Giuseppe Sottile | Introduzione a Frattura metabolica e Antropocene
AA.VV., Frattura metabolica e Antropocene. Saggi sulla distruzione capitalistica della Natura, a cura di Alessandro Cocuzza e Giuseppe Sottile, Ed Smasher, 2023
La crisi nelle condizioni naturali dello sviluppo umano
è dovuta alle caratteristiche fondamentalmente antiecologiche
del lavoro salariato e dei rapporti di mercato (Paul Burkett)Il giovane Marx formulò l’idea dell’unità tra umanità e natura nella società
futura nei termini d’un pienamente compiuto umanesimo = naturalismo,
una concezione che Marx conservò anche dopo i vari
successivi cambiamenti della sua prospettiva teorica. (Kohei Saito) [1]
Il termine «Antropocene» comincia ad essere assai diffuso anche nel nostro Paese. È probabile esso prenda la veste di una parola tanto più innocua nel significato quanto più usata dai mass-media. La genesi che ne consente un uso appropriato la si può rintracciare in una serie di documenti che negli ultimi decenni sono scaturiti come esito della ricerca scientifica. Qui ne vogliamo citare solo tre, tra i più importanti e recenti: When did the Anthropocene begin? A mid-twentieth century boundary level is stratigraphically optimal, The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration e Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet [2].
Il primo documento fa iniziare quella che l’AWG, il 21 maggio del 2019, ha ufficialmente indicato come un’epoca successiva all’Olocene [3] a partire dalla metà del secolo scorso, per via della dimensione globale, durata e sincronicità del cambiamento stratigrafico.
La diffusione globale di radionuclidi artificiali da esplosioni di bombe atomiche (termina il Secondo Conflitto mondiale ma si fa da allora più devastante quello contro la Natura); i rifiuti di plastica e alluminio nei sedimenti di superficie; la duplicazione della quantità di azoto reattivo, necessario all’attuale produzione agricola ma dannoso per l’ambiente e la salute; i 2,6 milioni di pozzi petroliferi di competenza statunitense che raggiungono una lunghezza complessiva di oltre cinque milioni di km e i 400.000 pozzi petroliferi canadesi, in media ancora più profondi, che superano i due milioni di km (tracce fossili di origine antropica che dureranno per decine di milioni di anni, si osserva), sono solo alcune delle «impronte» lasciate sul pianeta dal sistema socio-economico capitalistico.
Il secondo documento, che aggiorna al 2010 quanto contenuto in uno studio precedente [4], mostra attraverso ventiquattro grafici un parallelismo tra l’andamento di alcuni trend economico-sociali e quelli ambientali, ove al crescere dei primi (ad es. PIL, investimenti diretti esteri, etc.) si assiste a un deterioramento dei secondi (ad es. acidificazione degli oceani, scomparsa delle foreste tropicali, etc.). In aggiunta al precedente documento, disaggregando per voci, si mostra il ruolo che ricoprono le diverse aree economiche nel “saccheggio” del pianeta, evidenziando il peso crescente dei paesi dell’area OCSE. In sostanza, la natura del sistema economico-sociale nel quale viviamo rappresenta un danno e un costante pericolo per il pianeta.
L’ultimo documento, che aggiorna quanto contenuto nell’analogo del 2009, [5] consegue a un progetto avviatosi nel 2007 che individuò nove limiti planetari, ossia confini entro i quali gli esseri umani debbono socialmente agire, pena la compromissione di processi biogeochimici di supporto alla vita umana e non umana sul nostro pianeta. Come si legge nel documento del 2009, «Trasgredire uno o più limiti planetari può essere deleterio o anche catastrofico per via del rischio di superare soglie in grado di provocare improvvisi cambiamenti ambientali non lineari, su scala continentale o planetaria». [6] Un aggiornamento al documento del 2015 aveva già segnalato che quattro di questi limiti «erano già stati superati. “Due sono nell’area ad alto rischio (integrità della biosfera e interferenza con i cicli dell’azoto e del fosforo), mentre gli altri due sono nell’area di pericolo (cambiamento climatico e cambiamento d’uso del suolo)”». [7]
I documenti appena presentati sono il risultato di quello che Steffen chiamava «un approccio integrato alla comprensione del metabolismo della Terra» e tutti pongono l’accento su una svolta planetaria avviatasi a partire dalla metà del secolo scorso. Diverse discipline concorrono nel mostrare come il pianeta sia un tutt’uno, un sistema complesso, vivo, attivo ove però «gli esseri umani adesso hanno la capacità di alterare il Sistema Terra in modi che minacciano gli stessi processi e componenti, biotici e abiotici, dai quali dipende la specie umana». [8]
Gli articoli qui raccolti espongono attraverso vari autori il punto di vista di un nuovo approccio ecosocialista che può farsi risalire al lavoro di Foster, Marx’s Ecology, e che, tranne per la recente traduzione italiana del libro di Angus, Facing the Anthropocene, è poco noto in Italia. [9] I concetti di «frattura metabolica», o «frattura nel ricambio organico» tra uomo e natura, e quello di «metabolismo», rappresentano le categorie fondamentali con cui si cerca di interpretare l’attuale impatto devastante del capitalismo sul pianeta. [10] Queste categorie, presenti nel pensiero di Marx, fanno da sfondo alle preoccupazioni che accompagnavano il pensiero di Marx e Engels sull’impatto negativo della agricoltura capitalistica sulla fertilità del suolo, preoccupazioni “ecologiche” che, secondo Kohei Saito, sarebbero sistematiche nel pensiero di questi autori. [11]
