Gianfranco Pala | La forma di merce della forza-lavoro
Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995
“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.
Così – è ben noto – Marx comincia e articola lo studio del capitale nel Capitale. Considerata oggi la radicata e datata ignoranza tradizionale del marxismo, le categorie elementari semplici, che Marx espresse intorno alla forma di merce, sono generalmente sconosciute e unilateralmente rimosse. Tuttavia partendo da lì, si spera di chiarire una volta per tutte la questione sociale del salario procedendo attraverso la rilettura dei testi marxiani.
Una simile lettura conduce a spiegare come Marx denoti quale sia il carattere dominante della merce nella “forma di società che noi dobbiamo considerare”: poiché sapere per prima cosa con quale oggetto reale si ha a che fare è il solo modo scientificamente corretto di procedere nell’analisi e nella comprensione di ciò che si vuole spiegare, ed eventualmente trasformare. Altrimenti ci si rifugia nel peggiore sentimentalismo romantico. Che tutte le componenti basilari della ricchezza sociale non nascano come merce – nulla nasce come merce, neppure il pane – è fin troppo ovvio. Ma che esse – e tendenzialmente tutte le cose fruibili, pure coscienza e onore – in epoca moderna, nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, non lo siano diventate o non lo diventino crescentemente è molto meno ovvio.
Il massimo di confusione sul carattere di merce della produzione sociale, e sulla sua contraddizione, è raggiunto dall’errata convinzione, che tutte le riassume e le supera, secondo la quale “il lavoro non è una merce”. Con la pretesa negazione del lavoro (ossia, per essere precisi della forza-lavoro) come merce si ha l’illusione romantica e filantropica di essere meno “brutali” e sembrare più “umani”, a buon mercato, notava Marx stesso. Ma proprio così facendo si nega ai lavoratori l’unico valore di loro proprietà. E con tale confusione si impedisce al proletariato di comprendere quale sia storicamente la sola fonte della loro ricchezza.
Marx sostenne, con alquanta modestia, che l’unica sua vera e nuova scoperta scientifica fu l’individuazione della forza-lavoro come merce. Si tratta di una merce dotata di un valore d’uso forzosamente separabile da un valore (di scambio), il cui scambio, anche e proprio nelle forme di società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, è concettualmente tanto equo quanto categorialmente iniquo è il suo uso. É una merce, dunque, assai peculiare, in quanto:
i) è l’unica non prodotta capitalisticamente in un mondo di merci tutte aventi carattere capitalistico, ossia è una merce semplice che, in quanto tale, non è prodotta da capitalisti con i loro metodi di produzione, ma è prodotta dai lavoratori medesimi con le loro famiglie e le loro strutture sociali, anche se a tal fine i lavoratori debbono avvalersi di merci di sussistenza e consumo inevitabilmente prodotte dai capitalisti (ma ciò non costituisce affatto un’incoerenza, come si vedrà);
ii) proprio in quanto tale, per la sua caratteristica di produzione mercantile semplice, è contraddittoriamente l’unica a definire la differenza specifica del modo di produzione capitalistico rispetto a qualsiasi altra società mercantile, ossia rappresenta quella contraddizione interna, immanente all’intero modo di produzione capitalistico, che, se sparisse, farebbe scomparire anche il rapporto di capitale e dunque trasformerebbe il modo di produzione (non importa qui dire, per ora, se in uno migliore o peggiore);
iii) è l’unica originariamente di proprietà del lavoratore di contro all’immane raccolta di merci capitalistiche a lui estranee, ossia il lavoratore si può presentare socialmente come proletario (proprietario di null’altro che della capacità di lavoro sua e della sua “prole”) solo se riesce a contrapporsi continuamente come proprietario di almeno e solo una merce di contro a tutte le altre non di sua proprietà (e che potranno diventarlo soltanto dopo lo scambio finalizzato alla sua riproduzione sociale);
iv) è anche l’unica, perciò, capace di creare valore con il suo uso capitalistico dopo la sua alienazione, ossia dopo la sua “vendita ad altri” che sono in grado di comprarla (per poterla usare e consumare) con quella parte di capitale che appunto è chiamato e caratterizzato come variabile poiché solo così esso può variare, accrescendolo, il proprio valore, cioè dopo esser stato convertito in forza-lavoro e dopo che questa abbia funzionato come parte costitutiva del capitale nel processo capitalistico;
v) il denaro, che dapprima funzionava come forma di denaro del capitale variabile per il capitalista, dopo nelle mani del lavoratore funziona come forma di denaro del suo salario, che egli converte in mezzi di sussistenza, ossia come forma di denaro del reddito che egli ricava dalla vendita sempre ripetuta della sua forza-lavoro.
