Emmanuel Faye | Introduzione a Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée
Emmanuel Faye, Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée, Introduzione, ed. Albin Michel, agosto 2016, Traduzione dal francese di Antiper.
In questo inizio del XXI secolo, via via che sono apparsi scritti di Heidegger che confermano la radicalità del suo nazionalsocialismo e del suo antisemitismo – dai suoi seminari fino ai Quaderni Neri – i difensori dell’autore della Professione di fede dei professori tedeschi in Adolf Hitler [1] si sono aggrappati all’ampiezza della sua ricezione nel tentativo di salvarne lo status di grande pensatore. Alcuni sono arrivati ad affermare che tutti i filosofi francesi del XX secolo avrebbero intrattenuto un rapporto essenziale con Heidegger, dimenticando Bergson, Cavaillès, Jankélévitch e molti altri [2].
Ma in filosofia non sono autorevoli né la reputazione, né l’ampiezza della ricezione, che sono peraltro mutevoli. È passato il tempo in cui ci si poteva riferire tranquillamente e in modo positivo alla filosofia di Joseph Stalin [3]. Dobbiamo dunque distinguere nettamente l’esame critico dell’opera di Heidegger dalle questioni sollevate dall’ampiezza della sua ricezione. È sulla base di questa distinzione che abbiamo pubblicato, nel 2005, uno studio sui fondamenti nazisti dell’opera heideggeriana [4].
Ma ancora più critico del ricorrere all’argomento dell’autorità è il porre l’accento sugli studenti ebrei di Heidegger per mitigare le prove del suo antisemitismo, oggi ormai riconosciute. Generalmente si dimentica di ricordare che i suoi principali allievi e assistenti tedeschi non ebrei, Oskar Becker, Walter Bröcker, Hans-Georg Gadamer, si sono compromessi in vario modo con il Terzo Reich, per non parlare poi di vecchi studenti come Christoph Steding o Sigrid Hunke, che sono stati tra gli autori nazisti o neonazisti più influenti che la Germania abbia avuto [5].
D’altra parte, la questione della ricezione di Heidegger non può essere scartata del tutto. Oggi che la ricerca critica sugli scritti dell’autore di Essere e tempo sembra essersi affermata in modo serio può essere necessario cominciare ad esaminare tale ricezione per quello che è. A tal proposito ciò che conta è soprattutto evitare generalizzazioni e confusioni. Ad esempio, non possiamo inserire nella lista dei presunti discepoli di Heidegger Jean-Paul Sartre che pure fece certamente molto per divulgarne le idee nel 1943 e dopo la Liberazione – sviluppando però un serio rapporto critico con il suo pensiero e pubblicando su Les Temps modernes [già] nel 1947 una prima importante polemica a proposito del suo nazismo –e metterlo sullo stesso piano di Jacques Derrida che fino alla fine riconobbe Heidegger come suo “maestro” [6] e attaccò a testa bassa studiosi coraggiosi come Victor Farias [7]. In genere si tralascia di ricordare che anche quest’ultimo fu un allievo ebreo di Heidegger, ma anche un ascoltatore che seppe non farsi ammaliare e che ebbe il coraggio di resistergli. Certamente Derrida voleva essere un “critico” di Heidegger e possiamo [persino] considerarlo tale se lo confrontiamo con Jean Beaufret. È tutta una questione di gradazioni. Tuttavia, mentre la critica di Sartre è stata portata da un punto di vista significativamente diverso da quello dell’autore della Lettera sull’umanesimo e la sua coscienza individuale non è stata compromessa, Derrida si è applicato [solo] nel superamento delle tarde tematiche del Nietzsche del 1961 [8]. [Derrida] Riprende da Heidegger il motivo del “superamento della metafisica”, stigmatizzando, in Dello spirito, il suo “gesto ancora metafisico” e mettendolo sullo stesso piano del “sostegno al nazismo” [9]. Quando Derrida pensa contro Heidegger, quest’ultimo resta sempre e comunque fonte di ispirazione per la sua critica [10].
È quindi importante proporre, con tutto il rigore necessario, uno studio specifico di ciascuno dei principali attori della ricezione dell’autore di Essere e Tempo. A questo proposito un nome spicca tra tutti: quello di Hannah Arendt. Heidegger non avrebbe mai potuto costruire da solo la propria reputazione di maggior pensatore del XX secolo. In questo fu molto aiutato e se il ruolo di Jean Beaufret e, su un altro piano, più accademico, quello di Hans-Georg Gadamer furono sicuramente determinanti rispettivamente in Francia e in Germania, la figura che avrà maggiormente contribuito, dopo il 1945, alla diffusione planetaria del pensiero di Heidegger è senza dubbio quella di Hannah Arendt. Fu lei che si impegnò a farlo tradurre in inglese, sollecitando gli editori, rivedendo le traduzioni, difendendolo dai suoi critici in molti scambi epistolari, in particolare con il suo amico (e traduttore di Heidegger) Jesse Glenn Grey [11]. La sua apologia di Heidegger, pronunciata e pubblicata nel 1969 – in cui lo dipinge come il “segreto re” della filosofia, lo eleva al rango di un novello Platone, relega il suo nazismo al livello di una “scappatella” e parla della “tempesta sollevata dal [suo] pensiero” – fece molto più di qualsiasi altro testo per affermarlo come leggenda vivente [12].
