogni passaggio politico-economico dirotti il reddito in eccesso di questi proprietari per farlo fluire, o verso i lavoratori sotto forma di salari più alti, o verso la comunità sotto forma di riduzione delle tasse, cosicché [questo reddito] venga speso piuttosto che risparmiato servendo, in entrambi i modi, a sostenere la crescita del consumo – e non ci sarà più bisogno di combattere per mercati esteri o aree di investimento straniere” [6]
Un numero sorprendente di tesi avanzate da Hobson all’inizio del ‘900 riappare in analisi marxiste successive. Nel 1916 Lenin enfatizza il legame tra monopolio e imperialismo, sebbene rigetti l’analisi sotto-consumista di Hobson. D’altro canto, negli anni ’20, la rivoluzionaria tedesca Rosa Luxemburg sostenne che le radici dell’imperialismo sono da ricercarsi, in effetti, nel problema del sottoconsumo, sebbene ella rifiutasse, ovviamente, le conclusioni che Hobson trae da questo fatto. Più recentemente, negli Stati Uniti, gli autorevoli lavori dei marxisti Paul Sweezy e Paul Baran hanno rilanciato nozioni hobsoniane come quella dell’integrazione verticale della produzione globale, il concetto di “surplus”, la nozione che il monopolio tende ad innalzare il surplus e soprattutto l’argomentazione secondo cui l’assorbimento del surplus rappresenta un problema intrinseco della produzione capitalistica che diventa tanto più acuto con il prevalere del monopolio. Analizzeremo queste teorie più avanti.
Note
[1] Michael Bleaney, Underconsumption Theories: A History and Critical Analysis (New York: International Publishers, 1976), p. 63.
[2] Michael Barrat-Brown, Economics of Imperialism (London: Penguin Books, 1974), p. 170.
[3] Bleaney, op. cit., pp. 153-168.
[4] Ibid., p. 180.
[5] Ibid., p. 171.
[6] Hobson citato in Bleaney, op. cit., p. 166.
[*] Il prodotto netto è quella parte di prodotto totale molto al di sopra di quella necessaria per mantenere il sistema produttivo. Se sottraiamo il consumo dei lavoratori da esso, abbiamo quella parte del prodotto totale ben oltre i requisiti di mantenimento del sistema produttivo e dei lavoratori che lo fanno funzionare: è il prodotto in surplus.
[**] I sotto-consumisti non concepiscono alcuna discrepanza keynesiana tra il risparmio e l’investimento pianificato. I capitalisti pianificano entrambe, e ciò che risparmiano viene investito, non accumulato. L’accumulazione non gioca un ruolo principale nelle teorie del sottoconsumo, come sottolinea Bleaney. (op. cit., pp 50-51).