Se quindi si sostiene che il “lavoro (la forza-lavoro) non è una merce” si impedisce al proletariato di esprimere la propria specifica antiteticità storica oggettiva al capitale. E senza una siffatta oggettiva antiteticità, scientificamente motivata e compresa, non si può neppure pervenire a una coerente percezione soggettiva dell’antagonismo. Dalla lotta di classe si scivola giù per una china che approda su sponde moralisticheggianti, senza storia e affatto indeterminate, dunque prive di qualsivoglia significatività economica, politica e sociale. Si può solo sussurrare una soggettiva richiesta di equità e giustizia. É in questo senso, perciò che la riproposizione della categoria “forza-lavoro” come “merce specifica” – quale punto di partenza, anche, di una rinnovata attualità dell’analisi marxiana – risponde alla rammentata affermazione, di Marx stesso, secondo cui l’individuazione delle leggi di funzionamento di tale categoria rappresenta la sua vera scoperta scientifica.
Se si vuole spiegare la peculiarità della funzione capitalistica della forza-lavoro, si deve comprendere come, anche per essa al pari di ogni altra merce, il cambiamento di valore del denaro che si trasforma in capitale non possa avvenire nel denaro stesso. Da un lato, viene così smascherata l’illusorietà monetaria dell’aumento di ricchezza attraverso la speculazione (che tanto successo d’opinione ha ricevuto negli ultimi anni). Dall’altro, si vede che il denaro anticipato come capitale variabile, cioè come mezzo di acquisto della forza-lavoro e come mezzo di pagamento del salario, non fa che realizzare, in quanto tale nel suo atto di scambio, il prezzo della merce che compera o paga, poiché vengono scambiati equivalenti, in quanto anche la merce forza-lavoro vien pagata al suo valore. Quel “cambiamento” deve verificarsi nella merce che viene comprata, ma non nel valore di essa.
Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo, dal suo uso. Per estrarre valore dal consumo d’una merce, il possessore di denaro trova, nella sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d’uso stesso possiede la peculiare qualità d’esser fonte di valore (oltre che fonte attiva di valore d’uso, cioè attività produttrice di ricchezza reale). La condizione è dunque che il suo consumo reale sia, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. Tale merce specifica è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro. É già chiaro qui come la problematica riformista borghese nasconda nello fase dello scambio (a cui corrisponde solo la distribuzione del reddito) ciò che invece caratterizza la duplicità del rapporto di capitale nell’uso della forza-lavoro (a cui corrisponde appunto la produzione del plusvalore).? ?
Per forza-lavoro o capacità di lavoro si intende l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere. Pertanto, considerando codesta caratteristica, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato solo in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti per essere l’uno compratore e l’altro venditore, persone dunque (solo) giuridicamente eguali. Il proprietario di forza-lavoro quale persona, perciò, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce.
É evidente, però, che la natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il “libero” lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale.
Quella merce che è la forza-lavoro – peculiare per un verso, ma omologa a tutte le altre merci per un altro – ha un valore, identicamente determinato dal tempo di lavoro necessario alla sua produzione e, quindi, anche alla riproduzione. Ossia: il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro. La somma di tali mezzi necessari alla produzione della forza-lavoro include i mezzi di sussistenza di tutti coloro, occupati o non occupati, che ne garantiscono il ricambio: innanzitutto della “prole”, cioè dei figli dei lavoratori, in modo che questa “razza” di peculiari possessori di merci si perpetui sul mercato; poi dei membri della “famiglia” che ne assicurano la riproduzione quotidiana e generazionale, cioè soprattutto delle donne nella misura in cui esse siano escluse dal rapporto di capitale; infine di quegli altri “familiari” che ne hanno predeterminato la progenie, cioè gli anziani espulsi ormai da quel medesimo rapporto presente di lavoro salariato dal capitale. Queste sono le determinanti del valore della forza-lavoro, e dunque del salario come forma sociale. É un sentimentalismo troppo a buon mercato il trovare brutale queste determinazioni del valore della forza-lavoro, la quale deriva dalla natura stessa della cosa – osservava in sintesi Marx, riferendosi a quei moralisti che dalla sua epoca si sono riprodotti immutati fino ai nostri giorni.
La natura peculiare di questa merce specifica, la forza-lavoro, ha per conseguenza che, quando è concluso il contratto fra compratore e venditore, il suo valore d’uso non è ancor passato realmente nelle mani del capitalista compratore. É il lavoratore che deve portare con sé, nella sua presenza corporea sul posto di lavoro, quella capacità lavorativa, quel valore d’uso da estrinsecare. Infatti, il suo valore d’uso consiste soltanto nella successiva estrinsecazione della sua forza. Lo scambio con il salario monetario è già avvenuto e si è concluso. Sulle condizioni di quello scambio non si torna più: cosa fatta capo ha. Ma è il valore d’uso che il possessore del denaro riceve, per parte sua, nello scambio, che si mostra soltanto nel consumo reale, nel processo di uso della forza-lavoro.
Quest’ultimo processo è allo stesso tempo processo di produzione di merce (valore d’uso e valore) e di plusvalore. Ma l’uso della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro – seguendo sempre i passi di Marx – è necessario lasciare la “sfera rumorosa” che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto: Vietato l’ingresso agli estranei. Qui solo si può vedere sia come produce sia come è prodotto il capitale, svelando da un lato l’arcano della fattura del plusvalore e dall’altro le forme della mistificazione del salario.
