Giambattista Lazagna | Introduzione a Ponte rotto
Edizione 1972 a cura del Comitato nazionale di lotta contro la strage di stato (Soccorso Rosso).
Giambattista Lazagna, nato a Genova nel 1923, avvocato, prese contatto con l’organizzazione comunista clandestina fin dagli anni dell’Università, nel 1942, e dopo l’8 settembre 1943 partecipò alla Guerra di liberazione, divenendo commissario politico della Brigata “Oreste” e vicecomandante della Divisione Garibaldi “Pinan-Chichero” operante in Liguria. Gravemente ferito in combattimento e decorato di medaglia d’argento al valor militare, nel dopoguerra, lavorò alla redazione genovese del “l’Unità”, fu tra i dirigenti della federazione provinciale del PCI e segretario del Comitato regionale di solidarietà democratica per la Liguria (1949-56) che si occupava della difesa dei partigiani perseguitati dai governi democristiani dell’epoca. Occupò successivamente varie altre cariche nelle organizzazioni democratiche liguri e fu presidente dell’ANPI di Novi Ligure finché, nel 1970, coinvolto nella questione Feltrinelli, venne arrestato. Rilasciato dopo 5 mesi di carcere, nell’ottobre 1974 fu nuovamente arrestato in connessione all’inchiesta sulle Brigate Rosse. Autore nel 1946 del libro di memorie partigiane Ponte rotto (più volte ristampato nel 1964, 1968 e 1972), ha pubblicato nel 1974 una nuova opera dal titolo Carcere, repressione, lotta di classe, sintesi della sua esperienza di studioso e di antifascista militante di fronte ai problemi della repressione giudiziaria. (Retro di copertina di Il caso del partigiano Pircher di Giambattista Lazagna, ed. La Pietra, 1975)
Cari compagni,
ristampare oggi, dopo ventisette anni “Ponte rotto”, non può avere soltanto un significato commemorativo o rievocativo delle ormai lontane vicende della guerra partigiana. Non possiamo ignorare oggi un quadro politico che vede il virulento riemergere del fascismo non più come nostalgia, ma come strumento di ricatto e di ricambio dell’imperialismo e del capitalismo più reazionario che ripropongono per mezzo dei servizi segreti lo spettro di un colpo di stato da attuarsi come in Grecia.
E che fa la sinistra tradizionale ? Prigioniera delle illusioni riformiste e parlamentariste, incapace di esprimere una linea rivoluzionaria alternativa al sistema, rinuncia all’uso politico della rabbia operaia e abbandona alla demagogia fascista lo spazio politico obbiettivamente rivoluzionario della miseria e della disperazione del sottosviluppo meridionale.
Ristampare “Ponte rotto” oggi, anche se è cosa modesta, può significare, certo, un richiamo ai temi della lotta contro il fascismo, non per riproporre un tipo di lotta attuato in un contesto storico-politico completamente diverso e quindi irriproducibile, ma per risvegliare la fiducia dei comunisti, dei rivoluzionari, nelle immense capacità combattive della classe operaia, dei contadini, del proletariato ed anche del sottoproletariato urbano, quando siano guidati da una avanguardia rivoluzionaria ideologicamente unita e agguerrita, capace di una analisi leninista della situazione politica, capace di battere da un lato l’opportunismo ed il riformismo e dall’altro il settarismo ed il dogmatismo.
Riaprire alle masse popolari italiane una prospettiva rivoluzionaria, riproporre l’obbiettivo della presa del potere e della costruzione di una società comunista dopo tanti anni di “passeggiata intorno al capitalismo” è oggi a mio avviso l’unico modo per mobilitare le masse e di riprendere il cammino iniziato con la guerra partigiana per sbarrare definitivamente la strada al fascismo e tagliarne le radici affondate nel privilegio, nello sfruttamento, nella corruzione, negli intrighi dei servizi segreti stranieri che annidano i loro agenti specialmente ai vertici della burocrazia dello Stato e dei corpi armati.
