Antiper | Generali e presidenti. Gli USA sempre pronti alla guerra, anche atomica
Comandante generale delle truppe alleate in Europa durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal 1953 al 1961, Dwight Eisenhower è passato alla storia per il suo discorso di fine mandato in cui mise in guardia il popolo americano dall’influenza di quello che egli definì, con una locuzione che sarebbe divenuta molto famosa, il “complesso militare-industriale”.
In quel discorso Eisenhower disse
“Un elemento vitale per mantenere la pace è il nostro apparato militare. Le nostre armi devono essere potenti, pronte per un’azione immediata, in modo che nessun potenziale aggressore possa essere tentato di rischiare la propria distruzione…
[…] Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, voluta o meno, da parte del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa ascesa del potere mal riposto esiste e persisterà.
Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza attenta e informata può costringere la corretta unione dell’enorme apparato industriale e militare della difesa con i nostri metodi e obiettivi pacifici in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme.” [1]
Dalle parole di Eisenhower emerge il fatto che negli anni ‘50 il complesso militare-industriale ha già acquisito un immenso potere di condizionamento sul sistema politico americano (e di conseguenza su gran parte del mondo occidentale). L’allarme lanciato da Eisenhower sembrerebbe dunque un esempio da manuale del funzionamento della democrazia statunitense, che si rivelerebbe capace di esercitare una profonda capacità critica anche verso i (e da parte dei) massimi vertici dello stato. Ed è proprio così che ci è sempre stato venduto il discorso di Eisenhower: una coraggiosa (auto)critica dei problemi del modello americano e dei pericoli per la democrazia derivanti dall’influenza dell’industria e degli apparati legati alla sfera militare. Ma siamo proprio certi che le cose stiano davvero così?
Lo storico americanista (e abbastanza americanofilo) Mario Del Pero scrive
“Formalmente tersa e coerente, la dottrina del New Look di Eisenhower si scontrò da subito con una serie di vincoli e impedimenti – interni e internazionali – che ne limitavano invece l’attuabilità e ne alimentavano la contestazione. Si trattava di una strategia basata sull’asserita disponibilità a fare uso delle armi nucleari […]. A dispetto delle speranze di Eisenhower, non si assistette inoltre a una sensibile riduzione del budget militare, difeso da una coalizione d’interessi militari, politici e industriali che nemmeno il presidente riuscì a indebolire. La fine del conflitto coreano liberò ovviamente delle risorse, ma tra il 1954 e il 1961 gli investimenti nell’ambito della difesa si attestarono al 9-10% del PIL del paese, un livello doppio rispetto al 1950. Fu proprio contro l’influenza del «complesso militar-industriale» che Eisenhower si sarebbe scagliato nel suo celebre discorso di commiato del gennaio 1961»”[2]
Il fatto è che Eisenhower era stato ingaggiato in un duro scontro dalle lobby delle armi a causa della sua intenzione (peraltro non realizzata) di ridurre il budget della spesa in armi convenzionali; l’obbiettivo non era però quello della de-escalation militare e della pace, bensì quello dello spostamento di risorse verso il riarmo nucleare. La politica del New Look lanciata da Eisenhower si basava sull’assunto che le armi convenzionali fossero insufficienti a garantire una effettiva deterrenza e che servivano armi molto più minacciose per consentire agli USA di imporre la propria supremazia sul resto del mondo. In effetti, anche le bombe atomiche sganciate nell’agosto del 1945 su un Giappone ormai sconfitto e vicino alla resa erano state più un avvertimento politico al mondo che non un’azione militare in sé.
Non solo. La politica del New Look di Dwight Eisenhower prevedeva (e questa sì che venne realizzata) una intensificazione delle attività sotto copertura della CIA (le famigerate cover actions) finalizzate alla destabilizzazione dei paesi recalcitranti al dominio statunitense e alla difesa armata dei paesi amici da qualsiasi minaccia di uscita dalla propria sfera di influenza.
Quello che Eisenhower fa nel suo discorso di fine mandato è lamentarsi di non aver potuto realizzare a sufficienza l’obbiettivo di spostare risorse verso la minaccia nucleare e verso l’attivismo destabilizzatore della CIA. Non era per nulla pacifista, Dwight Eisenhower e il suo discorso di fine mandato non fu affatto un esempio di democrazia. Eisenhower, dopotutto, era un generale.
Peraltro, il discorso di Eisenhower arriva una quindicina di anni dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki e dopo affermazioni deliranti come quelle del generale MacArthur (già comandante delle forze USA nel pacifico durante le Seconda guerra mondiale e “governatore” americano del Giappone dopo la fine della guerra) secondo le quali l’atomica si sarebbe dovuta usare anche sulla Cina [3] durante la guerra di Corea.
Ancora oggi, mentre gridano alla minaccia atomica iraniana o russa o cinese, gli americani sono i veri grandi sostenitori di tale minaccia (dopo essere stati peraltro gli unici ad averla trasformata in realtà causando una devastazione umana senza pari); sono proprio loro la grande minaccia alla pace e contro tale minaccia, gradualmente ma inesorabilmente, il resto del mondo ha deciso di ribellarsi. Questa ribellione può essere un fatto positivo nella misura in crea le condizioni per un forte dinamismo politico internazionale; se poi questo dinamismo riuscirà ad essere indirizzato contro la logica dell’imperialismo e verso il progresso dell’umanità oppure resterà un semplice scontro per l’egemonia dipenderà dalle masse popolari di tutto il mondo.
Note
[1] Dwight Eisenhower, Discorso di addio alla nazione.
[2] Mario Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011, edizione digitale 2014, Laterza, Roma-Bari.
[3] Del Pero, Ibidem.