Antiper | Sull’universalismo comunista
Anche se per molti versi il comunismo moderno si distingue profondamente dai vari “comunismi” precedenti è pur vero che, per altri versi, ne costituisce lo sviluppo.
Ad esempio, l’abolizione della proprietà privata è certamente un elemento distintivo e permanente di una concezione “comunista” [1]; come si potrebbe infatti pensare una società comunista che preservasse la possibilità della proprietà privata [2]? D’altra parte il modo in cui questa richiesta viene avanzata – ad esempio, “abolizione per tutti” o “abolizione solo per una parte” – cambia, e di molto, la situazione.
Quella che la proprietà privata sia uno straordinario elemento di disarmonia e di conflitto sociale costituisce una delle più geniali intuizioni filosofiche di Platone; un’intuizione geniale e precoce in quanto operata in una società ancora molto primitiva dal punto di vista della proprietà.
“Chi segue la strada in discesa si trova di fronte al compito di mostrare a uomini (antropologicamente?) interessati al denaro e al potere che la giustizia è preferibile all’ingiustizia, e che la filosofia ha una utilità politica, in quanto solo i filosofi – con alcuni accorgimenti istituzionali quali l’abolizione della famiglia e della proprietà privata – possono essere i governanti immuni da conflitto di interessi di cui la città ha bisogno” [3]
D’altra parte, la proposta di abolizione della proprietà privata contenuta nella Repubblica fa parte di una concezione che qualcuno ha definito comunismo aristocratico; la proposta di Platone è animata da uno spirito – il “governo dei migliori” – del tutto opposto a quello che anima la proposta marxista di comunismo che si caratterizza per essere, anzitutto, una proposta per l’umanità intera: una proposta, dunque, universalistica.
Se si afferma che l’“universalismo marxista moderno” deriva, dialetticamente, dall’universalismo borghese, non si afferma una cosa sbagliata
«…la sola vera genesi del comunismo marxista moderno è l’elaborazione dell’impossibilità dell’universalismo borghese» [4]
Si tratta di una frase interessante che potremmo declinare anche in questo modo: il socialismo non è il prosieguo con altre classi del percorso di “illuminazione” (Aufklärung) dell’umanità, ma una rottura che si rende possibile grazie al fallimento del capitalismo. Dunque, potremmo dire, è dalle macerie del capitalismo che nasce la possibilità storica del suo superamento
«Il comunismo novecentesco di derivazione marxiana resta a nostro parere il solo vero universalismo che si possa oggi proporre, e questo perché esso deriva dialetticamente dall’unico universalismo prodotto dalla storia mondiale, l’universalismo borghese europeo elaborato sulla nozione e sulla pratica di ‘ente naturale generico’ e poi rivelatosi inattuabile per aver identificato libertà individuale con libertà privata, in modo che il presupposto per l’espansione dell’individuo è il fatto di poter ‘privare’ altri individui degli stessi diritti”» [5]
La differenza – essenziale – è che mentre l’universalismo comunista deve essere reale (o non è comunista), quello borghese non può essere che formale e si manifesta nella realtà solo come falso universalismo, come universalismo mancato.
In astratto “la legge è uguale per tutti” [6], ma in concreto non tutti sono uguali di fronte alla legge dell’accumulazione capitalistica(che è poi la legge fondamentale del modo di produzione capitalistico – la legge “strutturale”, diciamo – da cui derivano tutte le altre leggi – “sovra-strutturali” –).
A proposito di libertà formali valga ricordare la riflessione di Marx sul rapporto tra dipendenza e indipendenza personale
«I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati.
L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità.
La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo» [7].
Contro l’universalismo comunista si collocano, da un lato, l’universalizzazione capitalistica e lo pesudo-universalismo cristiano-occidentale; dall’altro, si collocano le varie forme di post-modernismo che condividono principi di tipo relativistico e differenzialistico (e che tanto successo riscuotono nel panorama dell’asin/istra).
L’universalizzazione capitalistica ovvero l’estensione ad ogni ambito della vita sociale dei principi di funzionamento dell’accumulazione capitalistica, la completa mercificazione di ogni relazione umana, il dominio delle “leggi del mercato” (che vengono assunte come “oggettive” e “impersonali” e che in realtà si manifestano come vincoli oggettivi derivanti da ben precise strategie politiche) è un processo di cui la cosiddetta “globalizzazione” costituisce una delle manifestazioni più plateali.
