Friedrich Engels | Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca. Parte I
Questo scritto [*] ci conduce a un periodo che, cronologicamente, è lontano da noi una buona generazione, ma è diventato così estraneo alla generazione attuale in Germania come se fosse già vecchio di un secolo intero. Eppure fu il periodo della preparazione della Germania alla rivoluzione del 1848, e tutto ciò che è accaduto tra di noi dopo di allora è soltanto una continuazione del 1848, è soltanto l’esecuzione testamentaria della rivoluzione.
Come in Francia nel secolo XVIII, così in Germania nel secolo XIX la rivoluzione filosofica aprì la strada alla rivoluzione politica. Ma come apparvero diverse l’una dall’altra! I francesi in lotta aperta con tutta la scienza ufficiale, con la Chiesa e spesso anche con lo Stato; i loro scritti stampati oltre frontiera, in Olanda o in Inghilterra, ed essi stessi assai spesso alternando la libertà con un soggiorno alla Bastiglia. I tedeschi, invece: professori, maestri della gioventù insediati dallo Stato; i loro scritti accolti come testi di scuola, e il sistema che corona tutta la evoluzione, il sistema hegeliano, elevato persino in certo qual modo al grado di regia filosofia di Stato prussiana! E dietro a questi professori, dietro alle loro parole pedantescamente oscure, nei loro periodi pesanti e noiosi avrebbe dovuto celarsi la rivoluzione! E non erano dunque proprio coloro che passavano allora per i rappresentanti della rivoluzione, i liberali, i nemici più accaniti di questa filosofia che gettava la confusione negli spiriti? Ma ciò che non vedevano né il governo né i liberali, lo vide sin dal 1833 per lo meno un uomo. È vero ch’egli si chiamava Heinrich Heine!
Prendiamo un esempio. Nessuna proposizione filosofica si è mai tanto attirata la riconoscenza di governi gretti e la collera di altrettanto gretti liberali, quanto la tesi famosa di Hegel: «Tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale». Questa era manifestamente, infatti, l’approvazione di tutto ciò che esiste, la consacrazione filosofica del dispotismo, dello Stato poliziesco, della giustizia di gabinetto, della censura. E così l’interpretò Federico Guglielmo III, così i suoi sudditi. Ma per Hegel non tutto ciò che esiste è, senz’altro, anche reale. L’attributo della realtà viene da lui applicato solo a ciò che è, al tempo stesso, necessario, «la realtà si manifesta nel suo sviluppo come necessità»; una qualsivoglia misura di governo, – Hegel stesso dà l’esempio di «una determinata istituzione fiscale», – non è affatto per lui senz’altro una cosa reale. Ciò però che è necessario si rivela in ultima istanza anche come razionale, e applicata allo Stato prussiano di allora la tesi di Hegel significa soltanto: questo Stato è razionale, questo Stato corrisponde alla ragione, nella misura in cui è necessario; e se esso ci appare cattivo e ciò nonostante continua ad esistere, benché sia cattivo, la cattiva qualità del governo trova la sua giustificazione e la sua spiegazione nella corrispondente cattiva qualità dei sudditi. I prussiani d’allora avevano il governo che si meritavano.
Orbene, la realtà, secondo Hegel, non è per niente un attributo che si applichi in tutte le circostanze e in tutti i tempi a un determinato stato di cose sociale o politico. Al contrario. La repubblica romana era reale, ma l’impero romano che la soppiantò lo era ugualmente. La monarchia francese era diventata nel 1789 così irreale, cioè così priva di ogni necessità, così irrazionale, che dovette essere distrutta dalla grande Rivoluzione, della quale Hegel parla sempre col più grande entusiasmo. In questo caso dunque la monarchia era l’irreale, la rivoluzione il reale. E così nel corso della evoluzione tutto ciò che prima era reale diventa irreale, perde la propria necessità, il proprio diritto all’esistenza, la propria razionalità; al posto del reale che muore subentra una nuova realtà vitale: in modo pacifico, se ciò che è vecchio è abbastanza intelligente da andarsene senza opporre resistenza alla morte; in modo violento, se esso si oppone a questa necessità. E così la tesi di Hegel si trasforma, secondo la stessa dialettica hegeliana, nel suo contrario: tutto ciò che è reale nell’ambito della storia umana diventa col tempo irrazionale, è dunque già irrazionale per proprio destino, è sin dall’inizio affetto da irrazionalità; e tutto ciò che vi è di razionale nelle teste degli uomini è destinato a diventare reale, per quanto possa contraddire alla apparente realtà del giorno. La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve quindi secondo tutte le regole del ragionamento hegeliano nell’altra: tutto ciò che esiste è degno di perire.
