Karl Marx | Su macchine e disoccupazione (commentato)
Tratto da Karl Marx, Il Capitale, Libro primo: Il processo di produzione del capitale, Sezione V, capitolo 13, Macchine e grande industria. [I commenti sono di Antiper e sono visualizzati come testo con colore di sfondo arancione]
I dati di fatto reali, che erano stati travestiti dall’ottimismo economico, sono questi: gli operai soppiantati dal macchinario vengono gettati fuori dell’officina, sul mercato del lavoro, e quivi accrescono il numero delle forze-lavoro già disponibili per lo sfruttamento capitalistico. Nella settima sezione si vedrà che quest’effetto delle macchine che ora qui ci viene presentato come una compensazione per la classe operaia, colpisce al contrario l’operaio come il più terribile dei flagelli. Qui diciamo solo questo: certamente, gli operai scacciati da una branca dell’industria possono cercare occupazione in un’altra qualsiasi. Se la trovano, e se si riannoda così il vincolo fra loro e i mezzi di sussistenza insieme ad essi messi in libertà, ciò avviene per mezzo di un capitale nuovo, addizionale, che preme per essere investito, ma mai per mezzo del capitale che funzionava già prima e che ora è trasformato in macchinario. E anche allora, che meschine prospettive sono le loro! Storpiati dalla divisione del lavoro, questi poveri diavoli valgono così poco fuori della loro vecchia sfera di lavoro che trovano accesso soltanto in alcune poche branche di lavoro, basse e quindi costantemente sovraccariche e sottopagate [215]. Inoltre, ogni branca dell’industria attrae ogni anno una nuova fiumana di uomini, che le forniscono il suo contingente per la reintegrazione e la crescita regolari. Appena le macchine mettono in libertà una parte degli operai fino a quel momento occupati in una data branca dell’industria, anche la truppa di riserva viene ridistribuita e assorbita in altre branche di lavoro, mentre le prime vittime deperiscono e intristiscono per la maggior parte durante il periodo del trapasso.
È un dato di fatto indubbio che le macchine in sè non sono responsabili di questa «liberazione» degli operai dai mezzi di sussistenza. Le macchine riducono più a buon mercato e aumentano il prodotto nella branca che conquistano e in un primo momento lasciano inalterata la massa di mezzi di sussistenza prodotta in altre branche dell’industria. Dunque la società possiede, prima e dopo la loro introduzione, altrettanti mezzi di sussistenza, o anche di più, per gli operai soppiantati, fatta completamente astrazione dalla enorme parte del prodotto annuo che viene sperperata da non-operai. E qui sta il punto culminante dell’apologetica degli economisti! Le contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall’uso capitalistico delle macchine non esistono perché provengano dalle macchine stesse, ma dal loro uso capitalistico! Poiché dunque le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro mentre, adoprate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa, poiché le macchine in sè alleviano il lavoro e adoprate capitalisticamente ne aumentano l’intensità, poiché in sè sono una vittoria dell’uomo sulla forza della natura e adoprate capitalisticamente soggiogano l’uomo mediante la forza della natura, poiché in sè aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., l’economista borghese dichiara semplicemente che la considerazione delle macchine in sé dimostra con la massima precisione che tutte quelle tangibili contraddizioni sono una pura e semplice parvenza della ordinaria realtà, ma che in sé, e quindi anche nella teoria, non ci sono affatto. Così risparmia di doversi ulteriormente stillare il cervello, e per giunta addossa al suo avversario la sciocchezza di combattere non l’uso capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse. Questo è un passo molto importante. La struttura retorica del ragionamento di Marx è la seguente: secondo gli economisti (borghesi) le macchine sono una cosa buona mentre negativo è, semmai, l’uso capitalistico che ne viene fatto; dunque, poiché le macchine non sono responsabili del loro uso si deve essere favorevoli alla loro introduzione. Marx ribatte rovesciando l’argomentazione: dal momento che le macchine vengono introdotte proprio per farne un uso capitalistico esse possono produrre (e in effetti spesso producono) effetti deleteri sulla condizione dei lavoratori. Marx non nega dunque il tema della rilevanza dell’uso che viene fatto delle macchine e non nega che le macchine potrebbero essere usate a vantaggio dei lavoratori piuttosto che a vantaggio dei capitalisti. E infatti rimanda al mittente l’accusa (che definisce una “sciocchezza”) di combattere le macchine invece del loro uso capitalistico. Il punto non è se l’introduzione delle macchine sia o meno una cosa buona, ma l’uso che di queste macchine viene fatto (sebbene esistano tecnologie la cui natura impedisce loro di essere usate a favore dei lavoratori). L’introduzione di macchine “labour saving” (ovvero di macchine che sostituiscono forza-lavoro) è sempre una cosa negativa per i lavoratori se questo avviene in un sistema capitalistico mentre sarebbe una cosa buona se avvenisse in un sistema socialista.
L’economista borghese non nega affatto che dall’uso capitalistico delle macchine provengano anche inconvenienti temporanei: ma dov’è la medaglia senza rovescio? Per lui è impossibile adoprare le macchine in modo differente da quello capitalistico. Dunque per lui sfruttamento dell’operaio mediante la macchina è identico a sfruttamento della macchina mediante l’operaio. Dunque, chi rivela come stanno in realtà le cose quanto all’uso capitalistico delle macchine, non vuole addirittura che le macchine siano adoprate in genere, è un avversario del progresso sociale! [216]. Proprio l’argomentazione del celebre scannatore Bili Sikes: «Signori giurati, è vero che a questo commesso viaggiatore è stata tagliata la gola. Ma questo fatto non è colpa mia; è colpa del coltello. E per via di questi inconvenienti temporanei dovremo abolire l’uso del coltello? Pensateci bene! Dove andrebbero a finire agricoltura e artigianato senza coltello? Il coltello non è forse salutare in chirurgia quanto dotto in anatomia? E inoltre non è ausilio volenteroso nei lieti desinari? Se abolite il coltello ci ributterete nella barbarie più profonda» [217a]. Benché le macchine soppiantino di necessità gli operai nelle branche di lavoro dove vengono introdotte, possono tuttavia provocare un aumento di occupazione in altre branche di lavoro. Ma questo effetto non ha niente a che fare con la cosiddetta teoria della compensazione. Poiché ogni prodotto delle macchine, per es. un braccio di tessuto a macchina, è più a buon mercato del prodotto a mano similare da esso soppiantato, ne segue questa legge assoluta: se la quantità complessiva dell’articolo prodotto a macchina rimane eguale alla quantità complessiva dell’articolo prodotto dalla manifattura o artigianalmente, che esso sostituisce, allora diminuisce la somma totale del lavoro che viene adoprato. L’aumento di lavoro richiesto, ad esempio, per la produzione dei mezzi di lavoro stessi, delle macchine, del carbone ecc. dev’essere minore della diminuzione di lavoro effettuata dall’uso delle macchine. Altrimenti il prodotto fatto a macchina sarebbe altrettanto caro, o più caro ancora, del prodotto a mano. Ma invece di rimanere eguale, la massa complessiva dell’articolo fatto a macchina da un numero diminuito di operai supera di fatto di molto la massa complessiva dell’articolo artigiano da esso soppiantato. Poniamo che quattrocentomila braccia di tessuto a macchina siano prodotte da meno operai che centomila braccia di tessuto a mano. Nel prodotto quadruplicato si ha una quantità quadrupla di materia prima. Dunque dev’essere quadruplicata la produzione della materia prima. Ma per quanto riguarda i mezzi di lavoro che vengono consumati, come edifici, carbone, macchine, ecc., il limite, entro il quale può crescere il lavoro addizionale richiesto per la loro produzione, varia con la differenza fra la massa del prodotto a macchina e la massa del prodotto a mano che può esser fornito dallo stesso numero di operai. Dunque, con l’estendersi dell’uso delle macchine in una branca dell’industria, cresce in primo luogo la produzione nelle altre branche che le forniscono i suoi mezzi di produzione. Quanto cresca per questo fatto la massa degli operai occupati dipende, se sono date la lunghezza della giornata lavorativa e l’intensità del lavoro, dalla composizione dei capitali impiegati, cioè dalla proporzione fra le loro parti costitutive costante e variabile. A sua volta questa proporzione varia molto, a seconda della ampiezza con cui le macchine si sono già impadronite o si stanno impadronendo di quelle stesse industrie. Il numero degli uomini condannati alle miniere di carbone o di metalli s’è ingrossato enormemente col progresso delle macchine in Inghilterra, benché il suo aumento sia rallentato negli ultimi decenni per via dell’uso di nuovo macchinario per le miniere [217]. Con le macchine nasce d’un tratto un nuovo tipo di operaio, il produttore di macchine. Sappiamo già che l’industria meccanica si impadronisce anche di questa branca di produzione su scala sempre più voluminosa [218]. Inoltre, per quanto riguarda la materia prima [219], non c’è per esempio nessun dubbio che la marcia forzata della filatura del cotone ha accelerato come in una serra la crescita della coltivazione del cotone negli Stati Uniti, e con essa non soltanto la tratta degli schiavi africani, ma anche, e insieme, l’allevamento di negri come impresa principale dei cosiddetti Stati schiavisti di confine. Quando nel 1790 si fece negli Stati Uniti il primo censimento degli schiavi, il loro numero ammontava a 697.000, nel 1861 invece si aggirava sui quattro milioni. D’altra parte non è meno certo che il fiorire della lavorazione meccanica della lana ha provocato, con la trasformazione progressiva del terreno arabile in pascolo per le pecore, la cacciata in massa dei lavoratori agricoli, divenuti un «sovrappiù». Ancora in questo momento l’Irlanda sta percorrendo il processo di un’ulteriore riduzione della sua popolazione, già diminuita della metà quasi dopo il 1845, alla misura esattamente corrispondente ai bisogni i suoi landlords e dei signori fabbricanti di lana inglesi.