Si tratta di un processo di universalizzazione-generalizzazione che si realizza attraverso la sottomissione reale al modello politico-culturale e socio-economico dominante in Occidente, beninteso, applicato nella specifica variante locale e realizzato quasi sempre attraverso l’uso della forza, esercitata in nome di interessi che, guarda caso, non sono mai economici, finanziari, commerciali… ma sempre e solo “umanitari”.
Lo pseudo-universalismo cristiano-occidentale, che sembrerebbe avere poco a che vedere sul piano formale con l’universalizzazione delle leggi del capitale, vi ha invece molto a che vedere sul piano sostanziale perché la prima è utilizzata spesso come copertura ideologica del secondo. In nome di Valori come la Democrazia, i Diritti Umani, la Guerra contro il Terrorismo, ecc… vengono dispiegate “missioni umanitarie” e interventi che invece hanno solo la funzione di rafforzare la penetrazione imperialista dell’Occidente.
Proposte oggi un po’ sbiadite come quelle dei cosiddetti “teocon” hanno a vedere molto più con la crisi economica e politica dell’imperialismo che non con Dio. Per sincerarsene basti considerare che questi gran campioni dei Valori Cristiani non esitano a sviluppare, ove ritenuto utile, alleanze con i “nemici di fede” – da Israele all’Arabia Saudita, da Bin Laden ai talebani, dalle petro-monarchie arabe ai dittatori di mezzo mondo – spesso scaricando le realtà missionarie e sempre combattendo i “fratelli di fede” che, come i seguaci della teologia della liberazione, si oppongono alle ingiustizie prodotte dal sistema capitalistico.
Per non parlare poi delle alleanze ibride laico-cristiane promosse da esponenti del giornalismo e della “cultura” come, tanto per fare qualche nome italiano, Oriana Fallaci o Giuliano Ferrara [8]. Pur senza formulare facili ipotesi sul peso che in talune “conversioni” hanno avuto questioni di ordine politico-elettorale o giornalistico-commerciale è tuttavia evidente il tentativo di dare legittimazione ideologica – nel caso specifico politico-religiosa – ad una serie di iniziative che tutto hanno a che vedere meno che con le questioni di fede [9].
Il filosofo berlusconiano Marcello Pera, ad esempio, esponente di una cultura politica che si auto-definisce “liberale” e che si auto-considera molto attenta alla separazione tra “cose della Chiesa” e “cose dello Stato” è stato uno degli esponenti di punta di un movimento culturale che si proponeva di affermare la superiorità del modello “cristiano-occidentale”
«[…] siccome né per laici né per credenti, c’è Occidente senza cristianesimo – io ritengo che il cristianesimo possa contribuire in maniera decisiva a curare la sofferenza dell’Occidente»
«[…] si può allora dire oggi che il modello occidentale è migliore di quello islamico, come ieri si diceva che la democrazia occidentale è migliore del comunismo?» [10]
Negli scorsi anni, personalità come Marcello Pera e Joseph Ratzinger avevano costruito una “santa alleanza” per muovere guerra al relativismo senza rendersi conto che il relativismo è l’inevitabile esito della cosiddetta “fine delle ideologie” che costituisce la versione destrorsa della diagnosi post-moderna11 sinistrorsa. Se si propugna la fine delle ideologie (per lasciare in campo la sola ideologia del capitale) allora è normale che a farne le spese siano anche le proposte universalistiche reazionarie come quelle, appunto, teocon.
E del resto che il relativismo etico e culturale rappresenti la tendenza egemonica della cultura contemporanea non è cosa che debba stupirci. Come afferma Giulio Giorello in modo probabilmente eccessivo
«Il relativismo è l’Occidente e Pera non lo capisce. Se avesse davvero approfondito Popper, avrebbe capito che il relativismo è la vera radice dell’Occidente, dei Sofisti, di Socrate, degli scettici» [12].