Il capitalismo, come un sistema metabolico sociale, ha compromesso e sta compromettendo fondamentali cicli metabolici naturali, come quelli del biossido di carbonio e dell’azoto, da cui conseguono eventi come la deossigenazione, acidificazione e riscaldamento degli oceani, riportati nell’articolo di Angus qui contenuto, e più in generale lo stato devastante in cui si trovano flora e fauna sul pianeta, da cui, più che la sesta estinzione di massa, deriva quanto è stato correttamente definito come sterminio di massa delle specie sul pianeta. [12]
Scrive Paul Burkett, «Le condizioni di riproduzione del capitalismo si presentano come indipendenti da una riproduzione sostenibile della forza-lavoro e delle condizioni naturali, considerate come entità ecologicamente co-evolventi. Per la produzione capitalistica, ciò che conta è che la forza-lavoro e le condizioni materiali di produzione siano separatamente disponibili in una forma che possa essere combinata al fine di produrre merci attraverso il lavoro salariato. Dati questi presupposti, la riproduzione capitalistica non dipende da qualche particolare limite entropico proprio dell’ecosistema nel quale opera», [13] da ciò la «frattura metabolica» indotta dal capitalismo.
Marx osservava che «Non l’unità degli uomini viventi ed attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio con la natura… , bensì la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che è posta compiutamente solo nel rapporto tra lavoro salariato e capitale, ha bisogno di una spiegazione ovvero è il risultato di un processo storico» [14]. Le spiegazioni oggi le abbiamo e le troviamo in parte delineate nella presente raccolta, quelle stesse che ci hanno reso alieni sul pianeta, giacché solo uno stato di estraneazione da quelle condizioni naturali, la cui unità si fa valere con la forza di una crisi ecologica senza precedenti, può condurre lo 0,01 % della biomassa socialmente impostasi sul pianeta (la nostra specie) a sentirsi padrona d’ogni cosa e ad immaginare la vita al modo crudele, criminale e violento con cui essa la pratica in questa civiltà capitalistica al tramonto, mentre la totalità di quella stessa biomassa è caratterizzata da autotrofia e simbiosi. [15]
Gli articoli qui raccolti spaziano dalla tematica marxiana del valore, al presunto produttivismo e specismo di Marx e Engels, al recupero della dialettica sul piano di un materialismo olistico, sofisticato – alla luce delle rivoluzioni teoriche avviatesi in vari campi a partire dalla seconda metà dell’800 [16], che storicizzano la natura e naturalizzano l’uomo e in alternativa al materialismo impostosi in epoca moderna, funzionale a un paradigma socio-economico volto al dominio assoluto della vita sul pianeta –, all’Antropocene e alla frattura metabolica come concetti attraverso cui inquadrare le catastrofi ambientali e i gravi rischi in corso per l’umanità, come nel caso dell’epidemia di Covid, alla concezione del socialismo in Marx e allo stato della pesca nel Mediterraneo.
Così, negli articoli Il COVID-19 e il capitalismo da catastrofe e Fratture e spostamenti: andare alla radice delle crisi ambientali, da un lato si evidenzia il ruolo giocato dall’agroindustria nel favorire la diffusione delle malattie zoonotiche, ove l’approccio dello Structural One Health all’eziologia delle malattie evidenzia come queste «siano collegate ai circuiti del capitale che stanno cambiando rapidamente le condizioni ambientali» (Foster, Suwandi), mentre dall’altro si mostra come il capitalismo abbia sempre “risolto” le sue crisi “spostandole” altrove nel tempo e nello spazio. La pandemia di Covid diventa, così, mera occasione per una repentina vaccinazione di massa, per un imbarbarimento delle condizioni di vita nel capitalismo, invece di andare, come ovvio, alla radice del problema legato alla mostruosa filiera alimentare degli allevamenti intensivi e delle monocolture, o alla depredazione di quel poco di “natura selvaggia” rimasta, e di ammettere, inoltre, en passant e per restare nel “sistema”, eventuali protocolli di cura alternativi, proseguendo, invece, sulla via della farmacolizzazione di malattie che lo stesso sistema sociale produce o favorisce. [17] Si assiste, così, a certe pubblicità ove il problema degli inquinanti nella carne verrebbe “risolto” con una alimentazione sana, genuina e condizioni di vita “non stressanti” per gli animali coinvolti e destinati comunque al patibolo, invece di implementare regimi alimentari radicalmente alternativi, che non consentano lo spillover; oppure si consente la distruzione delle foreste, ossia la combustione di legna in quanto ritenuta energia rinnovabile – «come avvenne nel caso del passaggio dall’uso del legno a quello della plastica nella produzione di molti beni di consumo, che ha sostituito i problemi collegati alla produzione di legname con quelli associati alla produzione e allo smaltimento della plastica» (Klark, York)); o ancora si permette che esistano i famigerati strumenti di finanziarizzazione della crisi climatica; [18] per non parlare delle pericolose strategie tecniche che fanno capo alla geoingegneria. Il supporto a queste “fughe in avanti”, a questa ricollocazione del capitale verso strategie di investimento “sostenibile” (il nuovo gergo dello «sterco del diavolo»), sarebbe dato da presunte soluzioni tecniche a problemi generati però dalla incompatibilità tra il processo di riproduzione (sempre più asfittico comunque dagli anni ’70) del capitalismo ed i processi naturali di cui la nostra specie è parte.