Ma la vera importanza e il carattere rivoluzionario della filosofia hegeliana (alla quale, come conclusione di tutto il movimento da Kant in poi, ci dobbiamo qui limitare) consistevano appunto nel fatto che essa poneva termine una volta per sempre al carattere definitivo di tutti i risultati del pensiero e dell’attività umani. La verità che la filosofia doveva conoscere era per Hegel non più una raccolta di proposizioni dogmatiche bell’e fatte, che, una volta trovate, non vi è più che da mandare a memoria; la verità risiedeva ormai nel processo della conoscenza stessa, nella lunga evoluzione storica della scienza, che si eleva dai gradi inferiori della conoscenza a gradi sempre più alti, senza però giungere mai, attraverso la scoperta di una cosiddetta verità assoluta, al punto in cui non può più avanzare e non le rimane da fare altro che starsene colle mani in grembo e contemplare la verità assoluta raggiunta. E ciò tanto nel campo della filosofia come nel campo di ogni altra conoscenza e in quello dell’attività pratica. Allo stesso modo della conoscenza, la storia non può trovare una conclusione definitiva in uno stato ideale perfetto del genere umano; una società perfetta, uno «Stato» perfetto sono cose . che possono esistere soltanto nella fantasia; al contrario, tutte le situazioni storiche che si sono succedute non sono altro che tappe transitorie nel corso infinito dello sviluppo della società umana da un grado più basso a un grado più elevato. Ogni tappa è necessaria, e quindi giustificata per il tempo e per le circostanze a cui deve la propria origine, ma diventa caduca e ingiustificata rispetto alle nuove condizioni, più elevate, che si sviluppano a poco a poco nel suo proprio seno; essa deve far posto a una tappa più elevata, che a sua volta entra nel ciclo della decadenza e della morte. Come la borghesia, mediante la grande industria, la concorrenza e il mercato mondiale, dissolve praticamente tutte le vecchie, stabili e venerabili istituzioni, così questa filosofia dialettica dissolve tutte le nozioni di verità assoluta, definitiva, e di corrispondenti condizioni umane assolute. Per questa filosofia non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire, dell’ascensione senza fine dal più basso al più alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante. Essa ha però anche un lato conservatore: essa giustifica determinate tappe della conoscenza e della società per il loro tempo e per le loro circostanze, ma non va più in là. Il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è assoluto: il solo assoluto ch’essa ammetta.
Non abbiamo bisogno di discutere qui se questa concezione si accorda completamente con lo stato attuale delle scienze naturali, che predicono una fine possibile all’esistenza della terra stessa, una fine però abbastanza sicura alla sua abitabilità, e quindi riconoscono anche alla storia umana non solo un ramo ascendente, ma anche un ramo discendente. Ci troviamo ad ogni modo ancora abbastanza lontani dal punto culminante, a partire dal quale la storia della società incomincerà a declinare, e non possiamo pretendere che la filosofia di Hegel si occupasse di un argomento che ai suoi tempi le scienze naturali non avevano ancora messo all’ordine del giorno.
Ma ciò che qui veramente si può dire è che la evoluzione testé esposta non si trova in Hegel con questa nettezza. Essa è una conseguenza necessaria del suo metodo, ma una conseguenza ch’egli stesso non ha mai tratto in modo così esplicito. E ciò pel semplice motivo che egli era costretto a costruire un sistema; e un sistema di filosofia, secondo le esigenze tradizionali, deve conchiudersi con una specie qualunque di verità assoluta. Per quanto Hegel, specialmente nella Logica, insista nell’affermare che questa verità eterna non è altro che lo stesso processo logico, e rispettivamente storico, egli si vede però costretto a dare a questo processo una fine, appunto perché deve giungere col suo sistema a una fine in un punto qualunque. Nella Logica egli può fare di questa fine, a sua volta, un principio, perché qui il punto conclusivo, l’idea assoluta, – che è assoluta solo in quanto egli non sa dire assolutamente niente di essa, – si «estrinseca», cioè si trasforma nella natura, e poi ritorna di nuovo in se stessa nello spirito, cioè nel pensiero e nella storia. Ma alla fine di tutta la filosofia un cosiffatto ritorno al punto di partenza è possibile solo per una via, cioè facendo consistere la fine della storia nel fatto che il genere umano giunge alla conoscenza precisamente di questa idea assoluta, e dichiarando che questa conoscenza dell’idea assoluta è raggiunta nella filosofia hegeliana. Ma con ciò si dichiara verità assoluta tutto il contenuto dogmatico del sistema hegeliano, in contraddizione col suo metodo dialettico, che dissolve ogni elemento dogmatico; in questo modo il lato rivoluzionario viene soffocato da una ipertrofia del lato conservatore. E ciò che vale per la conoscenza filosofica, vale anche per l’attività pratica storica. Il genere umano che, nella persona di Hegel, è arrivato sino alla elaborazione dell’idea assoluta, deve anche dal punto di vista pratico essere arrivato sino al punto di poter tradurre in realtà questa idea assoluta. Le esigenze politiche pratiche dell’idea assoluta verso i contemporanei non possono quindi essere esorbitanti. E così troviamo, alla fine della filosofia del diritto, che l’idea assoluta si deve realizzare in quella monarchia rappresentativa che Federico Guglielmo III promise con tanta ostinazione, ma invano, ai suoi sudditi, cioè in un dominio delle classi possidenti indiretto, temperato e moderato, adatto alle condizioni piccolo-borghesi della Germania d’allora; e così ci si dimostra anche, per via speculativa, la necessità della nobiltà.