Al relativismo è possibile, innanzitutto, opporre una contestazione di ordine logico-metodologico:
«Le teorie negative della razionalità, espresse da enunciati come: “la verità non esiste”, “non esistono criteri universali”, “ogni tesi è falsificabile”, “ogni acquisizione è contestuale, transitoria, relativa”, sono facilissime da confutare grazie al procedimento aristotelico detto “elenchos”, che consiste nell’applicarle a sé stesse. È ovvio che se “la verità non esiste” descrive con pretese di verità uno stato di cose, allora è auto-contraddittorio; è ovvio che “non esistono criteri universali” è l’enunciazione di un criterio universale, e che se anche “ogni tesi è falsificabile” è falsificabile, allora non è vero (possono esistere tesi non falsificabili), se non è falsificabile è comunque falso, e non si vede la necessità di formulare un simile falso principio. Eppure nichilismo, fallibilismo radicale, contestualismo, relativismo, sono posizioni serie, che periodicamente si ripresentano nella storia del pensiero» [13].
Ma il problema, evidentemente, non è tanto di tipo logico quanto di tipo politico. Il relativismo esprime, fuori da ogni retorica sul pluralismo e sul multi-culturalismo, la sostanziale indisponibilità ad un confronto reale con le idee, le storie, le pratiche… altrui in nome del diritto a difendere ad ogni costo le proprie idee, la propria storia, la propria pratica… con alcuni intellettuali che finiscono nella grottesca situazione di indicare al mondo percorsi e scelte di vita cui non intendono minimamente sottomettersi [14].
Non deve apparire paradossale che la lotta sviluppatasi dalla fine degli anni ‘90 del ‘900 ad oggi contro quella particolare forma di universalizzazione capitalistica che viene chiamata globalizzazione sia stata spesso condotta da settori che in definitiva, per reddito e per collocazione culturale e sociale, erano sostanzialmente interni alle dinamiche e – perché no? – talvolta anche ai benefici (magari indiretti) della globalizzazione; ed è quindi tutto sommato normale che alcuni settori no global si siano successivamente ri-orientati su un versante new global [15] e abbiano cominciato a considerare la globalizzazione capitalistica un fenomeno complessivamente positivo con alcune storture da correggere [16].
La recente ondata “populista” è un fenomeno di “rinculo” della globalizzazione che mette in movimento enormi masse di persone spaventate (come la “classe media” WASP [17] e ampi settori di piccola borghesia europea in via di proletarizzazione) che cominciano ad accorgersi della differenza che c’è tra l’andare in giro per il mondo a depredare tutto in nome di Dio e della Democrazia e l’essere costretti a competere con economie che – attraverso il proprio auto-sfruttamento e non attraverso la guerra [18] – picconano a più non posso il sogno amerikano.
Quando Pera scrive
«Con un errore madornale, che però rivela il suo stato d’animo, la cultura dominante in Occidente invece pensa il contrario. Pensa che un “deve” discenda da un “è”, per cui, se si sostiene che l’Occidente è migliore dell’Islam – oppure, per scendere nel concreto, che la democrazia è migliore della teocrazia, una costituzione liberale migliore della sharia, una decisione parlamentare migliore di una sura, una organizzazione internazionale migliore della humma, una sentenza di un tribunale indipendente migliore di una fatwa, eccetera –, allora ci si deve scontrare con l’Islam» [19]
Ad essere onesti i comunisti si spingono ben più avanti di Marcello Pera; siccome lo scontro che individuano non è tra una pretesa “civiltà cristiano-occidentale” e una civiltà “islamica” o “indù” o “buddista”, ma tra sfruttati e sfruttatori dovunque geograficamente o religiosamente collocati, e siccome concepiscono la società potenziale (il comunismo, appunto) come una società migliore di quella attuale (il capitalismo) non solo si collocano in una logica migliore-peggiore – quindi in una logica non relativistica – ma anzi si organizzano per lo scontro con il capitalismo e, nella misura delle loro possibilità, cercano di alimentarlo. Per semplificare: nessun rispetto per le opinioni del padrone che sfrutta il lavoratore.
Non deve dunque scandalizzarci la pretesa di “superiorità” dell’Occidente avanzata a bassa voce da Marcello Pera e altri (possiamo fare i nomi che egli stesso fa, ovvero Max Weber e Samuel Huntington) così come non deve scandalizzarci il fatto che le “resistenze islamiche” usino toni verso l’Occidente da “guerra di religione”.