E perché la lettura di “Ponte rotto” possa avere qualche utilità politica, vorrei che il lettore, al di là della cronaca degli episodi della vita partigiana, riuscisse a scorgere la chiave della linea politica seguita dai combattenti partigiani, riuscisse a scorgere la forza egemone che indicò questa linea e cioè il partito comunista, partito che seppe giustamente impostare e vincere le battaglie della lotta di classe e non soltanto contro il fascismo, ma anche all’interno delle stesse forze della coalizione antifascista, battendo prima e trascinando poi con sé anche forze conservatrici, risolvendo favorevolmente il problema delle necessarie alleanze.
Avrei voluto su questi temi svolgere un più approfondito studio, ma le circostanze particolari in cui mi trovo a scrivere queste righe, senza possibilità di consultare libri e documenti, di sentire le testimonianze e le opinioni di vecchi compagni di lotta, non mi consentono di realizzare completamente il mio proposito e mi costringono a limitarmi a indicare a grandi linee i problemi su cui attiro l’attenzione dei compagni.
Il partito comunista che conobbi, come “candidato” alla iscrizione, nell’autunno del 1942, era un’organizzazione rigidamente clandestina composta da poco più di un migliaio di militanti in tutta Italia, formatisi nella durissima lotta cospirativa, nelle galere fasciste, al confino, nella emigrazione, nella guerra di Spagna, nella resistenza francese.
Insegnava alle sue reclute con pochi testi clandestini e soprattutto oralmente, i principi fondamentali del marxismo-leninismo e le norme minuziose del lavoro politico cospirativo.
Il partito era padrone della vita e dei beni dei militanti, decideva quale lavoro ciascuno dovesse svolgere, ed in quale città, imponeva il segreto su tutta l’attività anche davanti ai tribunali e sotto tortura della polizia, vietava qualsiasi atti di debolezza o di sottomissione nei confronti del potere repressivo, e persino la domanda di grazia in caso di condanna a morte.
Quando, dopo l’8 settembre 1943, i partiti antifascisti riuniti nei Comitati di Liberazione Nazionale (C.L.N.) si trovarono a discutere sulla linea politica da seguire nella lotta contro il fascismo e il nazismo, il partito comunista dovette affrontare e vincere una prima ed importantissima battaglia contro quella posizione politica che fu chiamata “attendismo”.
Contro le tesi comuniste di un immediato inizio della guerra partigiana contro gli occupanti tedeschi e i loro servi fascisti, per costruire nella lotta l’esercito di liberazione e per chiamare le masse popolari agli scioperi politici, al sabotaggio della produzione bellica e dei trasporti, per aprire la strada alla insurrezione nazionale, le forze conservatrici, e particolarmente i democristiani e i liberali, sostenevano che, essendo ormai sicura la vittoria delle armi alleate, sarebbe stato inutile e dannoso scatenare una lotta che avrebbe “provocato” sanguinose rappresaglie, imprigionamenti e deportazioni da parte delle forze nazi-fasciste.
Sostenevano, queste forze conservatrici, che era più opportuno organizzarsi per dare il colpo decisivo ai tedeschi e ai fascisti al momento della offensiva militare alleata: in realtà esse ben comprendevano la minaccia che ai privilegi di classe e alla pace sociale che, essi difendevano, sarebbe venuta dal costituirsi, per la prima volta nella storia d’Italia, di una forza armata degli operai, dei contadini, dei giovani che aspiravano ad un radicale rinnovamento sociale ed alla edificazione di una società socialista. Esse naturalmente avrebbero preferito che “all’ordine” degli occupanti tedeschi fosse sostituito, senza soluzione di continuità, l’”ordine” degli occupanti anglo-americani.
Il partito comunista rispose a questa linea attendista con la linea d’assalto dei “Gruppi di azione patriottica” (G.A.P.) e delle brigate d’assalto “Garibaldi”. Queste forze, ancora con pochi militanti, si gettarono con estrema decisione nella lotta e fin dall’ottobre 1943 iniziarono a giustiziare sommariamente per le strade della città aguzzini fascisti ed ufficiali tedeschi, formarono le prime bande partigiane ed iniziarono il sabotaggio dei mezzi di comunicazione e delle fabbriche belliche.
Questo bruciante inizio della guerra partigiana ad opera dei comunisti fu possibile non soltanto per l’esistenza di quadri politici e militari sperimentati ma soprattutto per la consapevolezza ideologica del partito che aveva assimilato il principio leninista della trasformazione della guerra tra paesi capitalisti ed imperialisti in guerra civile rivoluzionaria.