A leggere Arendt, però, ci si imbatte in una questione che costituirà una delle domande guida di questo libro: come è riuscita a conciliare la difesa iperbolica di Heidegger con la critica del “totalitarismo” [13] nazionalsocialista? Queste due dimensioni fondamentali dell’opera di Arendt sembrano infatti contraddirsi reciprocamente: da un lato, troviamo la sua descrizione delle dinamiche distruttive dei movimenti hitleriano e stalinista nel XX secolo, entrambi qualificati come totalitari; dall’altro, c’è l’apologia di Heidegger del 1969, scritta in occasione del suo ottantesimo compleanno, nonostante l’elogio di questi della “verità e grandezza interna” del movimento nazionalsocialista, pubblicato nel 1953. Potrebbe essere, tuttavia, che questa contraddizione non sia che apparente e che l’interpretazione di Arendt del nazionalsocialismo e l’esonero di Heidegger da ogni responsabilità siano collegati.
Per questa ragione è deplorevole che queste due dimensioni fondamentali degli scritti di Arendt, la sua visione del totalitarismo nazionalsocialista e il suo rapporto intellettuale con Heidegger, finora siano state studiate congiuntamente o confrontate l’una con l’altra molto poco.
Il libro di Dana R. Villa, una delle opere teoriche più elaborate dedicate ad Arendt e Heidegger, scarta d’emblée l’esame degli scritti di Arendt sul nazionalsocialismo e il totalitarismo, concentrandosi [solo] sulla teoria dell’azione politica esposta in Vita activa. La condizione umana [14]. In modo analogo, gli studi di Jacques Taminiaux, spesso considerati come ineludibili, si limitano ai saggi meno distanti dai temi della filosofia: Vita activa. La condizione umana e La vita della mente [15]. Fatta eccezione per la lunga nota sulla “scappatella” politica del rettore di Friburgo nel discorso apologetico del 1969, Taminiaux non dice una parola degli scritti che si riferiscono al nazismo, come Le origini del totalitarismo o La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
Questa lacuna nello studio del corpus arendtiano non consente una comprensione soddisfacente dei temi fondamentali della sua opera. In essa, infatti, i diversi registri a cui appartengono i suoi scritti comunicano tra loro, il più delle volte in modo tacito, ma talvolta anche [in modo] esplicito, come quando afferma, all’inizio di La vita della mente, di essersi interessata all’attività della mente del pensare a seguito del processo Eichmann [16].
Tuttavia, nei suoi libri dedicati più direttamente al nazionalsocialismo, Le origini del totalitarismo e La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, la Arendt non cita mai Heidegger, mentre nel primo di questi lavori cita a più riprese un altro grande autore nazista, Carl Schmitt, e in modo lusinghiero [17]. Viceversa, nei suoi due articoli più famosi su Heidegger, quello critico del 1946 – Che cos’è la filosofia dell’esistenza? – e quello apologetico e già citato del 1969 – Heidegger a 80 anni – è solo fugacemente, in una nota a piè di pagina, che accenna al rapporto dell’autore di Essere e tempo con il nazionalsocialismo, come a suggerire che questa domanda rientrerebbe in una riflessione diversa da quella che ha che fare con il suo pensiero.
L’unico testo in cui la Arendt evoca sia il nazionalsocialismo sia la responsabilità intellettuale e politica di Martin Heidegger nei confronti del movimento nazista non è altro che una doppia recensione che pubblicò a New York nel 1946 con il titolo L’immagine dell’inferno [L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo]. Non può quindi esserci introduzione migliore all’analisi della coerenza della sua opera che analizzare questo scritto. Questo ci porterà anche a riconsiderare la visione che la Arendt ha inteso dare dei campi di concentramento e di sterminio nazionalsocialisti.
Più in generale, mostreremo come l’interpretazione arendtiana della genesi dell’antisemitismo contemporaneo si sia radicalmente trasformata dal suo saggio incompiuto in lingua tedesca della fine degli anni ‘30 – Antisemititismus – al suo trittico del dopoguerra – Le origini del totalitarismo –. Proporremo un’analisi critica del libro nel suo insieme e affronteremo i problemi posti dalla sua deresponsabilizzazione delle élite intellettuali del Terzo Reich e dalla sua riproposizione di una visione della modernità sotto il segno dell’“assenza di patria” (Heimatlosigkeit) dell’uomo moderno, condivisa in gran parte con Heidegger.