Se le macchine di impadroniscono dei gradi preliminari o intermedi che un oggetto di lavoro deve percorrere fino alla sua forma definitiva, aumenta il materiale del lavoro e con esso aumenta la domanda di lavoro nelle officine esercite ancora su base artigianale o manifatturiera, alle quali affluisce il materiale fabbricato a macchina. P. es. la filatura a macchina ha fornito refe così a buon mercato e così abbondante che in un primo momento i tessitori a mano potevano lavorare a giornata piena senza aumento di spesa. Così aumentarono le loro entrate [220]. [**]
Note
[215] A questo proposito un ricardiano osserva contro le fadaises di J. B. Say: «Dove la divisione del lavoro è bene sviluppata, l’abilità dell’operaio è applicabile soltanto in quella branca particolare per la quale è stata acquisita; l’operaio stesso è una specie di macchina. Non serve quindi a nulla spappagallare che le cose hanno una tendenza a livellarsi. Dobbiamo guardarci attorno e vedere che non riescono a trovare il loro equilibrio per molto tempo; e che quando lo trovano, il livello è più basso che all’inizio del processo». (An Inquiry jnto those principles respecting the nature of demand, ecc., Londra, 1821, p. 72).
[216] Un virtuoso di questo pretenzioso cretinismo è, fra gli altri, il MacCulloch. Egli ci dice, per esempio, con la ingenuità affettata di un bambino di otto anni: «Se è vantaggioso sviluppare sempre più l’abilità dell’operaio, cosicché egli diventi capace di produrre una quantità costantemente crescente con la stessa o con minore quantità di lavoro, dev’essere anche vantaggioso che egli si valga dell’ausilio di quelle macchine che lo assistono più efficacemente nel raggiungere questo risultato». (MACCULLOCH, Principles of Political Economy, Londra, 1830, p. 182).
[217a] «L’inventore della macchina per filare ha rovinato l’India, cosa che del resto poco ci tocca». A. THIERS, De la propriété [Parigi, 1848, p. 275]. Qui il signor Thiers confonde la macchina per filare con il telaio meccanico, «cosa che del resto poco ci tocca»
[217] Secondo il censimento del 1861 (vol. II, Londra, 1863) il numero degli operai occupati nelle miniere di carbone dell’Inghilterra e del Galles ammontava a 246.613, dei quali 73.546 al di sotto dei vent’anni, 173.067 al di sopra. Alla prima rubrica appartengono 835 fra i cinque e i dieci anni, 30.701 dai dieci ai quindici anni, 42.010 dai quindici ai diciannove. Il numero degli occupati nelle miniere di ferro, rame, piombo, stagno e altri metalli: 319.222.
[218] Occupate nella produzione di macchinario in Inghilterra e nel Galles nel 1861: 60.807 persone, compresi i fabbricanti coi loro commessi, ecc., e così pure tutti gli agenti e commercianti in questa specialità; esclusi invece i produttori di macchine piccole, come macchine da cucire, ecc., e così pure i produttori di utensili per le macchine operatrici, come fusi, ecc.. Il numero di tutti gli ingegneri civili ammontava a 3.329.
[219] Poiché il ferro è una delle materie prime più importanti, osserveremo qui che nel 1861 nell’Inghilterra e nel Galles c’erano 125.771 fonditori di ferro, dei quali 123.430 uomini, 2.341 donne. Degli uomini, 30.810 al di sotto dei vent’anni, 92.620 al di sopra.
[220] «Una famiglia di quattro persone adulte (tessitori di cotone) con due bambini come innaspatori guadagnava quattro sterline alla settimana con una giornata lavorativa di dieci ore, verso la fine del secolo scorso e ai primi di questo; se il lavoro era urgentissimo, potevano guadagnare di più … Prima avevano sempre sofferto per l’insufficiente fornitura di filo». (GASKELL, The Manufacturing Population of England, Londra, 1833, pp. 25-27).
[**] http://www.rottacomunista.org/classici/marx-engels/capitale/cap_13.htm