Come ci insegna Friedrich Engels [20] lo scontro tra ideologie è sempre la maschera di uno scontro politico e sociale, nel nostro caso tra l’imperialismo e una serie di resistenze nazionali recalcitranti al dominio occidentale. In questo scontro la religione torna ad essere usata come “collante” ed è del tutto naturale che l’imperialismo cerchi di tornare a coalizzare le proprie masse su posizioni specularmente opposte a quelle nemiche; noi, i cristiani, e loro, gli infedeli.
I comunisti non devono temere di rivendicare il proprio universalismo che si basa sulla ferma convinzione che socialismo e comunismo siano per il genere umano società migliori di quelle capitalistiche (o teocratiche). Solo la critica rivoluzionaria dell’esistente apre la strada al non ancora esistente. E solo il pensiero del non ancora esistente permette di sviluppare la critica rivoluzionaria dell’esistente.
L’indifferenza relativistica – ogni idea vale tanto quanto un’altra – non è che l’espressione filosofica di una certa logica capitalistica: una merce per tutti. A chi piace Apple, a chi Samsung, a chi Huawei. Voilà l’illusione di scegliere.
Note
[1] Sulle differenze tra i comunismi precedenti e quello moderno Marx si sofferma nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 nella sezione “proprietà privata e comunismo” entro cui passa in rassegna quelli che individua come 3 stadi del comunismo (rozzo/utopistico, incompleto, dispiegato).
[2] Proprietà privata che è cosa ben distinta, forse non è superfluo sottolinearlo, dalla proprietà personale.
[3] Maria Chiara Pievatolo, La via verso l’alto: autonomia dell’anima e politica nella Repubblica di Platone, 3. Il principio: l’anima come philosophia, versione ipertestuale accresciuta di un testo dallo stesso titolo, contenuto in R. Gatti, G.M. Chiodi (a cura di), La filosofia politica di Platone, Milano, Angeli, 2008
https://btfp.sp.unipi.it/dida/viasc/ar01s03.xhtml
[4] Costanzo Preve, Il pianeta rosso. Saggio su marxismo e universalismo¸Vangelista, 1992.
[5] Costanzo Preve, Il pianeta rosso. Saggio su marxismo e universalismo¸Vangelista, 1992.
[6] Anche se molti elementi di disparità giuridica hanno continuato a sussistere anche dopo l’affermazione politica della borghesia. Pensiamo al suffragio universale e soprattutto al voto per le donne che dimostrano il carattere puramente auto-declamatorio dell’universalismo democratico nel mondo capitalistico.
[7] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), Nuova Italia, 1968, volume primo, pag. 98, [21], Il denaro come rapporto sociale.
[8] Cfr. Teocon in Italia, Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Teocon#Uso_in_Italia
[9] E del resto non può essere che così dal momento che il capitalismo moderno nasce proprio dalla lotta contro l’ancient regime e come superamento della fase feudale caratterizzata dalla supremazia politica della Chiesa, con il passaggio dalla teologia alla filosofia come ambito di confronto culturale e politico.
[10] Marcello Pera, Il relativismo, il cristianesmo e l’occidente, Lezione alla Pontificia Università Leteranense per i 150 anni di fondazione della facoltà di diritto civile, 12 maggio 2004.
[11] Cfr. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, 1981.
[12] Il relativismo che toglie i peccati del mondo, Intervista a Giulio Giorello, L’Unità, 11 giugno 2005.
[13] Nagel Thomas, L’ultima parola. Contro il relativismo (cit. nella recensione al libro di F. D’Agostini in L’indice, N.7, 1999).
[14] Se vogliamo, è l’esempio di Serge Latouche che vende e presenta in tutto il mondo, attraversolinee di comunicazione e di distribuzione iper-globali, libri che fanno appello allo starsene rinchiusi nella propria comunità locale come sana reazione alla globalizzazione.
[15] Laboratorio Marxista, Appunti per un’analisi sociale del movimento altermondialista, in Controvento n.10, maggio 2005.
[16] Esemplari, a tal riguardo, recenti interviste ad uno dei guru del fu movimento no global, Antonio Negri detto Toni.
[17] Il blocco sociale – White Anglo-Saxon Protestant (WASP) – su cui si è retto il sistema politico-sociale statunitense fino ad oggi (soprattutto nella sua variante di destra).
[18] E qui sta una differenza decisiva tra USA e Cina che non deve essere sottovalutata.
[19] Marcello Pera, ibidem.
[20] Cfr. Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania.