Antiper | Kant e l’uso della ragione tra pensiero critico e obbedienza
Immanuel Kant è stato certamente un grande filosofo che ha offerto riflessioni fondamentali che non cessano di essere studiate con profitto. Tra i suoi scritti politici ce n’è uno particolarmente importante: si tratta del breve saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? [1], scritto nel 1784 alla vigilia della Rivoluzione Francese. L’altro famoso scritto politico di Kant, Per la pace perpetua, fu scritto invece nel 1795, pochi anni dopo la Grande Rivoluzione, proprio nel momento in cui stava iniziando la dittatura del Direttorio e l’ascesa di Napoleone.
Nel suo scritto sull’illuminismo Kant esorta l’umanità ad uscire da uno stato di minorità e ad usare appieno la ragione per sviluppare il massimo spirito critico
“Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo” [2]
Niente di più lontano, dunque, dall’idea di un’adesione acritica ad idee inculcate e a ordini impartiti.
Del resto Kant scrive chiaramente
“Ma sento gridare da ogni parte: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!)” [3]
Sembra un chiaro appello a mettere in discussione gli ordini, le tasse, le credenze, le regole…
Kant prosegue
“il pubblico uso della propria ragione deve sempre essere libero, ed esso solo può realizzare il rischiaramento tra gli uomini; al contrario, l’uso privato della ragione può essere spesso limitato in modo stretto, senza che il progresso del rischiaramento venga da questo particolarmente ostacolato” [4]
In sostanza, l’uso pubblico favorisce il rischiaramento [5] e l’uso privato non lo ostacola. Comunque si usi la ragione è sempre buona cosa usarla.
Ma cosa cosa intende Kant per uso “privato” e per uso “pubblico” della ragione?
“Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, in quanto studioso [als Gelehrter], davanti all’intero pubblico dei lettori [dem ganzen Publikum der Leserwelt]” [6]
Poiché stare davanti all’“intero pubblico dei lettori” è materialmente impossibile (a meno che non si abbiano assai pochi lettori) si deve intendere che per Kant l’uso pubblico della ragione è l’uso della ragione che si fa nelle proprie opere, nelle quali ci si presenta di fronte a tutti i propri lettori e ai quali si propongono le proprie idee. Ovviamente Kant parla da filosofo e da professore ovvero da uomo che ha un pubblico per cui scrivere e a cui parlare.
“Chiamo invece uso privato della ragione quello che a un uomo è lecito esercitare in un certo ufficio o funzione civile a lui affidata” [7]
L’uso privato, dunque, è l’uso che una persona deve fare della ragione quando è collocata all’interno di un contesto sociale, collettivo, pubblico. Quindi, si potrebbe dire, l’uso privato è quello che si fa quando ci si trova immersi in un contesto pubblico, un contesto che conta anche su di noi per poter funzionare; mentre l’uso pubblico della ragione è quello che si adotta mentre si è da soli a scrivere le proprie idee alla scrivania.
Di esempi di uso privato della ragione ne fornisce proprio Kant
“sarebbe assai dannoso che un ufficiale in servizio, il quale avesse ricevuto un ordine dal suo superiore, volesse ragionare in pubblico sulla opportunità di tale ordine, o sulla sua utilità: egli deve obbedire. Ma non si può di diritto impedirgli, in qualità di studioso, di fare le sue osservazioni sugli errori del servizio militare e di sottoporle al giudizio del suo pubblico” [8]
O ancora
“Il cittadino non può rifiutarsi di pagare le tasse che gli sono imposte; e, anzi, una critica inopportuna di tali imposizioni quando devono essere da lui assolte, può venir punito come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a ribellioni generali)” [9]
“un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità in modo conforme al simbolo [Symbol] della chiesa che egli serve, essendo stato assunto per questo” [10]
Quello che possono fare l’ufficiale o il cittadino o l’ecclesiastico mentre eseguono scrupolosamente gli ordini è lamentarsene da “studiosi” ovvero dichiarare, anche pubblicamente, il proprio dissenso. L’esempio dell’insegnante è interessante: in aula si deve insegnare ciò che ci viene ordinato di insegnare, ma non dev’essere vietato dire agli amici che i programmi che si insegnano sono orribili. Come le buone pecore che belano, belano, ma poi seguono il bastone del pastore.
Il punto è che la mancanza di coerenza tra pensiero ed azione non viene in Kant ricondotta ad un problema di repressione (il sacerdote che insegna idee sue viene licenziato, il militare che non esegue gli ordini viene punito…) ma ad un problema di rispetto del funzionamento degli ambiti collettivi in cui operiamo.
Ora, che Kant non avesse una vocazione propriamente rivoluzionaria è abbastanza noto. Anzi, in campo politico aveva idee piuttosto deboli; non ultime, idee apertamente anti-semite [11]. Più (e forse peggio) di tutto questo è il fatto che Kant fosse un uomo troppo radicato nel suo tempo e nel suo mondo; era, cioè, un tedesco del XVIII secolo per il quale era impensabile l’idea di disobbedire alle regole e men che meno quella di mobilitarsi per rovesciare l’ordinamento sociale ed economico che imponeva quelle regole.
Kant è un illuminista, ma non capisce che di lì a poco la Rivoluzione Francese sta per aprire una fase storica del tutto nuova, una fase in cui la rivolta contro lo Stato, contro la tradizione, contro i privilegi di casta e di classe, contro gli arbìtrii, contro le leggi… – rivolta che troverà la sua espressione teorica più autentica nel marxismo e la sua migliore espressione politica nella lotta per il socialismo – diventerà un tratto caratteristico di tutto l’800 e il ‘900.
In definitiva, questa scissione tra consapevolezza interiore e inconcludenza esteriore fa meritare allo stesso Kant la critica che Hegel muove alle cosiddette “anime belle” che si compiacciono della propria critica intellettuale sul mondo, ma non fanno nulla per cambiarlo.
A questo punto deve sorprendere solo in parte che il “buon Kant”, il filosofo dalla teoria morale inflessibile per il quale un atto morale cessa di essere tale se anche solo produce un qualche compiacimento in chi lo compie (ed è anche per questo che Schiller critica la rigidità dell’etica kantiana [12]), questo Kant sia stato invocato da Adolf Eichmann nella sua autodifesa al processo di Gerusalemme.
Lo ricorda Hannah Arendt riportando la dichiarazione in cui Eichmann [13] sostiene di aver vissuto secondo un’etica kantiana cioè secondo un’etica basata sull’imperativo categorico che permette di definire morale un’azione solo se il suo principio può essere considerato “legislatore universale” ovvero universalmente valido: rispettare le leggi dello Stato sembrerebbe in effetti un’azione kantianamente morale perché è qualcosa che può essere astrattamente universalizzato: non per nulla diciamo che “la legge è uguale per tutti” e che tutti sono ugualmente sottoposti alla legge. Al contrario, il principio della violazione della legge non può essere universalizzato in quanto porterebbe alla fine del senso stesso della legge.
Ciò nonostante è proprio la violazione della legge che diventa atto morale quando il rispetto della stessa conduce allo sterminio sistematico e industriale di oppositori politici, disabili, ebrei, stranieri…
Come ricorda Hannah Arendt
“E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: «Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali» (il che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli)” [14]
Arendt contesta ad Eichmann il fatto che, ad un certo punto, la sua morale non è più kantiana (se mai lo è stata), ma è ormai diventata hitleriana perché le leggi tedesche hanno cominciato ad osservare il Führerprinzip (peraltro, lo stesso principio osservato dal maestro di Hannah Arendt, il filosofo nazista e antisemita Martin Heidegger [15]); la contestazione della Arendt non è tuttavia pertinente perché la morale kantiana non è una morale sostanziale, ma una morale formale che non tiene conto di chi scrive la legge o di cosa vi sia scritto, ma del solo fatto che questa sia o meno applicata (ed è proprio questo carattere formale uno dei limiti principali dell’etica di Kant).
Anche il fatto certamente vero che in Kant l’obbedienza non è mai cieca non significa nulla: di fronte ad ordini che non si condividono Kant pensa che essi debbano essere prima di tutto eseguiti e poi, semmai, criticati. Ma quando l’obbedienza è dovuta ogni responsabilità può essere declinata. In Argentina, dopo la fine della dittatura che aveva torturato, assassinato e fatto sparire decine di migliaia di oppositori politici, venne varata nel 1987 la Ley de Obediencia Debida per de-responsabilizzare i torturatori con la scusa che avevano “solo” obbedito agli ordini.
Si dice che il nazismo non può essere “kantiano” perché non prevede diritto di critica (e l’uso privato della ragione è un diritto di critica); e infatti qui non si intende minimamente imputare a Kant la benché minima responsabilità circa il destino nazionalsocialista del popolo tedesco come invece sembra fare, in certa misura, il filosofo e pedagofista statunitense John Dewey secondo il quale Kant ha concorso a sviluppare nella mentalità tedesca il disprezzo per l’esperienza e, al contempo, un deciso amore per il sistema, l’ordine, la disciplina… i quali, uniti ad una certa propensione per le cose militari, hanno fatto dei tedeschi un popolo disciplinatamente guerrafondaio, destinato quasi ineluttabilmente alla tragedia degli anni ‘30 e degli anni ‘40 del ‘900.
“That the Germans with all their scientific competency and technological proficiency should have fallen into their tragically rigid and “superior” style of thought and action (tragic because involving them in inability to understand the world in which they lived) is a sufficient lesson of what may be involved in a systematical denial of the experimental character of intelligence and its conceptions” [16]
Dewey però sbaglia perché rovescia il nesso causale. Non è stato Kant a forgiare la mentalità tedesca, ma semmai è stata la mentalità tedesca a forgiare Kant. E questo è il punto: fare appello all’uso della ragione non preserva necessariamente dal subire l’influenza della propria cultura di origine. Forse la maggiore critica che possiamo rivolgere a Kant è proprio quella di non aver sviluppato fino in fondo la propria capacità critica ovvero di non aver raccolto abbastanza il proprio stesso appello all’uscita da uno stato di minorità (in questo caso rispetto allo stato di cose presenti) unendo teoria e pratica, critica filosofica e critica rivoluzionaria. Insomma, di aver suggerito la strada, ma di non averla percorsa.
Note
[1] Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? In Sette scritti politici liberi, a cura di Maria Chiara Pievatolo, Firenze University Press, 2011.
[2] Sette scritti politici liberi, pag. 53.
[3] Ibidem, pag. 55.
[4] Ibidem, pag. 55.
[5] Essendo tedesco Kant usa la parola Aufklärung per indicare il rischiaramento, l’illuminazione, l’Illuminismo.
[6] Sette scritti politici liberi, pag. 55.
[7] Ibidem, pag. 55.
[8] Ibidem, pag. 55.
[9] Ibidem, pag. 55.
[10] Ibidem, pag. 55.
[11] Cfr. Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I quaderni neri, Bollati Boringhieri.
[12] Su Kant, La metafisica dei costumi, cfr. http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_mds/intero.xhtml
[13] Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli.
[14] Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male.
[15] Cfr. Emmanuel Faye, Heidegger e l’introduzione del nazismo nelal filosofia.
[16] John Dewey, Reconstruction in Philosophy, Cosimo Classics, 2008.