In un secondo momento, proporremo un’introduzione aggiornata alla “metapolitica” heideggeriana, a partire dalle sue enunciazioni sul tema dello sterminio (Vernichtung), dai suoi corsi dei primi anni ‘30 fino ai Quaderni neri di recente pubblicazione. Ci interrogheremo anche sul significato della posizione [assunta inizialmente già] in Essere e Tempo e ripresa nei primi Quaderni neri contro le “categorie” di Kant e a favore degli “esistenziali” di Heidegger, [così come] contro la domanda guida della filosofia kantiana – “Cos’è il uomo?” – a favore di quella tematizzata da Heidegger in chiave identitaria e völkisch [18] – “Chi siamo?” –.
In un terzo momento ci accosteremo ai rapporti di Hannah Arendt con Heidegger dopo il 1945. Lontano dal romanticismo solitamente proposto in numerosi libri, opere teatrali e film (ma anche in più di un saggio) dimostreremo, a partire da lettere inedite, che l’allineamento di Arendt alla visione heideggeriana della modernità e dello smantellamento del “pensiero occidentale” è basata su un’adesione intellettuale antecedente al “reincontro” di Friburgo del febbraio 1950. Seguiremo l’introduzione realizzata da Hannah Arendt di esistenziali heideggeriani come “essere-nel-mondo” e “essere-in-comune” (Mitsein) nel campo delle scienze politiche e le implicazioni per l’esistenza umana, della separazione radicale che lei opera, in La condizione umana, tra [piano] politico e sociale.
A quel punto potremo riconsiderare, sulla base di questa ricerca critica, la rilevanza storica e filosofica del dispositivo apologetico che la Arendt costruisce, [a partire] dalla sua relazione sul processo a Eichmann nel 1963 e dalla sua laudatio di Heidegger nel 1969, fino alla sua opera postuma La vita della mente. Arendt costruisce infatti un’antitesi radicale tra Heidegger ed Eichmann, il primo magnificato come “re segreto […] nel regno del pensiero [19]”, il secondo ridotto alla versione caricaturale di un banale burocrate ed esecutore caratterizzato dalla propria “assenza di pensiero [20]”. Si tratterà di esaminare cosa succede al pensiero quando viene strumentalizzato in questa struttura bipolare, una sorta di nuovo mito moderno, tra il “pensatore” ritirato sulle alture innevate nella sua capanna di Todtnauberg e il “pagliaccio” intrappolato nella sua gabbia di vetro.
Note
[1] Bekenntnis der Professoren an den deutschen Universitäten und Hochschulen zu Adolf Hitler und dem nationalsozialistischen Staat, Überreicht vom Nationalsozialistischen Lehrerbund Deutschland/Sachsen, Dresden -A., Zinzendorfstraße 2, 1933. Le texte numérisé de la réédition traduite en cinq langues de 1934 est consultable sur http://www.archive.org/stream/bekenntnisderpro00natiuoft#page/n3/mode/2up. La contribution de Heidegger a été traduite et publiée pour la première fois en France par Jean-Pierre Faye (Martin Heidegger, «Discours et proclamations», Médiations. Revue des expressions contemporaines, automne 1961, p.142-145).
[2] Alain Badiou et Barbara Cassin affirment par exemple que «toute la création philosophique française entre les années trente et les années soixante-dix du dernier siècle […] a entretenu un rapport essentiel, fût-il critique, avec l’entreprise de Heidegger» (Heidegger. Le nazisme, les femmes, la philosophie, Paris, Fayard, 2010, p.19). Il est discutable d’amalgamer ainsi critiques et apologistes.
[3] En 1967, Louis Althusser estimait que «Staline peut être tenu pour un philosophe marxiste extraordinairement perspicace» («La Querelle de l’humanisme», Écrits philosophiques et politiques, t.II, Paris, Librairie générale française, 1997, p.470).
[4] Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Paris, Albin Michel, 2005; 2eéd. revue et augmentée d’une préface, Paris, Le Livre de Poche, 2007 (traduit en cinq langues).
[5] Voir la «Note biographique sur quelques élèves et assistants allemands non juifs de Heidegger», p.537.
[6] Il dit en effet: «mon contremaître Heidegger» (Jacques Derrida-Catherine Malabou, La Contre-allée, Paris, La Quinzaine littéraire-Louis Vuitton, 1999, p.57; cité par Dominique Janicaud, Heidegger en France. I.Récit, Paris, Albin Michel, 2001, p.524).