Avendo come riferimento la creazione di plusvalore, per la questione del salario appare come tutti i termini del problema siano risolti e le leggi dello scambio delle merci non siano state affatto violate. Si è scambiato equivalente con equivalente. La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi immanenti allo scambio di merci, cosicché come punto di partenza valga lo scambio di equivalenti. Essa deve avvenire entro la sfera della circolazione e non deve avvenire entro la sfera della circolazione. Tutto questo svolgimento, la trasformazione in capitale del denaro, avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Avviene attraverso la mediazione della circolazione, perché ha la sua condizione nella compera della forza-lavoro sul mercato delle merci; non avviene nella circolazione, perché questa non fa altro che dare inizio al processo di valorizzazione, il quale avviene nella sfera della produzione. E così tout est pour le mieux, dans le meilleur des mondes possibles – ironizza leibnizianamente Marx.
“Queste sono le condizioni del problema. Hic Rhodus, hic salta! ”.
Considerando le proposizioni marxiane fin qui parafrasate emergono tutte le più gravi dimenticanze con cui il senso comune della sinistra – che non è propriamente il buon senso, né tantomeno il senso della ragione – oggi tratta i temi del lavoro. Basti una breve elencazione a mo’ di riepilogo, prima di passare a considerare alcune specifiche questioni sul salario sociale:
– la duplicità del lavoro (concreto e astratto) è il “perno” attorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica; anche il lavoro, in quanto espresso nel valore, non possiede più le stesse caratteristiche che gli sono proprie come generatore di valori d’uso; tale duplice natura del lavoro contenuto nella merce è stata dimostrata criticamente da Marx per la prima volta; la pretesa separazione e autonomizzazione, adialettica, del lavoro “utile” dalla sua forma storica vòlta alla produzione di “merce”, come molti “sinistramente” oggi amano azzardare, significa dunque solo che non si è compresa l’economia politica;
– la forma di merce della forza-lavoro è tale proprio perché il suo valore d’uso, ossia il lavoro stesso, nella sua rammentata duplicità, è dialetticamente unito con la sua antitesi, il suo valore (di scambio) come contraddizione in divenire; la pretesa di parlare del valore della forza-lavoro (e del salario) staccandolo violentemente dal suo uso (estrinsecazione della forza fisica e psichica del lavoratore) è il vizio sindacal-riformistico prevalso dai tempi del socialismo borghese ricardiano fino a oggi;
– il salario, in quanto forma empirica di occultamento del valore della forza-lavoro (e forma di classe, si è già accennato, non individuale), è dipendente, insieme all’occupazione, dall’andamento del ciclo di accumulazione del capitale; dunque il capitale stesso tende a esprimere tutta la sua forza per raggiungere in ogni momento la loro massima compressione, al fine di ottenere la corrispondente massima estensione del pluslavoro non pagato (circostanza che oggi si rappresenta su scala mondiale); la pretesa secondo cui le rivendicazioni salariali possano, in determinate circostanze e senza considerare la durevole tenuta di rapporti di forza antagonistici favorevoli, ignorare o vietare tale “dipendenza”, insieme all’altra pretesa che sia lecita l’aspettativa di “piena occupazione”, sono entrambe opinioni false (l’una fondata su un’improbabile estensione pratica dello sraffismo, l’altra su un supponente pragmatismo keynesiano);
– l’uso della forza-lavoro, ceduta come merce dal suo possessore (il lavoratore), ossia le condizioni in cui il capitale ne organizza l’estrinsecazione (organizzazione capitalistica del lavoro), rappresenta la peculiarità distintiva del modo di produzione capitalistico, capace di spiegare come si produce il capitale stesso e il suo plusvalore (o profitto), una volta varcata la soglia dov’è “vietato l’ingresso agli estranei”; la pretesa di trascurare la conduzione della lotta di classe proprio sul controllo di codesto uso (controllo consistente, a es., nel connettere la riduzione della giornata lavorativa a una immutata intensità del lavoro, più che all’invarianza salariale, sia pure questa sociale) significa rinunciare alla specificità dell’antagonismo di classe in questa particolare forma storica della società;
– la forma di merce della forza-lavoro, si è visto, implica che essa sia di proprietà del suo possessore (il lavoratore) che, “libero” di venderla sul mercato, deve poter costantemente riferirsi a essa come sua proprietà e disporre dell’alienabilità della sua capacità lavorativa (come della sua stessa persona); la pretesa di sottrarre tale libera disponibilità ai lavoratori loro proprietari, accampando una qualche giustificazione, in nome di una supposta “rappresentanza” (più o meno istituzionalizzata in organizzazioni sindacali ammesse dall’ordinamento statuale), vìola la condizione basilare della potenzialità antagonistica nelle società in cui predomina la produzione capitalistica; è una siffatta degenerazione che spinge il sistema sociale stesso verso approdi neocorporativi (magari in simmetrica alternativa ad alcune derive provocate dalla degenerazione delle cosiddette “economie di comando” del realsocialismo, pure caratterizzate dallo svuotamento di tale “rappresentanza” e della libera disponibilità del possesso di forza-lavoro).