I partiti del C.L.N. si trovarono quindi subito di fronte al fatto compiuto, alle “provocazioni” ormai poste in atto dai comunisti e dovettero adeguarsi e adattarsi alla situazione rincorrendo i comunisti per non lasciare loro il monopolio della lotta armata.
Di fatto però, con la vittoria nella lotta contro l’attendismo, il partito comunista aveva conquistato una posizione egemone nella condotta politica e militare della guerra di liberazione ed aveva trascinato con se, in una necessaria alleanza, le altre forze politiche, anche quelle più riluttanti.
Dopo questa prima e fondamentale vittoria il partito comunista mantenne e portò più avanti la sua funzione di guida nella condotta della guerra lanciando e facendo applicare parole d’ordine audaci e giuste come “armarsi strappando le armi al nemico”, “non dare tregua”, “costruire nella lotta l’esercito partigiano”, “imporre al nemico lo scontro nel momento più favorevole e non accettare che il nemico imponga lo scontro” ecc.
Per assolvere la sua funzione dirigente nella lotta armata, fu necessario al partito comunista reclutare largamente tra i giovani combattenti e formarli ideologicamente e politicamente anche all’interno delle formazioni “Garibaldi”, organizzate e dirette dal partito comunista, il partito si dette una propria organizzazione politica, indipendente da quella militare. In ogni distaccamento partigiano vi era una cellula comunista che si riuniva molto spesso per discutere la linea politica del partito e la situazione politico-militare della formazione.
Le riunioni di cellula erano di regola aperte a tutti i partigiani e costituirono un importante mezzo di educazione politica e di proselitismo. Vi erano poi comitati di partito di brigata, di divisione e di zona, che agivano pressoché clandestinamente e decidevano le più importanti questioni della organizzazione del partito, dei rapporti con le popolazioni, dell’assegnazione delle responsabilità militari e politiche delle formazioni.
Nella stessa zona operativa ligure la grande forza del partito consentì di elevare ad importanti incarichi di comando militare molti partigiani senza-partito, prevalentemente cattolici.
Questa giusta politica, coerente ai principi della massima estensione possibile delle alleanze rispondeva anche (indipendentemente dalle indiscusse qualità militari dei comandanti non-comunisti) a precise esigenze di alleanza con le popolazioni contadino-montane dei territori in cui operavano le formazioni partigiane.
L’appoggio di queste popolazioni, politicamente strettamente controllate dal clero, fu elemento indispensabile per consentire la nascita e il consolidamento delle prime bande partigiane, poco armate ed ancora inesperte della montagna: in quella fase anche una sola delazione sulla ubicazione delle bande, poteva essere fatale.
Ma la collaborazione delle popolazioni non mancò mai: sia per l’istintivo e diffuso antifascismo dei montanari, sia per umana solidarietà, sia per il rispetto che i partigiani avevano per le persone e le cose dei contadini, sia infine per la collaborazione del clero, favorita anche dalla presenza di nostri comandanti cattolici.
Tali rapporti andarono sempre migliorando nel corso della guerra, fino a giungere ad una stretta collaborazione che si concretò con l’entrata nelle formazioni di molti giovani contadini e con la costituzione di squadre ausiliarie armate di villaggio e di vallata.
Naturalmente anche questa collaborazione non fu sempre e dappertutto perfetta: vi furono difficoltà specie con grossi commercianti e speculatori di derrate alimentari e vi furono altre questioni di non grande importanza.
Debbo viceversa segnalare un grave episodio di lotta tra comunisti e democristiani avvenuto nell’inverno 1944-1945.
Alcuni personaggi di primissimo piano del clero e della democrazia cristiana genovese, forse indotti in errore nella valutazione della forza del partito comunista nella 6° zona operativa, sopravvalutarono il fatto che alcuni prestigiosi comandanti erano cattolici o comunque non comunisti.
Essi pensarono di poter far leva sulla presenza e sul prestigio di tali comandanti per sottrarre le formazioni partigiane garibaldine al controllo del partito comunista e per trasformarle in formazioni “autonome” e sopprimere gli incarichi dei commissari politici.
