Wilhelm Liebknecht | Da “Karl Marx: Biographical memoirs”
Questo brano è tratto dalla biografia di Marx scritta da Wilhelm Liebknecht ed è contenuto in Colloqui con Marx ed Engels: Testimonianze sulla vita di Marx e Engels di Hans Magnus Enzensberger, Feltrinelli.
Nel frattempo anche Engels è morto, e con lui ci ha lasciato l’unica persona che ha avuto con l’uomo Marx e con la sua famiglia rapporti quasi (solo quasi) altrettanto stretti e intimi quanto i miei durante il periodo dell’esilio londinese, fino all’inizio degli anni sessanta. Dall’estate del 1850 fino agli inizi del 1862 (l’anno in cui tornai in Germania), infatti, non passò quasi giorno senza che frequentassi la casa di Marx, fino a diventare un vero membro della famiglia. Per molti anni passai in casa Marx quasi l’intera giornata. Oltre a me, naturalmente, la casa era frequentata anche da molti altri. La casa di Marx – un modesto alloggio nella modesta Dean Street del quartiere di Soho, fino a quando egli non si trasferì nel cottage di Maitland Park Road – era infatti un porto di mare, dove approdavano, in un continuo andirivieni, i tipi più disparati, fuggiaschi e fuggevoli, pesciolini, pesci grossi e grossissimi. Essa era inoltre il punto di riferimento naturale dei compagni residenti. Naturalmente anche la residenza aveva i suoi inconvenienti. A Londra era difficilissimo trovare un alloggio fisso, e la fame costringeva la maggior parte degli esuli ad andarsene in provincia o in America, quando non abbreviava le cose procurando al povero esule non solo la residenza ma un soggiorno permanente in uno dei tanti cimiteri di Londra. Io però tenni duro, e fui il solo della “comune” di Londra (con l’eccezione del fedele Lessner e del fedele Lochner, che per ò venivano più di rado) a frequentare il Moro (così chiamavamo Marx) come uno di casa per tutto quel periodo. Ci fu solo una breve interruzione, per i motivi che dirò nel seguito di queste brevi note. In queste condizioni ci si conosce bene, e si vede ciò che gli altri non vedono. […]
Non ho mai adorato idoli. Per buona sorte ho conosciuto grandi uomini così presto e così da vicino che la fede negli idoli e nelle divinità umane fu distrutta in me molto presto. Neppure Marx fu mai un idolo per me, benché, fra tutti gli uomini che ho avuto occasione di incontrare nel corso della mia vita, egli sia stato l’unico a colpirmi profondamente.
Ho avuto rapporti con lui per più di un decennio, in anni per me cruciali e in un’età nella quale abbiamo la massima sensibilità per le impressioni profonde e durature. Fui suo allievo in senso stretto e in senso lato. Fui il suo amico e il suo confidente, e anche dopo che fui ritornato in patria dall’Inghilterra continuai a mantenere continui e stretti rapporti con lui e con i suoi. Il ricordo che egli ha lasciato impresso nel mio animo è così forte e vivo, che posso sperare di fissarlo sulla carta senza che perda troppo in somiglianza e vivezza. […]
Anche se Marx era un profeta che sapeva scrutare il futuro con occhio lungimirante e scorgere ben oltre ciò che vedono i normali figli dell’uomo, egli non fu mai un divinatore. Quando i vari Kinkel, Ledru-Rollin e gli altri rivoluzionari a oltranza in ogni appello ai loro popoli in partibus lanciavano il tipico grido: “Domani è la volta buona!”, nessuno era più spietato di Marx nel prenderli in giro.
Solo parlando delle “crisi commerciali” egli si lasciò andare un paio di volte al vizio della divinazione: in quei casi eravamo noi a prenderlo in giro di santa ragione, facendolo andare su tutte le furie. Ma sul punto principale egli non sbagliava: le “crisi commerciali” da lui previste vennero, anche se non alla data stabilita, e i motivi del ritardo furono spiegati scientificamente da Marx in modo irrefutabile.
A questo proposito val la pena di ricordare che il verso contro i profeti di rivoluzioni contenuto nella famosa poesia di Freiligrath a Weydemeyer era stato ispirato quasi parola per parola da Marx, una sera in cui ci trovammo con il “Tirteo della ‘Neue Rheinische Zeitung’”; quest’ultimo aveva un orecchio finissimo per le espressioni utilizzabili nelle sue poesie, e il più delle volte se le annotava subito in un suo calepino.