Le esigenze interne del sistema bastano quindi da sole a spiegare come si giunga, con un metodo di pensiero essenzialmente rivoluzionario, a una conclusione politica molto modesta. La forma specifica di questa conclusione proviene d’altra parte dal fatto che Hegel era un tedesco e gli pendeva dietro, come al suo contemporaneo Goethe, un pezzo di codino di filisteo2. Tanto Goethe che Hegel furono, ognuno nel suo campo, un Giove olimpico, ma né l’uno né l’altro non si liberarono mai per intero dal filisteismo tedesco.
Tutto ciò non impedì tuttavia al sistema di Hegel di abbracciare un campo incomparabilmente più vasto che qualsiasi altro sistema precedente e di sviluppare in questo campo una ricchezza di pensiero che ancor oggi fa stupire. Fenomenologia dello spirito (che si potrebbe chiamare un parallelo della embriologia e della paleontologia dello spirito, uno svolgimento della coscienza individuale attraverso i suoi diversi gradi, concepito come riproduzione abbreviata dei gradi attraversati storicamente dalla coscienza degli uomini), logica, filosofia della natura, filosofia dello spirito, e quest’ultima a sua volta elaborata nelle sue singole forme storiche secondarie: filosofia della storia, del diritto, della religione, storia della filosofia, estetica, ecc.: in tutti questi differenti campi storici Hegel lavora a scoprire e mostrare il filo conduttore dell’evoluzione; e poiché egli non era soltanto un genio creatore, ma anche un uomo di dottrina enciclopedica, in ogni campo egli fa epoca. Si comprende da sé che grazie alle esigenze del «sistema» egli è costretto con frequenza a ricorrere a quelle costruzioni forzate, a proposito delle quali i suoi minuscoli avversari fanno ancora oggi un orribile baccano. Ma queste costruzioni sono solo la cornice e la impalcatura dell’opera sua; se non ci si arresta ad esse senza necessità, se si penetra più a fondo nel possente edificio, si scoprono tesori inapprezzabili, che conservano ancor oggi tutto il loro valore. In tutti i filosofi l’elemento caduco è proprio il «sistema», e precisamente perché emana da un bisogno imperituro dello spirito umano, il bisogno di rimuovere tutte le contraddizioni. Ma rimosse che siano, una volta per sempre, tutte le contraddizioni, siamo arrivati alla cosiddetta verità assoluta, la storia universale è finita, eppure bisogna che essa prosegua, sebbene non le resti più niente da fare: il che è una nuova, insuperabile contraddizione. Non appena abbiamo scorto, – e in definitiva nessuno ci ha aiutati a scorgerlo più dello stesso Hegel, – che il compito posto in questo modo alla filosofia non vuol dire altro se non che un singolo filosofo deve realizzare ciò che può essere realizzato soltanto dall’intero genere umano nel suo sviluppo progressivo, non appena scorgiamo questo, la filosofia intera, nel senso che finora si è dato a questa parola è finita. Si lascia correre la «verità assoluta», che per questa via e da ogni singolo isolatamente non può essere raggiunta, e si dà la caccia, invece, alle verità relative accessibili per la via delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a mezzo del pensiero dialettico. Con Hegel ha fine, in modo generale, la filosofia; da una parte perché egli nel suo sistema ne riassume tutta la evoluzione nella maniera più grandiosa, d’altra parte perché egli, sia pure inconsapevolmente, ci mostra la via che da questo labirinto dei sistemi ci porta alla vera conoscenza positiva del mondo.
Si comprende quale effetto enorme doveva avere questo sistema hegeliano nell’atmosfera tinta di filosofia della Germania. Fu un trionfo che durò per decenni e non s’arrestò minimamente con la morte di Hegel. Al contrario, è precisamente tra il 1830 e il 1840 che lo «hegelismo» regnò nel modo più incontrastato, contaminando in maggiore o minor misura i suoi stessi avversari; è proprio in questo periodo di tempo che idee hegeliane penetrarono più abbondantemente, in modo consapevole o inconsapevole, nelle scienze più diverse, impregnando di sé anche la letteratura popolare e la stampa quotidiana, da cui l’«opinione colta» corrente attinge il suo alimento intellettuale. Ma questa vittoria su tutta la linea era soltanto il preludio di una lotta interna.
Il complesso della dottrina di Hegel lasciava, come abbiamo visto, uno spazio considerevole per le più differenti concezioni pratiche di partito; e pratiche, nella Germania teoretica di quel tempo, erano soprattutto due cose: la religione e la politica. Coloro che davano importanza soprattutto al sistema di Hegel, potevano in entrambi questi campi essere conservatori; coloro per cui l’essenziale era il metodo dialettico, potevano appartenere, tanto in religione che in politica, all’opposizione estrema. Hegel stesso, malgrado gli scoppi di sdegno rivoluzionario abbastanza frequenti nelle sue opere, in fondo sembrava piuttosto incline al lato conservatore; il suo sistema infatti gli era costato assai più «acre lavoro del pensiero» che il suo metodo. Verso la fine del decennio 1830-1840 la scissione nella scuola hegeliana apparve sempre più marcata. L’ala sinistra, i cosiddetti Giovani hegeliani, nella lotta contro i pietisti ortodossi e i reazionari feudali rinunciarono, un pezzo dopo l’altro, a quel rispettabile ritegno filosofico verso le questioni ardenti del giorno, che sino allora aveva assicurato alla loro dottrina la tolleranza e persino la protezione dello Stato; e quando, nel 1840, la bigotteria ortodossa e la reazione feudale assolutistica salirono al trono con Federico Guglielmo IV, non si poté evitare di prender partito apertamente. La lotta venne ancora condotta con armi filosofiche, ma non più per fini filosofici astratti; si trattava in modo diretto della distruzione della religione tradizionale e dello Stato esistente. E se nei Deutsche Jahrbucher [Annali tedeschi] [3] gli scopi pratici finali si presentavano ancora prevalentemente in travestimento filosofico, la scuola dei Giovani hegeliani rivelò in modo diretto, nella Rheinische Zeitung del 1842, di essere la filosofia dell’ascendente borghesia radicale, ed ebbe bisogno del mantello filosofico soltanto più per ingannare la censura.
La politica era però allora un terreno assai spinoso, e perciò la lotta principale fu contro la religione; il che era pure, indirettamente, e in modo particolare dopo il 1840, una lotta politica. Il primo attacco lo aveva dato la Vita di Gesù di Strauss, nel 1835. Alla teoria della formazione dei miti evangelici svolta in questo libro si oppose più tardi Bruno Bauer, dimostrando che una grande parte delle narrazioni evangeliche vennero inventate dagli autori stessi. La contesa tra di loro venne condotta nel travestimento filosofico di lotta dell’«autocoscienza» contro la «sostanza»; la questione, se le storie miracolose degli Evangeli fossero sorte in seno alla comunità attraverso una creazione incosciente di miti tradizionali, oppure fossero state inventate dagli evangelisti stessi, venne trasformata nella questione, se la «sostanza» o 1’«autocoscienza» è la forza motrice decisiva della storia mondiale. Infine arrivò Stirner, il profeta dell’odierna anarchia, – Bakunin ha preso molto da lui, – e sorpassò la sovrana «autocoscienza» col suo «unico» sovrano [4].
Non insisteremo su questo aspetto del processo di decomposizione della scuola hegeliana. Più importante per noi è il fatto che la massa dei Giovani hegeliani più decisi venne ricondotta, dalle necessità pratiche della sua lotta contro la religione positiva, al materialismo anglo-francese. E qui essi vennero in conflitto col sistema della loro scuola. Mentre il materialismo concepisce la natura come la sola realtà, la natura rappresenta nel sistema hegeliano soltanto la «estrinsecazione» dell’idea assoluta, e quindi una specie di degradazione dell’idea. In ogni modo in questo sistema il pensiero e il suo prodotto intellettuale, l’idea, è l’elemento primordiale, la natura è l’elemento derivato, che non esiste, in generale, che per degradazione dell’idea. E in questa contraddizione, bene o male, ci si dibatteva.
Allora apparve l’Essenza del cristianesimo di Feuerbach. D’un colpo essa ridusse in polvere la contraddizione, rimettendo sul trono senza preamboli il materialismo. La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia; essa è la base sulla quale siamo cresciuti noi uomini, che siamo pure prodotti della natura; oltre alla natura e agli uomini, non esiste nulla, e gli esseri più elevati che ha creato la nostra fantasia religiosa sono soltanto il riflesso fantastico del nostro proprio essere. L’incanto era rotto; il «sistema» era spezzato e gettato in un canto; la contraddizione era rimossa, in quanto esistente soltanto nell’immaginazione. Bisogna aver provato direttamente l’azione liberatrice di questo libro, per farsi un’idea di essa. L’entusiasmo fu generale: in un momento diventammo tutti feuerbachiani. Con quale entusiasmo Marx salutasse la nuova concezione e quanto ne fosse influenzato, – malgrado tutte le riserve critiche, – lo si può vedere leggendo La sacra famiglia.
Gli stessi errori del libro contribuirono al suo effetto immediato. Lo stile fiorito, in certi passi persino ampolloso, assicurò un pubblico più largo, ed era pur tuttavia un conforto dopo i lunghi anni di hegelismo astratto e astruso. Lo stesso si dica della esuberante divinizzazione dell’amore che trovava una scusa, se non una giustificazione, di fronte alla sovranità, diventata insopportabile, del «pensiero puro». Ma ciò che non dobbiamo dimenticare è che precisamente su queste due debolezze di Feuerbach si innestò il «vero socialismo», che dal 1844 in poi si diffuse come un’epidemia nella Germania «colta», e che al posto della coscienza scientifica mise la frase letteraria, al posto della emancipazione del proletariato mediante la trasformazione economica della produzione mise la liberazione dell’umanità per mezzo dell’«amore», in una parola sprofondò in quella repugnante letteratura e ampollosità amorosa il cui rappresentante tipico fu il signor Karl Grun [5].
Non si deve dimenticare, inoltre, che la scuola hegeliana era dissolta, ma la filosofia hegeliana non era ancora stata superata criticamente. Strauss e Bauer avevano staccato ciascuno una delle sue parti e l’avevano rivolta in modo polemico contro l’altra. Feuerbach mandò in pezzi il sistema e lo gettò semplicemente in un canto. Ma non si viene a capo di una filosofia solamente col dichiararla falsa. E di un’opera così poderosa come la filosofia di Hegel, che aveva esercitato un’influenza così smisurata sulla evoluzione spirituale della nazione, non ci si poteva sbarazzare soltanto ignorandola puramente e semplicemente. Essa doveva venir «superata» nel suo proprio senso, annientandone criticamente la forma, ma salvando il nuovo contenuto acquisito per mezzo di essa. Vedremo poi come questo accadde.
Nel frattempo la rivoluzione del 1848 mise in un canto tutta la filosofia, con la stessa disinvoltura con cui Feuerbach aveva messo in un canto Hegel. E così anche Feuerbach fu ricacciato nel retroscena.
Note
[*] Ludovico Feuerbach di C.N. Starcke, Dr. phil., Stoccarda, Ferd. Enke, 1885 (Nota di Engels).
[1] Allusione allo scritto del celebre poeta tedesco Heinrich Heine: Per la storia della religione e della filosofia in Germania.
[2] Per filisteo la Bibbia intende il popolo nemico degli ebrei, intesi come il nemico per eccellenza. Per i romantici il filisteo rappresenta lo spirito meschino, conformista, ipocrita, incapace di guardare al di là del limitato interesse quotidiano che è proprio del piccolo borghese. Marx ed Engels impiegano questo termine nel significato romantico.
[3] Rivista pubblicata dal 1841 al 1843 dagli hegeliani di sinistra A. Rute e T. Echtermeyer
[4] Engels allude qui al libro di Max Stirner (pseudonimo di Kaspar Schmidt), L’unico e la sua proprietà, pubblicato nel 1845. Marx ed Engels ne fecero la critica nella Ideologia tedesca
[5] Karl Grùn (1817-1887), rappresentante del «vero socialismo», corrente reazionaria ed utopistica.