Dopo una fitta trama di colloqui diretti e a mezzo di emissari, fu fatta diffondere nei distaccamenti una lettera del comandante “Bisagno” nella quale si invitavano i partigiani a non iscriversi a partiti se non dopo una almeno triennale meditazione, e si criticavano pretese interferenze politiche sulla condotta militare della guerra.
La manovra culminò nel tentativo da parte di un distaccamento di far prigioniero il comando di zona: tale tentativo tuttavia fallì con una semplice ma dura sfuriata del commissario “Attilio” che rispedì il distaccamento ribelle al suo accantonamento.
Ho voluto ricordare questo episodio per dimostrare che l’unità della resistenza non fu il frutto di un idilliaco accordo, ma al contrario il frutto di una lotta talvolta aperta e talvolta sorda, che altro non era che manifestazione anche all’interno della resistenza, della lotta di classe.
L’unità si stabiliva dopo la lotta, come conseguenza della posizione vittoriosa del partito comunista, conquistata a causa della sua giusta azione militare-politica secondo il ben noto principio che “l’unità si realizza da uno che va avanti e gli altri che vengono dietro”.
Ed ancor oggi, quando si parla di unità della Resistenza, se non si vuole tradire la verità, si deve ben specificare che tale unità, allora come oggi, può esistere solo come frutto e risultato di una lotta politica e della vittoria della linea più conseguente, più combattiva, più rivoluzionaria.
Spero che sia risultato chiaro da quanto ho scritto, che la funzione di guida della guerra partigiana ad opera del partito comunista fu dovuta non soltanto alla disciplina, alla preparazione ed alla combattività dei suoi quadri, ma anche e specialmente alla prospettiva politica veramente liberatrice che l’ideologia e la linea politica del partito offrivano alla classe operaia ed alle classe popolari, per l’abbattimento del regime capitalista e la costruzione di una società comunista di uomini veramente liberi ed uguali.
Tutti i compagni che erano o che entravano nel partito nel corso della guerra partigiana consideravano la lotta contro i tedeschi ed i fascisti soltanto come una prima battaglia della liberazione dal capitalismo e dall’imperialismo: tale battaglia doveva proseguire in forme e modi e tempi che non potevamo ancora prevedere ma che speravamo in rapida successione con l’insurrezione nazionale antifascista che stavamo preparando.
Nell’autunno del 1944 il commissario politico della 6° zona operativa, compagno Anelito Barontini (Rolando) andò a Roma alla direzione del partito, attraversando la linea del fronte nei pressi di Massa Carrara e ritornò tra noi dopo circa un mese, paracadutato. Riunì i quadri del partito e svolse una relazione che nei suoi termini essenziali, suonava così:
“Non dobbiamo illuderci sulla possibilità a breve scadenza per il partito e i suoi alleati di prendere il potere. La presenza in Italia di un governo militare alleato e di numerose truppe anglo-americane e gli accordi internazionali renderebbero impossibile un simile tentativo: in Grecia, il rifiuto dei partigiani di consegnare le armi all’esercito inglese si è risolto in un massacro.
La politica del partito dopo la liberazione dai tedeschi, sarà ancora e per un lungo periodo di tempo, quella di ottenere che il governo sia espressione dei partiti antifascisti che hanno condotto la guerra di liberazione nei C.L.N.
Occorre quindi potenziare al massimo il prestigio e la forza dei C.L.N. anche come organi del potere locale ed assicurare la direzione politica in senso decisamente antifascista”.
Ripeto che ovviamente non posso citare le parole esatte di Rolando, ma sono convinto che questo fosse il senso del suo discorso.
Per i compagni che speravano in un rapido succedersi delle battaglie rivoluzionarie, la prospettiva delineata da Rolando fu assai deludente: ma ci consideravamo ed eravamo disciplinati militanti di un reparto dell’esercito comunista, avevamo piena fiducia nello spirito e nella capacità rivoluzionaria dei nostri dirigenti e sapevamo che essi potevano e dovevano valutare meglio di noi, come comandanti di un esercito quale fosse il momento della offensiva e quale il momento della difensiva.
Continuammo a portare avanti disciplinatamente i compiti militari e politici che ci erano assegnati. Dopo la insurrezione vittoriosa del 25 aprile 1945, la prima preoccupazione di ogni comandante e di ogni militante comunista (poiché non si poteva rimanere armati e poiché non consideravamo finita la lotta) fu quella di nascondere la maggior quantità possibile di armi.