Nessuno ha compreso come Marx la potenza mostruosa e la vitalità della società borghese. L’Inghilterra era del resto il luogo più adatto per comprenderla, poiché qui la società borghese si sviluppò nel modo più puro, potremmo dire in modo veramente classico. Anche se non riuscì a liberarsi di tutte le sopravvivenze del passato, nella sua essenza la società borghese britannica seppe liberarsi della farragine dei secoli e delle forme di società passate nel modo più completo e profondo possibile. […]
Marx attribuiva un’importanza straordinaria alla purezza e alla correttezza dell’espressione. Egli aveva eletto a suoi sommi maestri Goethe, Lessing, Shakespeare, Dante, Cervantes, che leggeva quasi ogni giorno. Per quanto riguarda la purezza e la correttezza della lingua, si ispirava allo scrupolo più meticoloso. Ricordo che una volta, nei primi tempi del mio soggiorno londinese, mi fece una predica perché avevo scritto “la riunione avuta luogo”. Cercai di addurre a mia discolpa l’uso comune, ma allora Marx perse del tutto le staffe: “Questi miserabili licei tedeschi, dove non si impara il tedesco! Queste miserabili università tedesche…” e via di questo passo. Mi difesi come potevo, trincerandomi anche dietro esempi dei classici… eppure da quella volta non ho mai più usato in vita mia l’espressione “avuta luogo” e ho dissuaso dal farlo non pochi altri. In quella battaglia sull’uso del participio passato riuscii però a salvare l’espressione “provetto [57] calzolaio”, chiamando in soccorso l’espressione “esperto [58] calzolaio”, che tuttavia Marx lasciava passare solo a malincuore.
Marx era un severo purista. Spesso cercava a lungo, faticosamente l’espressione esatta. Odiava usare parole straniere quando se ne poteva fare a meno, e se, ciò nonostante, ne faceva uso assai spesso, anche quando l’oggetto non lo richiedeva, bisogna tener presenti due cose: i lunghi anni passati all’estero, soprattutto in Inghilterra, e ancor più la parentela fra il tedesco e l’inglese, che induce facilmente a confondere il significato di certe parole. Nel Capitale, per esempio, Marx parla di uomini zusammengehudelt [59]: egli aveva in mente l’inglese huddle together, [60] che non ha proprio niente a che vedere con il nostro hudeln, [61] a parte la remota origine; hudeln significa “pigiarsi” come cavolo significa rapa. Ma che abbondanza infinita di nuovi costrutti e di nuove parole autenticamente tedesche troviamo in Marx! Benché abbia trascorso all’estero due terzi della sua vita, egli si è acquistato grandi meriti anche nel campo della lingua tedesca, sino a diventare uno dei suoi più illustri maestri e dei suoi più insigni creatori.
A volte era purista fino alla pedanteria. Il dialetto della Alta Assia, che mi rimaneva tenacemente attaccato (o io a lui), mi valse infinite rampogne. In queste tenzoni avevo per mia fortuna un alleato per il quale Marx nutriva un rispetto non meno profondo del mio: il mio conterraneo dell’Assia (anche se non nacque in terra ufficialmente assiana), il francofortese Wolfgang von Goethe. Usavo dei modi di dire (“hunten, unten, drunten – hoben, oben, droben – haussen, aussen, draussen – hüben, üben, drüben ecc.” [62]) che non mancavano mai di irritare Marx, il quale non li poteva soffrire; ma alla fine egli cedeva all’autorità di Goethe, non perché fosse convinto ma per spirito di tolleranza.
Se racconto simili inezie è perché esse mostrano come Marx si sentisse maestro nei confronti di noi “giovani”.
Ciò si manifestava, naturalmente, anche in altri modi. Egli era molto esigente. Appena aveva scoperto una lacuna nel nostro sapere, esigeva imperiosamente che fosse colmata – ma sapeva anche dare i consigli necessari allo scopo. Quando si restava soli con lui, si era sottoposti a un esame in piena regola. E non erano esami all’acqua di rose. Non si poteva dargliela a bere. Se egli notava che tutti i suoi sforzi non approdavano a nulla, anche per l’amicizia era finita. Ma per noi era un onore subire questo severissimo esame. Non trascorsi mai un’ora con lui senza imparare. E se nella dura lotta per la sopravvivenza, per la pura sopravvivenza fisica, o diciamo piuttosto per non morire di fame (perché la fame a Londra la patimmo per anni), se in quella lotta disperata per un pezzo di pane o due patate non sono andato a fondo, lo devo a Marx e alla sua famiglia. […]
Per la popolarità Marx nutriva un sovrano disprezzo. Una cosa che lodava particolarmente in Robert Owen era che egli, ogni volta che una delle sue idee diventava popolare, avanzava una nuova esigenza che lo rendeva di nuovo impopolare. Scevro di ogni vanità, Marx non poteva attribuire alcun valore al plauso della folla. La folla era per lui il gregge senza idee, che riceveva pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Finché il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, il plauso della folla non può che andare a gente senza partito o a oppositori del socialismo. Oggi che la concezione del mondo socialista è già penetrata tra le masse e comincia anche a influenzare la cosiddetta “opinione pubblica”, ciò non vale più nella stessa misura in cui valeva cinquant’anni fa. Allora solo un’esigua minoranza della classe operaia si era innalzata sino al socialismo. E tra gli stessi socialisti quelli che lo erano nel senso scientifico di Marx – nel senso del Manifesto comunista – erano a loro volta una minoranza. La grande maggioranza degli operai, quelli almeno che si erano destati alla vita politica, erano ancora avvolti nelle nebbie di aspirazioni e di frasi democratico-sentimentali tipiche del movimento quarantottesco, dei suoi prodromi e dei suoi postumi. Il plauso della folla, la popolarità era per Marx la prova che si era sulla falsa via. La sua massima favorita era l’orgoglioso verso di Dante
Segui il tuo corso, e lascia dir le genti! [63]
che egli citava spessissimo e che conclude anche la sua prefazione al Capitale. Nessuno è insensibile ai colpi, agli urti, alle punzecchiature delle pulci e delle zanzare. E mentre seguiva il suo corso – attaccato da tutti i lati, oppresso dall’ansia del pane quotidiano, incompreso dalla massa del popolo lavoratore per la cui liberazione egli forgiava le armi nel silenzio della notte, a volte addirittura respinto in modo sprezzante da chi andava dietro a vuoti parolai, a manifesti traditori o addirittura ad aperti nemici – quante volte Marx, nella solitudine del suo studio povero, veramente proletario, dev’essersi ripetuto per farsi coraggio le parole del grande fiorentino, ricavandone nuova forza! […]
Se detestava la popolarità, chi ne andava a caccia suscitava in lui un sacro furore. Aborriva i parolai dalle frasi forbite. Guai a chi si perdeva nei vuoti giri di parole: con lui egli era inesorabile. Phraseur [64] era in bocca sua il peggiore degli insulti, e quando aveva capito di aver di fronte un phraseur, con quella persona era finita per sempre. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ecco ciò che inculcava in noi giovani a ogni occasione, imponendoci di studiare.