Come segnalato altrove, geoingegneria, green economy e una valutazione di mercato dei servizi ecosistemici servono dunque a questo scopo. [19] In realtà, il capitalismo sembra solo «accumulare una catastrofe», come si mostra in un altro intervento contenuto nel presente testo. Il recente European State of the Climate, per es., pubblicato dal Copernicus Climate Change Service (C3S), tra le varie cose ci dice che le concentrazioni di gas serra hanno continuato ad aumentare toccando i livelli annuali più alti dal 2003 e che le temperature medie degli ultimi cinque anni sono le più alte mai registrate, e il recente rapporto dell’IPCC sul cambiamento climatico riporta nero su bianco l’altamente probabile irreversibile scioglimento dei ghiacci polari e montani, nonché il continuo rilascio di carbonio dal permafrost. [20]
Questo aspetto catastrofico viene ad essere a dir poco sminuito da certi approcci alle questioni ecologiche presenti attualmente nella sinistra, che, assieme ad altre prospettive, vengono analizzati e acutamente criticati nell’articolo di John Bellamy Foster, Il marxismo nell’Antropocene: fratture dialettiche a sinistra. Secondo l’autore, certo monismo sociale iper-costruzionista volendo criticare un “dualismo cartesiano” tra società e natura, che sarebbe presente nell’ecologismo radicale e nel recente marxismo ecologico che si ispira alla teoria della «frattura metabolica», “ridurrebbe” di fatto la natura alla società capitalistica assorbendone le incompatibilità, nella misura in cui non vi è più una natura distinta dai processi sociali. Il dualismo, tuttavia, non sarebbe da intendere tra società e natura, piuttosto si tratta di cogliere l’incompatibilità tra metabolismo sociale capitalistico e metabolismi naturali. L’unità intrinseca almeno relativa nelle società precapitalistiche tra società umane e natura [21] è stata sostituita da una incompatibilità assoluta tra processo di accumulazione capitalistica (la sua crescita attraverso una devastazione continua) e metabolismo planetario, che spiega quanto accade sotto i nostri occhi e fornisce un fondamento sociale a quanto le indagini avvalorano sul piano scientifico. [22] La separazione degli uomini dalle loro condizioni di produzione compiutasi con il capitalismo e la loro “riunificazione” nel quadro di un sistema di produzione di merci mediante il lavoro salariato hanno avuto un risvolto sul piano dell’estraneazione degli uomini dalla natura; entrambi gli aspetti sono speculari e necessiterebbero di una azione rivoluzionaria volta al superamento dei rapporti di produzione-distruzione capitalistici, in direzione di una «civiltà ecologica». L’Antropocene può essere letto, allora, come il risultato di una «frattura nel processo interdipendente del metabolismo sociale» tra natura e società. Lo stato attuale degli ecosistemi, dalla biodiversità alla condizione degli oceani, reclama una congruenza tra metabolismo sociale e metabolismo della natura, piuttosto che una sussunzione della natura nella società (capitalistica) come “critica al dualismo”, ciò che poi sembra tradursi in una apologia dell’esistente. Il «lavoro come mediatore del ricambio organico della società con la natura» deve assumere allora caratteristiche non ecocide, come quelle invece assunte nel capitalismo. «Valerismo» è il termine con cui Kolasi, ad es., ha riassunto alcune di queste caratteristiche. [23]
In un altro articolo, Il valore non è tutto, convergono intanto in sintesi una serie di analisi esposte in Marxism and Ecological Economics di Paul Burkett e in Marx and the Earth di Foster e Burkett, relative specialmente a energetica, termodinamica e al rapporto tra valori d’uso e valore/valore di scambio. Vengono esposte: l’accusa rivolta a Marx di «non aver incorporato direttamente nella teoria del valore il dispendio di lavoro fisico/energia da parte della natura extraumana.», nonché l’ipotesi di «una teoria del valore fisiologica o energetica» inclusiva ad es. del “lavoro animale”, dunque una teoria del lavoro sia fisica che biochimica. A nostro parere, gli autori mostrano efficacemente come il tutto si risolve in una naturalizzazione “fisiocratica” dei rapporti economici capitalistici, equivalente, sul piano sincronico, ad una economicizzazione (mercificazione) della natura. [24] In sostanza, si perde la storicità propria di un certo processo sociale. L’economia politica classica e neoclassica, d’altronde, hanno sempre cercato di fondere con diverse sfumature i due piani, che si trattasse di rendere sub specie aeternitatis le leggi economiche (capitalistiche), o si cercasse di trovarne un fondamento in numerosi aspetti della fisica classica newtoniana. [25]
Si torna ai fisiocratici in un certo senso quando, ad es., si cerca di attribuire un valore economico ai servizi ecosistemici (dall’impollinazione, alla fertilità del suolo, alla produttività di mari ed oceani in termini di pescato etc.). Abbiamo così una “nuova scienza” funzionale a questa fase terminale del capitalismo. Già l’espressione «servizi ecosistemici» interiorizza la natura attribuendo ai “differenti servizi da essa erogati alla società” una valutazione monetaria. [26] Alcuni concetti chiave diventano infatti quelli di «capitale naturale» e di «funzione ecosistemica». Monitorare e dare un valore di mercato ai sistemi di “supporto alla vita” servirebbe a mitigare l’impatto del capitalismo sul pianeta, e sembra farsi urgente il calcolo dei costi della compromissione degli ecosistemi sul PIL rispetto a quelli di una loro salvaguardia. Ci si accorge, infatti, che la natura non è un “dono gratuito” e che contabilizzarne i “servizi” potrebbe impedirne il continuo uso smodato. «Non esiste una teoria economica – sia essa classica, neoclassica, sraffiana o la contemporanea economia ecologica – che veda la natura come direttamente produttrice di valore economico (o valore aggiunto) nell’economia capitalistica», osservano Foster e Burkett, tuttavia esse nacquero con l’intento di spiegare la “ricchezza delle nazioni”, mentre adesso evidentemente si cerca di salvare il salvabile; così tutta la natura produce valore, il lavoro in termini di fisica diventa lavoro economico, si giunge ad una «ontologia piatta» in cui «tutte le vacche sono nere». Sicché, se a Marx viene imputata una visione antropocentrica nell’aver considerato solo il lavoro umano nella sua teoria del valore, adesso si estende a tutta la natura un modo di produrre storicamente determinato.
In sostanza, mentre per i valori d’uso valgono le leggi fisiche che li rendono oggetto delle scienze naturali, per i valori di scambio/valori valgono leggi specifiche, proprie all’economia capitalistica. E Marx ed Engels erano talmente preoccupati degli effetti nefasti del capitalismo sugli stessi valori d’uso da mostrare un crescente interesse per le scienze della Terra e della vita, come ha adeguatamente documentato Foster. È invece nell’approccio dell’ecologo dei sistemi Howard Odum che Burkett e Foster vedono il giusto modo di porre la questione del rapporto tra valore d’uso/ricchezza reale e valore di scambio/valore, giacché rende conto del carattere solo sociale della teoria del valore-lavoro in Marx.
Più in generale, possiamo osservare come il modo di produzione capitalistico possa essere analizzato secondo due aspetti tipicamente complementari, ma a cui la stessa economia politica di carattere marxiano ha prestato poca attenzione. Uno (“la ricchezza delle nazioni”), ed è quello classico, riguarda l’analisi economica- teorica ed empirica marxiana, che considera i flussi monetario-finanziari (saggio di accumulazione o del profitto, rapporto prezzi-valori, ad es., ossia andamento del rapporto tra grandezze monetarie ed economiche) e che ha prodotto una notevole quantità di analisi specie a partire dagli anni ‘70. L’altro (“il peso delle nazioni”), riguarda il metabolismo sociale, ossia considera l’enorme flusso di materia-energia che impiega il modo di produzione capitalistico e con cui viene “scavato” il pianeta (estrazione annuale di minerali, combustibili fossili, bilancia commerciale fisica, etc.). Al primo sfugge il lato fisico-naturale, l’impatto devastante sulle condizioni fisiche di produzione che soggiace alle analisi delle dinamiche economiche capitalistiche (ad es., lo stato della produzione primaria di biomassa o dello scambio ecologico ineguale tra paesi). Al secondo sfugge il lato delle dinamiche economiche di riproduzione del sistema capitalistico (ad es., lo stato degli investimenti e dunque dell’occupazione, del welfare, etc.). Entrambi gli aspetti, tuttavia, sono necessari e nelle analisi di Marx ed Engels sono presenti in misura differente.