Negli anni successivi lottammo secondo le indicazioni del partito comunista per gli obbiettivi della repubblica e dell’assemblea costituente. Le forze conservatrici avevano frattanto scatenato, guidate dall’imperialismo americano, una violenta offensiva contro il movimento popolare, perseguitando i partigiani, infamandoli e gettandoli in galera per i fatti della guerra partigiana.
Cercavano di sobillare e contrapporre ai partigiani i soldati reduci dalla prigionia, ricostruirono l’apparato repressivo, polizia esercito e magistratura, secondo l’ordinamento e con i quadri fascisti.
Delusa con la elezione del 18 aprile 1948 la speranza di una affermazione elettorale del Fronte Popolare, la collera dei comunisti, degli operai e dei partigiani esplose, il 14 luglio 1948 in occasione dell’attentato a Togliatti nel quale le masse popolari individuarono giustamente il tentativo di schiacciare definitivamente il movimento operaio.
Fu proclamato lo sciopero generale e gli operai, i partigiani, i comunisti scesero immediatamente nelle piazze: tutta l’Italia del nord fu, nel giro di poche ore, nelle mani del popolo insorto che costruiva ovunque barricate.
A Genova i portuali disarmati si impadronirono di cinque autoblindo della polizia intatte che furono poste a difesa degli insorti.
I dirigenti politici dei partiti operai si adoperarono per ristabilire la calma, argomentando così:
“Gli americani sono ancora in Italia, sbarcheranno altre truppe. Il Sud non segue il movimento, rischiamo la guerra civile, il massacro”.
Gli insorti tornarono dopo qualche giorno alle loro case e si scatenò una repressione inaudita: secoli di galera furono distribuiti generosamente.
Si discusse a lungo sul 14 luglio, sulla divisione del mondo in due campi e sul fatto che noi eravamo nel campo americano, sul dovere internazionalista dei comunisti di tutto il mondo di sconfiggere la politica americana.
L’aggressione atomica contro l’URSS per preservare il paese dal socialismo, lo stato guida della rivoluzione mondiale comunista, per consentirgli di ricostruire la sue forze esauste dalla guerra, per consentire ai paesi dell’Europa orientale di costruire il socialismo, per consentire il consolidamento della rivoluzione in Cina.
Passarono anni di lotte difensive, di dura repressione poliziesca contro il movimento operaio, di lotte sindacali per mantenere il livello di vita degli operai nei limiti consentiti dal sistema capitalista.
In molti paesi i movimenti di liberazione nazionale lottavano e riuscivano a liberarsi dalla oppressione coloniale; in altri, in Vietnam, in Guinea, in Mozambico, in Angola, interi popoli conducono ancora la loro guerra di liberazione nazionale e rivoluzionaria ad un tempo.
Cuba ha fatto la sua rivoluzione socialista e nonostante la logica della divisione del mondo in due campi è riuscita a farne imporre il rispetto.
Verrà anche per i comunisti, per i rivoluzionari italiani il momento di uscire dalla difensiva, di far straripare dal quadro permesso dal sistema la volontà rivoluzionaria degli operai, dei contadini poveri del Sud, degli studenti ?
E’ quanto da anni e anni ci chiediamo, attenti a cogliere i segni dei tempi, attenti alla necessità di ricostruire lo strumento politico che sappia unificare e guidare le masse popolari in una linea strategica rivoluzionaria.
Il compagno Pietro Secchia, pochi mesi or sono, chiudeva un dibattito sul tema della lotta al fascismo pressappoco con queste parole:
“Compagni, la lotta per il salario, la lotta per la casa, la lotta per la salute, sono tutte lotte sacrosante che noi dobbiamo combattere tutti i giorni. Ma con la coscienza che fino a quando non avremo conquistato le riforme che ci consentano di controllare la polizia, la magistratura e l’esercito, pilastri fondamentali dello Stato, tutte le nostre conquiste saranno temporanee, effimere ed illusorie”.
E porsi il problema di queste “riforme” significa, da comunisti, porsi in termini rivoluzionari il problema della presa del potere.
Milano, S. Vittore, 10 maggio 1972.