A quell’epoca era stata costruita la magnifica sala di lettura del British Museum, con i suoi inesauribili tesori bibliografici. Marx, che vi si recava ogni giorno, ci spingeva a frequentarla. Studiare, studiare! Questo era l’imperativo categorico che spesso ci gridava con voce squillante, ma che era già contenuto nel suo esempio, nella vista dell’attività incessante, poderosa di quell’uomo. Mentre gli altri esuli architettavano piani per sovvertire il mondo e giorno dopo giorno, sera dopo sera s’inebriavano con l’oppio del “Domani è la volta buona!”, noi “demoni”, “banditi”, “feccia dell’umanità” eravamo chiusi nel British Museum a cercare di approfondire la nostra preparazione e di approntare armi e munizioni per le lotte future.
A volte lo stomaco era vuoto, ma ciò non ci impediva di recarci al Museo. Del resto, là trovavamo sedie comode e, d’inverno, un bel calduccio: tutte cose che a casa mancavano, per chi ne aveva una.
Marx era un maestro severo. Non gli bastava esortarci a studiare: controllava anche se avevamo imparato. Mi ero occupato per un certo tempo della storia delle Trade Unions inglesi. Ogni giorno Marx mi interrogava per sapere a che punto ero, e alla fine non mi diede pace finché non ebbi tenuto una lunga conferenza davanti a numerose persone. Anch’egli volle ascoltarla. Non mi lodò, ma non mi strapazzò nemmeno. Dato che lodare non era nelle sue abitudini, e per lo più lodava soltanto per compassione, mi consolai delle mancate lodi, e quando in seguito, in una discussione, convenne con me a proposito di una delle affermazioni da me fatte allora, considerai il fatto come una lode indiretta. Come maestro Marx aveva la rara capacità di essere severo senza scoraggiare.
Un’altra eccellente qualità pedagogica possedeva Marx: ci costringeva all’autocritica, non tollerava alcuna forma di pigra soddisfazione dei risultati già raggiunti. Fustigava l’indolenza e l’amore del quieto vivere con la sferza del suo severo sarcasmo, e nessuno deve ringraziarlo più di me per questa dura disciplina. La gioventù si compiace del successo immediato e del plauso. Non ho mai parlato volentieri in pubblico. Neppure in compagnia di pochi intimi sono molto loquace. La decisione di parlare in pubblico mi costa sempre una piccola lotta contro me stesso, e anche oggi, se un dovere categorico non me lo impone, preferisco far parlare gli altri. Eppure mentirei se negassi che c’è qualcosa di affascinante, di inebriante nel pensiero di strappare un applauso delirante a migliaia di uomini adunati che pendono come ipnotizzati dalle labbra dell’oratore, il quale trasfonde in essi i suoi pensieri e i suoi sentimenti: nel pensiero di saper esercitare un potere magnetico su un rumoreggiante mare di uomini. Tuttavia non ho mai dimenticato i pericoli della popolarità. E se sono insensibile al plauso e alla lode – così come lo sono agli insulti e alle calunnie dei nemici – ebbene, quest’arte l’ho appresa da Marx, anche se c’è voluta la scuola di una vita di lotte per farla diventare veramente parte della mia natura.