Come osservano lucidamente Foster e Holleman, «Marx vedeva il processo produttivo come un flusso sia di valori d’uso materiali che di valori di scambio o, semplicemente, valori. Egli usò il termine “metabolismo” (Stoffwechsel) per riferirsi al ricambio organico (lo scambio di materia-energia) che si accompagna sempre ai valori di scambio. Il ricambio organico veniva associato alla produzione di valori d’uso, che rappresentano le condizioni materiali di produzione in generale, in quanto opposti ai valori di scambio (valore). Un “valore d’uso” sociale è quasi letteralmente “materiale naturale appropriato a bisogni umani mediante cambiamento di forma” (Il capitale, Editori Riuniti, Libro primo, p. 215). È questo duplice aspetto della sua analisi – riferita alla natura fisico-materiale e al valore – che permise a Marx di percepire la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio e tra processo di accumulazione e condizioni naturali-materiali della produzione» [27].
Tuttavia, se, come osserva Rosdolsky, «Il lavoro fisico non è ancora lavoro economico» (lavoro astratto), un discorso a parte, a nostro avviso, merita invece la questione relativa al “lavoro animale”. Come precisa infatti Les Beldo, discostandosi da Marx, «Machines are labor, but they do not labor». [28] Per Marx, il bestiame o gli animali da lavoro sono invece capitale costante, ossia in ambito capitalistico hanno la disgrazia di essere contabilizzati come macchine o materie prime, mentre il lavoro umano quella di essere contabilizzato ed agire come capitale variabile. In effetti, l’uso che Marx fa di espressioni come «bestiame da lavoro» per gli animali e «bestiame umano» per il lavoro schiavile sembrano tradire l’affinità. Tuttavia, la teoria del “lavoro metabolico” di Beldo sembra inquadrarsi decisamente in una teoria fisiologica del valore che cancella totalmente la dimensione storico-sociale e sussume «l’intera rete della vita, in tutti i suoi aspetti, sotto la legge del valore». Per Beldo, infatti, «il metabolismo diventa lavoro metabolico, la riproduzione diventa lavoro riproduttivo, etc.», [29] pertanto diventa tale tutto quanto «eccede» gli interventi umani volti a incrementare lo sfruttamento di queste «merci viventi». Questa dimensione materiale, però, non concorre per Marx a determinare la forma capitalistica della ricchezza e per questa ragione Foster e Burkett, citando Isaak Rubin, ci ricordano che «il dispendio di energia fisiologica in quanto tale non è lavoro astratto e non crea valore».
Nel contempo, sono numerosi i passi in cui Marx parla della capacità lavorativa in termini fisiologici come dispendio di cervello, muscoli, nervi, come cosa vivente ed autocosciente, ossia come lato “materiale” del capitale variabile, ciò che genera un immediato parallelo con la condizione degli animali nel regime industriale. [30] Nelle Teorie sul plusvalore, a proposito della distinzione tra lavoro e forza-lavoro o capacità lavorative, Marx scrive che «per questa merce particolare il valore d’uso, che non ha quindi niente a che fare con il suo valore di scambio, consiste proprio nell’energia che crea il valore di scambio». [31] Per Marx, questo elemento, questa condizione della produzione, come qualunque altra, non è intrinsecamente capitale, lo diventa nel capitalismo sotto forma di merce che crea valore e plusvalore (capitale variabile), mentre nel caso di piante, animali (entrambi domesticati) o combustibile sotto forma di capitale costante. In questo senso analisi come quelle di Jason Hribral e Dinesh Wadiwel possono risultare più interessanti, giacché esse si concentrano sul fatto sociale (la metamorfosi del valore d’uso) ove con l’allevamento industriale di pesci, ovini, bovini e polli si assiste ad un processo di meccanizzazione e domesticazione che vede gli animali separati dalle loro naturali condizioni di riproduzione, poiché non hanno più nulla di naturale, al di là dei loro processi fisiologici, anch’essi in un certo senso programmati. Il caso dell’acquacoltura, per i pesci, o delle modalità di gestione e controllo dei polli porta Wadiwel a parlare del cibo e “lavoro animale” come di un ibrido di capitale costante (circolante) e capitale variabile (in quanto nel contempo cibo e “lavoro produttivo”). Scrive Wadiwel, che «L’automazione negli allevamenti intensivi è tanto la storia della sostituzione del lavoro umano con le macchine quanto simultaneamente di espansione della massa del lavoro animale, che adesso ha di fronte le macchine in un rapporto di dominio». [32]
Se incorporare nella teoria del valore il dispendio di lavoro fisico/energia da parte della natura extraumana (materie prime, etc.) è senza dubbio errato, poiché essa fa “solo” da sfondo necessario (valori d’uso) alla formazione capitalistica di ricchezza (valore), per organismi viventi sottoposti, al pari dei lavoratori salariati, ad un analogo processo di sussunzione reale del “lavoro” al capitale, la questione pare essere a nostro avviso più complessa, al punto che lo sfruttamento a cui sono soggetti potrebbe far intendere qualcosa di analogo alla condizione propria dei lavoratori salariati produttori di plusvalore. In questa sede, tuttavia, ci limitiamo ad osservare con Torres come gli animali non siano probabilmente né schiavi, né lavoratori salariati, occupando nel capitalismo la posizione di «supersfruttate merci viventi». [33] Se la totale, compiuta violenza a cui sono sottoposti è indubbia, poiché tutto il tempo degli animali «è tempo di lavoro e il prodotto finale del lavoro è lo stesso corpo dell’animale», il carattere economico-sociale di tale sfruttamento resta, a nostro avviso, da delineare. [34]
Tuttavia, e per concludere, come sostengono Foster e Clark in un articolo della raccolta, che è parte di un dibattito avutosi sulla «Monthly Review» nel dicembre del 2018, e che possiamo riassumere con una frase di Marx ivi riportata, secondo cui «ad una pecora sembrerebbe a malapena una delle sue proprietà “utili” di essere commestibile per l’uomo», lo specismo non sembra essere inerente al pensiero di Marx ed Engels.
Ancor più che per gli uomini, per piante ed animali questo pianeta è diventato un inferno a tutte le latitudini. Questa civiltà capitalistica al tramonto per gli umani ha invece l’aspetto di ripetute crisi economiche [35] che hanno cancellato in via definitiva quella che fu chiamata una fase storica di integrazione (welfare state) dei lavoratori a cui è succeduta, nel corso degli ultimi quarant’anni, la nostra, quella di una loro de-integrazione forzata e nel contempo da essi consentita. Una liberazione da questo evento disastroso non potrà che interessare l’intera biosfera, o non interesserà nessuno. [36]
Note
[1] Paul Burkett, Marxism and Ecological Economics, Haymarket Book, Chicago, 2009 p. 172; Kohei Saito, Karl Marx’s Ecosocialism, Monthly Review Press, New York, 2017, p. 26.
[2] Jan Zalasiewicz et al., When did the Anthropocene begin? A mid-twentieth century boundary level is stratigraphically optimal, «Quaternary International», vol. 383, 2015; Will Steffen et al., The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, «The Anthropocene Review», 2015; Will Steffen et al., Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet, «Science», 2015, vol. 347. Altri approcci rimarcano soprattutto gli aspetti socio-metabolici del periodo considerato, in consonanza con quanto rimarcato in alcuni articoli qui proposti, ad es. Marina Fischer-Kowalski et al., A sociometabolic reading of the Anthropocene: Modes of subsistence, population size and human impact on Earth, «The Anthropocene Review», vol. 1, 2014; Anke Schaffartzik et al., The global metabolic transition: Regional patterns and trends of global material flows, 1950–2010, «Global Environmental Change», vol. 26, 2014; Heinz Schandl, Niels Schulz, Changes in the United Kingdom’s natural relations in terms of society’s metabolism and land-use from 1850 to the present day, «Ecological Economics», 41 pp. 203– 221, 2002; John R. Schramski et al., Human domination of the biosphere, «PNAS», vol. 112, n. 31, 2015.
[3] http://quaternary.stratigraphy.org/working-groups/anthropocene/
[4] Will Steffen et al., Global Change and Earth System. Executive Summary, IGBP, 2004.
[5] Johan Rockström et al., Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, «Ecology and Society», vol. 14, art. 32, 2009.
[6] ibid.
[7] Citato in Ian Angus, Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, Asterios, Trieste, 2020, p. 108. In base ad una serie di variabili di controllo, un recente studio ha consentito di fornire un valore al limite planetario relativo all’inquinamento chimico, ossia all’introduzione di «chemicals and other new types of engineered materials/organisms… not previously known to the Earth System as well as naturally occurring elements (for example heavy metals) mobilized by anthrogenic activities» (Will Steffen et al, Planetary Boundaries, op. cit., p. 7), che nello studio del 2015 era rimasto indefinito. Il valore si troverebbe nella zona ad alto rischio, sicché i limiti superati sarebbero cinque. Si veda Linn Persson et al, Outside the Safe Operating Space of the Planetary Boundary for Novel Entities, «Environmental Science & Technology», gennaio 2022.
[8] Will Steffen et al., Global Change, op. cit. p. 6.
[9] John Bellamy Foster, Marx’s Ecology, Monthly Review Press, New York, 2000; Ian Angus, Facing the Anthropocene, Monthly Review, 2016 (trad. It. Anthropocene, op. ci. 2020). Per alcuni tratti delle posizioni ecosocialiste che fanno capo alla «Monthly Review» e al sito Climate&Capitalism, si veda John Bellamy Foster, Paul Burkett, Marx and the Earth, Haymarket Books, Chicago, 2017, pp. 1-11, nonché l’articolo «Il marxismo nell’Antropocene: fratture dialettiche a sinistra» contenuto nel presente testo. Per la tematica relativa all’ Antropocene e alle analisi ecosocialiste, si veda il sito in lingua italiana www.antropocene.org. In un recente articolo, Foster e Brett Clark propongono di suddividere l’Antropocene, caratterizzando la fase attuale, iniziata nel Secondo dopoguerra, come «Capitaliniano», una soluzione interessante, a nostro parere, per coniugare storia umana e geologica e come alternativa alla formulazione in termini di «Capitalocene», The Capitalinian: The First Geological Age of the Anthropocene, «Monthly Review», settembre 2021 (trad. it. Il Capitaliniano: la prima età geologica dell’Antropocene, in www.antropocene.org).
[10] Per una disamina di queste espressioni nella letteratura di lingua inglese, si veda https://mronline.org/2018/05/19/marx-and-metabolism-lost-in-translation/. A riguardo, l’espressione tedesca Stoffwechsel viene resa in italiano con «ricambio organico».
[11] Kohei Saito, op. cit., p. 12. Sulla base della MEGA2, l’autore mostra come, a partire dagli anni ’60 e specie dopo il 1868, l’interesse di Marx verso le scienze della terra diventi determinante, in ragione delle sue preoccupazioni relative all’impatto dell’agricoltura capitalistica sulla produzione agricola. La sua attenzione verso studiosi come Justus von Liebig e Carl Fraas lo posero di fronte alla necessità di una produzione agricola “sostenibile”, ossia congruente con il metabolismo della natura. Marx abbandona qualunque forma di “prometeismo” e l’analisi critica del processo di autovalorizzazione del capitale è parimenti l’individuazione della sua natura ecocida.
[12] Justin McBrien, in https://truthout.org/articles/this-is-not-the-sixth-extinction-its-the-first-extermination-event/, ciò che evita una “naturalizzazione” del fenomeno
[13] Paul Burkett, Ecological Economics, Hymarket Books, Chicago, 2009 p. 167.
[14] Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, vol. XXIX, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 422.
[15] Si veda solo a titolo d’esempio l’acuto articolo di Brendan Montague, Capitalism is the virus, «Ecologist», giugno 2020 (trad. it. Il capitalismo è il virus, in www.antropocene.org); si veda anche l’illuminante libro di Stefano Mancuso, La nazione delle piante, specie per quanto riguarda i modelli sociali che emergerebbero in analogia al modus viventi delle piante, per nulla incongruenti a modelli sociali umani avutisi o teorizzati in alternativa al capitalismo, e ciò nonostante l’autore in altri testi ammicchi a una “modernità capitalistico-tecnologica” che potrebbe derivare dai suoi studi sul mondo vegetale. Ricordiamo che, secondo i criteri di calcolo dati, Il 90% della biomassa mondiale è composta da organismi vegetali; il mondo animale fa un misero 0,3%, ancor meno quello dei predatori.
[16] Come si suole ripetere, si passa da una weltanschaung meccanicistico-riduzionistico-deterministica, a una in cui regola sono l’indeterminazione, la complessità e l’irreversibilità, come dire dalla morte alla vita.
[17] Nicola Casale, Ancora sulla maledizione pandemica che ha colpito la sinistra di classe (1), in www.sinistrainrete.info
[18] Si veda, ad es., Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, ombre corte, 2019, pp. 64-113.
[19] Si veda Ian Angus, Anthropocene, op. cit., «Introduzione».
[20] https://climate.copernicus.eu/sites/default/files/2021-04/ESOTC2020_summary.pdf; https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/downloads/report/IPCC_AR6_WGI_SPM.pdf, p. 28 (trad. it. di Mario Agostinelli in www.antropocene.org).
[21] Poiché, osserva Marx, «La ricchezza non si presenta come scopo della produzione», in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, vol. XXIX, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 420.
[22] Si veda Del Weston, The Political Economy of Global Warming. The terminal crisis, Routledge, 2014. Gowdy nota come «Non c’è evidentemente nessun meccanismo di feedback negativo nelle società complesse che limiti la distruzione del capitale naturale (citato in Paul Purkett, op. cit., p. 138). Burkett è del parere che qualche speranza di provvedere a un meccanismo di feedback trans-sistemico possa provenire dai lavoratori (ibid.), ma intanto è utile affermare con Erald Kolasi che «Ci sono inevitabili conseguenze ecologiche associate a ogni tipo di attività economica, ma le modalità ad alta intensità energetica del capitalismo sono state straordinariamente dannose», in https://www.antropocene.org/index.php/saggi/101-lo-stato-ecologico; o con Peter Haff che «una tecnostruttura capitalistica “è emersa senza possedere alcun meccanismo globale di autoregolazione”, citato in John Bellamy Foster, Brett Clark, The Capitalinian, op. cit. (trad. it. Il Capitaliniano, op. cit). Spesso ci si esprime dicendo che il capitalismo è una prosecuzione del processo di civilizzazione, chi in senso positivo, ossia in una cadaverica visione illuministica, e chi in senso negativo, come l’epilogo di una distruzione annunciata, dando il dovuto merito alle intuizioni romantiche. In realtà, una differenza fondamentale, quasi una cesura, c’è tra capitalismo e società precapitalistiche, che spiega il mantra della crescita reale o apparente ad ogni costo, e proviene dalla natura stessa della genesi del capitalismo. L’estrazione di plusvalore (forma capitalistica di sfruttamento) è essenziale al suo esistere, è il suo esistere. Capitale e lavoro salariato veicolano tutto ciò. Nessuna lotta di classe è mai stata possibile infatti, se non come accomodamento tra i due attori della medesima tragedia. Capitale e lavoro salariato abbisognano l’uno dell’altro, essendo la forza-lavoro capitale variabile, ossia parte del capitale investito. Nelle società precapitalistiche la produzione non è finalizzata all’estrazione di pluslavoro, essa si ottiene solo “tramite una costrizione politica esterna”. Questa è la ragione per cui in quelle società le lotte di classe erano frequenti e la politica giocava un ruolo rilevante. Questa è la ragione per cui nel capitalismo esse, quando vi sono, non hanno un carattere rivoluzionario e la politica è puro spettacolo, funzione del potere economico e oramai un cascame. Ciò ovviamente non induce ad alcuna previsione sul futuro, solo spiega quanto ha caratterizzato la natura del movimento operaio sinora.
[23] Erald Kolasi, The Ecological State, «Monthly Review», febbraio 2021 (trad. it. Lo Stato ecologico, in www.antropocene.org).
[24] Paul Burkett individua «five specific ecological tensions in market pricing and monetary valuation», in Marxism and Ecological Economics, op cit., pp. 121-126.
[25] Per altri aspetti ancora, si veda Roberto Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi, Bruno Mondadori, 2008.
[26] Per i fisiocratici si trattava di individuare l’origine della ricchezza. Questi, in vario modo, teorizzarono che la fonte della ricchezza fosse la terra, ossia che la fonte del sovrappiù prodotto fosse la quantità di prodotti derivanti dal lavoro agricolo. Il lavoro agricolo era l’unico lavoro produttivo perché la terra era produttiva. Artigianato ed industria davano solo una forma diversa alla stessa cosa. Il valore di scambio (e valore) veniva identificato con il valore d’uso, il salario contadino con i mezzi di sussistenza riconducibili al prodotto agricolo, la rendita con il plusvalore e questo con l’eccedenza agricola prodotta dal lavoro agricolo e qualunque reddito delle diverse classi sociali come una detrazione dal quell’eccedenza. Dietro il valore monetario dei beni agricoli v’era un soprappiù di valori d’uso. In sostanza, la natura aveva un valore economico in sé. Sicché i fisiocratici non solo, come noto, furono i primi ad indicare l’origine del plusvalore nel processo di produzione, ma furono anche coloro che, nel quadro di «una riproduzione borghese del sistema feudale» (Marx) di fatto trasformarono la natura in una faccenda economica (feticismo) come l’epoca moderna richiedeva con la nascita d’una “nuova scienza”, ossia l’economia politica.
[27] John Bellamy Foster, Hannah Holleman, The theory of unequal ecological exchange: a Marx-Odum dialectic, «The Journal of Peasant Studies», 2014, p.206.
[28] Les Beldo, Metabolic Labor, «Environmental Humanities», Duke University Press, 2017, p.115.
[29] ibid, pp. 118, 125.
[30] Karl. Marx, Il capitale, Libri I, II, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 103, 236 e p. 415; John Bellamy Foster, Paul. Burkett, op. cit., pp. 139-144.
[31] Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, vol. XXXIV, Editori Riuniti, 1979, p. 62 (il corsivo è nostro).
[32] Jason Hribal, Animals are Part of the Working Class Reviewed, «borderlands», vol. 11, n. 2, 2012; Dinesh Wadiwel, Chicken Harvesting Machine: Animal Labor, Resistance, and the Time of Production, «The South Atlantic Quarterly»,2018, p. 538.
[33] Bob Torres, Making a Killing, AK Press, 2007, p. 39.
[34] Dinesh Wadiwel, op. cit., p.534. In proposito, si vedano anche le 18 Tesi su marxismo e liberazione animale, a cura di www.antropocene.org (traduzione dall’inglese). Testo originale in lingua tedesca in www.mutb.org.
[35] Si vedano in proposito ottime analisi in http://www.countdownnet.net/
[36] Si veda in proposito l’ottimo testo di Steven Best, Liberazione totale, Ortica Editrice, 2017.