[7] «Pour l’essentiel des “faits”, je n’ai encore rien trouvé dans cette enquête qui ne fût connu, depuis longtemps, de ceux qui s’intéressent sérieusement à Heidegger. […] La lecture proposée, s’il y en a une, reste insuffisante ou contestable, parfois si grossière qu’on se demande si l’enquêteur lit Heidegger depuis plus d’une heure» («Un entretien avec Jacques Derrida. Heidegger, l’enfer des philosophes», Le Nouvel Observateur, 6-12novembre 1987). Le livre de Farías, Heidegger et le national-socialisme, Paris, Verdier, 1987, demeure une mine de renseignements, surtout pour sa troisième partie. Mal traduit en français, il demande à être consulté de préférence dans l’édition allemande, revue et augmentée, parue en 1989 avec une préface de Jürgen Habermas (Victor Farías, Heidegger und der Nationalsozialismus, trad. par Klaus Laermann, Francfort-sur-le-Main, S.Fischer, 1989).
[8] Martin Heidegger, Nietzsche I et II, Pfullingen, Günther Neske, 1961; trad. fr. par Pierre Klossowski, Paris, Gallimard, 1971, 2vol.
[9] «[Heidegger] capitalise le pire, à savoir les deux maux à la fois: la caution au nazisme et le geste encore métaphysique» (Jacques Derrida, Heidegger et la question. De l’esprit et autres essais, Paris, Flammarion, 1990, p.54).
[10] Jean-Michel Salanskis parle à ce propos de «connivence maintenue» (Heidegger, le mal et la science, Paris, Klincksieck, 2009, p.13).
[11] Cette réalité est bien documentée dans Martin Woessner, «An Officer and a Philosopher: J.Glenn Grey and the Postwar Introduction of Heidegger into American Thought», Heidegger in America, Cambridge, NewYork, Melbourne, Cambridge University Press, 2011, chap.4, p.132-159 (voir E.Faye, «Heidegger en Amérique. De la théologie au pragmatisme», La Quinzaine littéraire, 1erseptembre 2011; https://www.nouvelle-quinzaine-litteraire.fr/mode-lecture/heidegger-en-amerique-de-la-theologie-au-pragmatisme-174).
[12] Hannah Arendt, «Martin Heidegger a quatre-vingts ans», Vies politiques, trad. de l’allemand par Barbara Cassin et Patrick Lévy, Paris, Gallimard, 1974, p.307-320.
[13] Nous ne le ferons pas à l’avenir pour ne pas multiplier les signes typographiques, mais nous mettons cette fois entre guillemets ce terme qu’Arendt a tant contribué à populariser, pour souligner qu’il ne s’agit pas d’un concept dont l’existence et la signification qu’elle lui prête iraient de soi.
[14] Dès la première page de son livre, Dana R.Villa annonce franchement: «je ne me suis intéressé que de façon très limitée aux Origines du totalitarisme et à Eichmann à Jérusalem» (Dana R.Villa, Arendt et Heidegger. Le destin du politique, Paris, Payot, 2008, p.9). L’approche de Richard J.Bernstein apparaît plus pertinente, pour qui «pratiquement tous les éléments de sa [Arendt] compréhension de l’action, de la liberté, de l’espace public et de la politique qui sont thématisés dans La Condition de l’homme moderne et dans l’essai De la révolution sont implicites et proviennent de son étude du totalitarisme nazi» (Richard J.Bernstein, Hannah Arendt and the Jewish Question, Cambridge Mass., MIT Press, 1996, p.11, nous traduisons).
[15] Jacques Taminiaux, La Fille de Thrace et le Penseur professionnel. Arendt et Heidegger, Paris, Payot, 1992.
[16] «Concrètement, c’est pour deux raisons assez différentes que je m’intéresse aux activités de l’esprit. Tout a commencé quand j’ai assisté au procès Eichmann à Jérusalem» (H.Arendt, La Vie de l’esprit, trad. par Lucienne Lotringer, Paris, PUF, 2007, p.20).
[17] Cf. H.Arendt, Les Origines du totalitarisme, Eichmann à Jérusalem, Pierre Bouretz éd., Paris, Gallimard, coll. «Quarto», 2002. Le livre le plus foncièrement nazi de Schmitt, État, mouvement, peuple, est cité comme une source par Arendt (ibid., p.539, 554, 559). Le Romantisme politique de Schmitt est également à l’honneur (ibid., p.428) – et plus encore, nous le verrons, dans l’édition allemande du livre –, tandis qu’Arendt prononce un hommage appuyé de Schmitt (ibid., p.655).
[18] Voir la «Note biographique sur quelques élèves et assistants allemands et non juifs de Heidegger», p.538.
[19] H.Arendt, «Heidegger a quatre-vingts ans», art.cité, p.310.
[20] H.Arendt, La Vie de l’esprit, op.cit., p.21.