La politica era studio per Marx. Odiava a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. E come immaginare infatti una cosa più assurda? La storia è il prodotto di tutte le forze che agiscono all’interno degli uomini e della natura, il prodotto del pensiero, delle passioni, dei bisogni umani. La politica è teoricamente la conoscenza dei milioni e bilioni di fattori che tessono la “tela della storia” e praticamente l’azione determinata da quella conoscenza. La politica è dunque scienza e scienza applicata. La scienza politica o scienza della politica è in certo modo l’essenza di tutte le scienze, poiché abbraccia tutta la sfera dell’attività dell’uomo e della natura, attività che costituisce lo scopo di ogni scienza. Eppure ogni pagliaccio è convinto di essere un grande politico o addirittura un grande uomo di stato – come ogni pagliaccio è convinto di essere un buon giornalista. Per entrambe le cose non occorre – secondo l’opinione dei più – aver imparato un bel nulla. Ci si “nasce”, per dirla con Sohm, professore a Lipsia. Quando parlava delle teste vuote che all’osteria, sui giornali, nelle assemblee popolari e nei parlamenti con un paio di frasi stereotipe si aggiustano le cose a modo loro e, scambiando per fatti i loro desideri e le loro idee più o meno confuse, indicano la via ai destini del mondo, per fortuna senza che il mondo se ne dia per inteso, Marx perdeva veramente le staffe. E in quelle “teste vuote” egli comprendeva anche non pochi “grandi uomini”, altamente rinomati e celebrati. […]
Osservare un uomo simile accogliere in sé la lezione dei rapporti sociali e penetrare sempre più a fondo nella natura della società costituisce già da solo un elevato godimento spirituale. Mai potrò ringraziare abbastanza la fortuna che ha condotto a Marx il giovanotto inesperto e assetato di sapere che io ero e lo ha affidato alla sua influenza e al suo insegnamento.
Un insegnamento che non poteva che essere poliedrico, data la poliedricità, anzi l’universalità di quella mente, che abbracciava tutto l’universo e penetrava in ogni particolare essenziale, senza tralasciare alcun elemento come inessenziale o trascurabile.
Marx fu uno dei primi a comprendere l’importanza delle ricerche di Darwin. Già prima del 1859, l’anno in cui fu pubblicata l’Origine delle specie [65] (e che, per una straordinaria coincidenza, è anche l’anno in cui apparve la Critica dell’economia politica [66] di Marx), egli aveva saputo cogliere l’importanza innovatrice di Darwin, che, lontano dal rumore e dalla confusione della grande città, stava preparando nella pace della sua tenuta una rivoluzione simile a quella che Marx preparava in mezzo al frastuono della metropoli che era allora il centro del mondo. Unica differenza: nelle due rivoluzioni la leva era appoggiata su due punti diversi.
Soprattutto nel campo delle scienze della natura – fisica e chimica – e della storia Marx seguiva ogni nuova pubblicazione, teneva conto di ogni progresso. Moleschott, Liebig, Huxley (le cui “conferenze popolari” ci videro naturalmente fra gli uditori) erano nominati nel nostro gruppo non meno frequentemente di Ricardo, Adam Smith, McCulloch e degli economisti scozzesi e italiani. Quando Darwin trasse le conseguenze dei suoi studi e le sottopose al pubblico, per mesi non parlammo d’altro che di Darwin e della forza rivoluzionaria delle sue conquiste scientifiche. Sottolineo tutto ciò in modo particolare perché nemici “radicali” hanno messo in giro la voce che, per una forma di gelosia, Marx avrebbe riconosciuto solo malvolentieri e in misura assai limitata i meriti di Darwin.
Marx era il più generoso e il più giusto degli uomini, quando si trattava di apprezzare i meriti altrui. Era troppo grande per nutrire invidia e gelosia, o anche solo vanità. Ma odiava mortalmente la falsa grandezza, la gloria artefatta in cui si pavoneggiano l’incapacità e la volgarità, come odiava tutto ciò che era falso o contraffatto.
Marx è uno dei pochi uomini non vanitosi fra tutti quelli – grandi, piccini o mediocri – che ebbi modo di conoscere. Era troppo grande, troppo forte e certo anche troppo orgoglioso per esserlo. Non si dava mai delle arie. Era sempre se stesso. Come un bambino, era incapace di portare la maschera, di fingere. A meno che ragioni sociali o politiche non gliel’impedissero, esprimeva fino in fondo e senza riguardi pensieri e sentimenti, e li recava tutti scritti sul volto. Quando era necessario trattenersi, egli rivelava un impaccio vorrei quasi dire fanciullesco, che divertiva spesso i suoi amici. Era poco adatto a fare il diplomatico, benché, anzi proprio perché era un grande politico. La più grande comunità del mondo, gli Stati Uniti dell’America del Nord, non ha diplomatici, mentre la Russia barbarica ha i diplomatici più bravi. Un uomo più sincero di Marx non è mai esistito. Era la verità fatta persona. Bastava guardarlo in faccia per capire come stavano le cose. Nella nostra società “civile” in permanente stato di guerra, naturalmente, non sempre si può dire la verità: significherebbe consegnarsi nelle mani del nemico o farsi mettere al bando dalla società. Ma anche se spesso non si può dire la verità, non c’è per questo bisogno di mentire. Non sempre posso dire ciò che penso o sento, ma ciò non vuol dire che io debba o sia costretto a dire ciò che non penso o non sento. La prima cosa è accortezza, l’altra è ipocrisia. E Marx non è mai stato ipocrita. Ne era semplicemente incapace, proprio come un bambino innocente. “Il mio grande bambino”: così lo chiamava spesso sua moglie, che lo conobbe e lo comprese meglio di chiunque altro, persino meglio di Engels. E realmente quando capitava in “società” – fra virgolette –, dove si badava al contegno esteriore e bisognava sapersi controllare, il nostro “Moro” diventava veramente un grande bambino; anzi, talvolta poteva essere impacciato e arrossire come un bambino piccolo. […]
Tutti gli uomini realmente importanti che ho conosciuto si applicavano con grande assiduità e lavoravano duro. Nel caso di Marx ciò è più che mai vero. La sua attività era colossale. E poiché spesso di giorno – soprattutto nei primi anni dell’esilio – non poteva esplicarla, ricorreva alle ore notturne. Quando, dopo qualche riunione o assemblea, si rincasava a tarda sera, lo si trovava regolarmente alzato, a lavorare “ancora un paio d’ore”. E il “paio d’ore” regolarmente s’allungava, cosicché Marx finiva sempre per lavorare quasi tutta la notte e per addormentarsi al mattino. Sua moglie gli diceva che così si sarebbe rovinato la salute, ma egli rispondeva ridendo che la sua natura voleva così. Anch’io ero abituato sin dai tempi del ginnasio a dedicarmi ai lavori più impegnativi a tarda sera o di notte, quando mi sentivo spiritualmente più desto; perciò vedevo la cosa con occhi diversi dalla signora Marx. Ma essa aveva ragione. Malgrado una costituzione d’una robustezza non comune, già verso la fine degli anni cinquanta Marx cominciò ad accusare disturbi d’ogni genere alle varie funzioni dell’organismo. Fu necessario consultare un medico, che proibì in modo categorico il lavoro notturno e raccomandò much exercise, cioè molto esercizio fisico, soprattutto passeggiate e cavalcate. In quel periodo andai molto a zonzo con Marx nei dintorni di Londra, soprattutto nella zona collinosa a nord della città. Egli si riprese in fretta, perché la sua costituzione era straordinariamente adatta a sopportare grandi sforzi e un grande dispendio di energie. Ma, quando si sentiva di nuovo bene, egli ricadeva di nuovo, a poco a poco, nell’abitudine del lavoro notturno. Allora subentrava una nuova crisi, che lo costringeva a fare una vita più ragionevole – ma sempre solo fino a quando s’imponeva una necessità assoluta. Le crisi divennero sempre più violente, si sviluppò una malattia di fegato, apparvero ulcere maligne. A poco a poco la costituzione di ferro di Marx si logorò. Sono convinto – e questo è anche il giudizio dei medici che lo ebbero in cura nell’ultimo periodo – che Marx sarebbe ancora in vita se si fosse deciso a condurre una vita più naturale, cioè più confacente alle esigenze del suo organismo, una vita conforme alle regole igieniche. Solo negli ultimi anni –quando era ormai troppo tardi – rinunciò a lavorare di notte; ma tanto più, allora, lavorava, di giorno. Lavorava sempre, appena ne aveva la minima possibilità. Anche quando andava a spasso, portava con sé un taccuino e ogni momento vi annotava qualcosa. E il suo modo di lavorare non era mai superficiale. C’è modo e modo di lavorare, e il suo era sempre intenso, profondo. Ebbi da sua figlia Eleanor una tavola sinottica di storia che aveva buttato giù per se stesso, allo scopo di avere una visione d’insieme, solo per precisare non so che annotazione secondaria. Ma per Marx non esistevano questioni secondarie, e quella tavola buttata giù per un’esigenza privata e momentanea era fatta con altrettanta cura come se avesse dovuto andare alle stampe.
La resistenza di Marx nel lavoro mi riempiva spesso di stupore. Non conosceva stanchezza. Certo, alla fine non poté non crollare… ma neppure allora tradì alcuna rilassatezza. […]
Come tutte le nature forti e sane, Marx amava straordinariamente i bambini. Non era soltanto un padre tenerissimo, che sapeva essere bambino fra i suoi bambini per ore e ore: si sentiva attratto e come calamitato da bambini sconosciuti, soprattutto da quelli che incontrava per strada, tanto più se erano abbandonati o in miseria. Centinaia di volte, girando per i quartieri poveri, si staccava improvvisamente da noi per andare ad accarezzare i capelli di qualche bambino coperto di stracci seduto sulla soglia di casa, e gli ficcava un penny o un mezzo penny nella manina. Verso i mendicanti era diventato diffidente, perché a Londra mendicare è diventato un mestiere vero e proprio – un mestiere che vale oro, anche se rende solo pezzi di rame [67]. Così dai mendicanti e dalle mendicanti, ai quali all’inizio non rifiutava mai l’obolo, se aveva qualcosa in tasca, non si lasciava più gabbare. Per coloro che l’avevano raggirato esibendo malattie o povertà abilmente contraffatte nutriva anzi una viva collera, poiché giudicava lo sfruttamento della compassione umana una grave bassezza e un furto alla povertà. Ma quando un mendicante o una mendicante si avvicinava a Marx con un bambino in lacrime, egli era irrimediabilmente perduto, anche se lui o lei avevano scritta in fronte a tutte lettere l’impostura. Agli occhi piangenti di un bambino non sapeva resistere. La debolezza fisica e l’abbandono destavano sempre in lui viva pietà e compassione. Un uomo che picchiasse la moglie – e allora il wife beating [68] era molto in voga a Londra – lo avrebbe fatto bastonare a sangue con vero piacere.
Con la sua natura impulsiva, in simili circostanze non di rado metteva nei pasticci sé e noi. Una sera ero con lui sulla piattaforma di un omnibus che andava verso Hampstead Road quando, a una fermata, notammo davanti a una bettola un parapiglia dal quale si levava stridula la voce di una donna: murder! murder! [69] Rapido come il lampo, Marx era già saltato giù. E io dietro. Avrei voluto trattenerlo, ma era come cercare di afferrare con la mano un proiettile in volo. In un attimo ci trovammo in piena mischia. La calca si richiuse dietro di noi. “Che succede?” Cosa succedeva lo vedemmo subito. Una donna ubriaca stava litigando con suo marito: questi la voleva ricondurre a casa, lei si opponeva strillando come un’ossessa. Tutto qui. Non c’era alcun motivo d’intervenire – come vedemmo subito. Ma lo videro anche i due litiganti, che fecero subito la pace per scagliarsi contro di noi, mentre la folla che ci circondava si stringeva sempre più e si faceva sempre più minacciosa verso i damned foreigners, i “maledetti stranieri”. Soprattutto la donna si avventò furibonda su Marx, mirando alla sua imponente, lucida barba corvina. Tentai di placare le acque, ma senza risultato. E se due nerboruti gendarmi non fossero tempestivamente apparsi sul campo di battaglia, avremmo pagato caro il nostro tentato intervento a scopi filantropici. Fummo ben contenti quando ne fummo fuori con la pelle intatta e ci trovammo di nuovo seduti su un omnibus che ci portava verso casa. In seguito Marx fu un poco più prudente in questo tipo di interventi.
Bisogna aver visto Marx con i suoi bambini per avere un’idea della profondità di sentimenti e della gaiezza fanciullesca di questo eroe della scienza. Quando aveva un momento libero, o durante le passeggiate, se li portava in collo e giocava con loro nel modo più allegro e indiavolato – insomma, era bambino tra i bambini. A Hampstead Heath si giocava a volte “alla cavallerizza”: io prendevo sulle spalle una delle figliolette di Marx, egli l’altra, e facevamo a gara a chi saltava e trottava meglio. Di tanto in tanto improvvisavamo anche una scaramuccia di cavalleria; le ragazzine erano sfrenate come due maschiacci, e potevano anche sopportare qualche colpo senza piangere. […]
Era commovente e talvolta comico a un tempo vedere come Marx, che nelle discussioni politiche ed economiche non si peritava di esprimersi nel modo più rude, se non addirittura cinico, davanti ai bambini e alle donne si esprimesse con una delicatezza da far invidia a una governante inglese. Quando il colloquio scivolava verso un argomento scabroso, egli cominciava a dar segni di nervosismo, si dimenava a disagio sulla sedia e poteva arrossire come una fanciulla sedicenne. Noi esuli giovani eravamo una brigata turbolenta, e amavamo fra l’altro cantare certe canzonacce. Capitò così che un giorno uno di noi, che aveva una bellissima voce – cosa che non posso dire di nessuno degli altri: i politici, e particolarmente i comunisti e i socialisti, non sembrano in buoni rapporti con la musa dei suoni – intonò nel salotto di Marx Jung, jung Zimmergesell, [70] una canzone bella ma non proprio da educandato. La signora Marx non c’era – altrimenti non avremmo mai osato farlo – e di Lenchen e delle bambine non si vedeva alcuna traccia, così che ci credemmo “fra noi”. Improvvisamente Marx – che all’inizio si era unito al coro, cantando, o meglio gridando con noi – drizzò le orecchie; contemporaneamente intesi un rumore proveniente dalla stanza accanto, che provava che dentro c’era qualcuno. Marx, che evidentemente l’aveva udito anche lui, si agitò per qualche istante sulla sedia, diventando il ritratto vivente dell’imbarazzo, poi balzò su e ci sussurrò o sibilò, arrossendo fino alla radice dei capelli: “Zitti, zitti! Le bambine!”.
Le bambine erano allora così giovani che Jung, jung Zimmergesell non avrebbe potuto turbare in alcun modo il loro senso morale. Perciò ci scappò un mezzo sorriso; ma lui balbettò che, insomma, non si potevano cantare canzoni simili davanti a dei bambini. Mai più intonammo Jung, jung Zimmergesell, né altre canzoni analoghe, in casa di Marx.
Sull’argomento la signora Marx scherzava ancor meno di lui. Aveva un’occhiata che ci gelava la parola sulla lingua, appena coglieva il minimo soffio di volgarità.
L’autorità che la signora Marx esercitava su di noi era forse ancora maggiore di quella di Marx. “Quella dignità, quell’altezza” [71] che tiene a distanza non certo la confidenza ma ogni atto sconveniente o men che decoroso esercitava una sorta di potere magico su di noi, compagni rudi e talvolta anche un po’ rozzi. Ricordo ancora come terrorizzò una volta il “rosso Wolff” (da non confondersi con Lupus o “Kasemattenwolff”). Questi, che era molto miope, e aveva adottato le maniere di Parigi, notò una sera per strada una graziosa figura femminile e affrettò il passo dietro di lei. Nonostante fosse passato più volte davanti alla donna velata, non era riuscito a capire chi fosse, finché, fattosi più ardito, si avvicinò talmente al suo volto che, a dispetto della miopia, ne poté distinguere i tratti. “Il diavolo mi porti!” mi raccontò l’indomani, agitatissimo. “Era la signora Marx!” “Ah! E cosa ti ha detto?” “Niente! Ecco la cosa più diabolica!” “E tu che hai fatto? Ti sei scusato?” “Il diavolo mi porti! Me la sono data a gambe!”
Ma ti devi scusare! La cosa non è poi così pericolosa!” “Ma – “il diavolo mi porti” – il rosso Wolff, che godeva di una certa fama per via del suo imperturbabile cinismo, per sei mesi non ci fu verso di riportarlo in casa Marx, benché sin dal giorno successivo gli avessi raccontato che la signora Marx, quando ero andato a tastare il terreno, era scoppiata in una sonora risata, ricordando l’espressione di indicibile sbalordimento e di terrore dipinta sul volto del rosso Wolff, nel suo ruolo di don Giovanni mancato.
Marx era un eccellente giocatore di dama. In questo gioco era arrivato a tale perfezione che era difficile vincergli una partita. Giocava molto volentieri anche a scacchi; ma qui le sue arti lo portavano meno lontano, ed egli cercava di sopperire alla mancanza di abilità con la foga, l’impeto dell’attacco e la sorpresa.
All’inizio degli anni cinquanta nel nostro gruppo di esuli si giocava molto a scacchi. Avevamo più tempo e, a dispetto del time is money (il tempo è denaro), meno denaro di quanto avremmo voluto, e, sotto la guida del rosso Wolff, che a Parigi era entrato nei migliori circoli scacchistici e ne aveva tratto profitto, ci esercitavamo con molto zelo nel “gioco dei saggi”. Alcuni match scacchistici erano quanto mai accaniti. Il perdente poteva essere sicuro che le canzonature non sarebbero mancate, e già durante la partita regnava un’atmosfera di grande allegria, talvolta assai rumorosa. Quando Marx cominciava a trovarsi nei pasticci, s’irritava, e quando perdeva una partita andava su tutte le furie. Nella pensione modello di Old Compton Street, dove per un certo periodo parecchi di noi trovarono alloggio per 3 scellini e 6 pence (3 marchi e mezzo) la settimana, eravamo sempre circondati da inglesi che ci guardavano giocare con grande attenzione (in Inghilterra si gioca molto a scacchi, anche negli ambienti operai) e si divertivano ai nostri scherzi e al nostro baccano. Del resto, si sa che due tedeschi fan più spettacolo di sei dozzine d’inglesi.
Un giorno Marx annunciò trionfante di aver scoperto una nuova mossa, con la quale ci avrebbe sbaragliati tutti quanti. Accettammo la sfida e, detto fatto, ci mise fuori combattimento uno dopo l’altro. Ma, a poco a poco, la disfatta divenne maestra della vittoria, e riuscii a dargli scacco matto. Era già molto tardi, e Marx chiese corrucciato la rivincita per l’indomani, a casa sua.
Scoccavano le undici (un’ora assai mattutina, per Londra) quando mi presentai. Marx non era ancora nella stanza, ma fece sapere che non avrebbe tardato. Nessuna traccia della signora Marx. Lenchen mi fece un viso non troppo amichevole. Prima che potessi domandare se era successo qualcosa entrò il Moro, che mi porse la mano e tirò subito fuori la scacchiera. La battaglia ebbe inizio. Durante la notte Marx aveva escogitato un perfezionamento della sua mossa; non passò molto tempo che mi trovai nella pania, e non ne uscii più fuori. Ebbi scacco matto, e Marx esultò: tornato d’un tratto di buonumore, ordinò qualcosa da bere e un paio di sandwich. Cominciò una nuova battaglia – e questa volta ebbi la meglio. Combattemmo così, con fortune e umore alterno, senza prenderci neppure il tempo per mangiare; tacitammo frettolosamente i morsi della fame servendoci da un piatto con carne, formaggio e pane che Lenchen ci aveva messo davanti, senza smettere di giocare. Della signora Marx sempre nessuna traccia. Nemmeno i bambini si azzardarono a entrare. La battaglia continuò a infuriare, con i suoi alti e bassi, finché diedi matto a Marx per due volte di seguito. Era mezzanotte. Egli voleva assolutamente continuare, ma Lenchen, che era il dittatore della casa, sotto l’alta sovranità della signora Marx, dichiarò categoricamente: “Basta così!”. E mi congedai.
Il mattino seguente, appena uscito dal letto, sento bussare alla porta. Entra Lenchen.
“Library” [72] (così mi chiamavano i bambini, e Lenchen aveva accettato il nomignolo e lo usava come loro, poiché fra noi non si adoperava il “mister”, né il “signore”). “Library, la signora Marx La prega di non giocare più a scacchi col Moro di sera. Se perde, diventa insopportabile.” E mi raccontò che il suo cattivo umore aveva trovato sfogo in modo così virulento, che la signora Marx aveva perso la pazienza.
Da allora in poi la sera non mi lasciai mai più convincere a giocare a scacchi con Marx. L’abitudine degli scacchi cominciò anzi a perdere terreno, nella stessa misura in cui tornavamo a dedicarci regolarmente alle occupazioni consuete.
Da quando era nata la famiglia Marx, Lenchen era, come ama dire una delle figlie di Marx, l’anima della casa, la ragazza tuttofare nel senso più alto, più nobile della parola. Cosa non doveva fare? Cosa non fece con gioia? Voglio ricordare solo le tante corse dal misterioso parente così odiato eppure così ricercato da tutti: lo “zio” coi tre globi terracquei [il Monte di Pietà]. Ed era sempre serena, sempre pronta a farsi in quattro, sempre sorridente. Ma no, non sempre! Poteva anche andare in collera, eccome! E i nemici del Moro li odiava ferocemente.
Quando la signora Marx era malata o non si sentiva bene, Lenchen sostituiva la mamma. Ma per i bambini fu sempre una seconda mamma. E aveva una grande volontà, una volontà forte e salda. Ciò che essa riteneva necessario, lo si faceva senza discutere.
Come ho già detto, Lenchen esercitava una sorta di dittatura. Per meglio precisare i rapporti, potrei dire che in casa Lenchen esercitava il potere dittatoriale, mentre alla signora Marx spettava l’alta sovranità. Marx si adattava alla dittatura come un agnellino. È stato detto che nessun uomo è grande agli occhi del suo cameriere. Agli occhi di Lenchen Marx certo non lo fu. Essa si sarebbe sacrificata per lui, avrebbe donato cento volte la vita per lui, per la signora Marx e per ciascuno dei bambini, se fosse stato necessario e possibile – e in fondo essa ha realmente donato la sua vita –, ma a lei Marx non poteva incutere soggezione. Ne conosceva tutti gli umori e tutte le debolezze, e lo comandava a bacchetta. Per quanto Marx fosse in collera, per quanto tempestasse e tuonasse, tanto che chiunque altro avrebbe preferito restarsene alla larga, Lenchen andava diritta nelle fauci del leone e se la belva ringhiava le dava una tal lavata di capo che il leone diventava mansueto come un agnello.
E le nostre passeggiate a Hampstead Heath! Campassi mille anni, non le dimenticherei. La “landa” di Hampstead, oltre Primrose Hill, celebre, al pari di quest’ultima, ben al di là di Londra grazie ai Pickwickiani [73] di Dickens, è ancor oggi in gran parte landa, cioè un terreno collinoso e non costruito, cosparso di ginestre e interrotto qua e là da macchie d’alberi e da monti e valli in miniatura, dove chiunque può muoversi e scorrazzare a piacere senza timore di essere fermato e multato per trespassing (ovvero violazione illecita della proprietà altrui) da uno dei custodi di Santa Proprietà. Ancor oggi Hampstead Heath è una delle mete preferite delle gite dei londinesi, e nelle domeniche di sole è tutto un nereggiare degli abiti degli uomini e un risplendere dei variopinti abiti delle donne che mettono a dura prova la pazienza degli asini e dei cavalli da nolo, pur così pazienti. Quarant’anni fa Hampstead Heath era molto più vasta di oggi, e molto più intatta e selvaggia era la sua vegetazione. Una domenica a Hampstead Heath era per noi il massimo dei piaceri. I bambini ne parlavano per tutta la settimana, e anche noi adulti, vecchi e giovani, aspettavamo il momento con gioia. Già il tragitto era una festa. Le ragazze erano camminatrici eccellenti, agili e instancabili come gatti. Dalla Dean Street, dove abitava Marx, a due passi dalla Church Street, dove avevo gettato l’ancora io, ci voleva un’ora e un quarto buona, e di solito si partiva già in mattinata, verso le undici. Spesso, naturalmente, anche più tardi, perché a Londra non c’è l’abitudine di alzarsi presto, e prima che tutto fosse in ordine, i bambini sistemati e il paniere preparato a dovere, passava sempre un po’ di tempo.
Il paniere! Me lo vedo ancora penzolare davanti agli occhi, vivo, reale, attraente e appetitoso come se l’avessi visto soltanto ieri dondolare al braccio di Lenchen.
Il paniere era infatti il magazzino delle vettovaglie, e quando si è provvisti di uno stomaco sano e vigoroso e si hanno le tasche molto spesso sprovviste degli spiccioli necessari (di biglietti di grosso taglio allora non si parlava nemmeno), il problema del vettovagliamento assume una importanza determinante. La brava Lenchen lo sapeva, e le batteva in petto un cuore misericordioso per noi ospiti spesso assaliti dai crampi della fame e perciò sempre affamati. Un imponente arrosto di vitello era il piatto forte, consacrato dalla tradizione, per le domeniche a Hampstead Heath. Un paniere di dimensioni insolite per Londra, che Lenchen aveva messo in salvo fin dai tempi di Treviri, serviva da custodia al Santissimo, vorrei anzi dire da tabernacolo. Si aggiungeva il tè con lo zucchero e, di tanto in tanto, un po’ di frutta. Il pane e il formaggio si compravano sullo Heath, dove, come nei caffè all’aperto di Berlino, si potevano avere stoviglie, acqua bollente e latte, pane e formaggio, burro, birra, insieme agli shrimps (gamberetti) locali, ai watercresses (crescione) e ai periwinkles (lumache), a seconda delle necessità e del portafoglio, com’è ancor oggi. Anche birra – eccettuato il breve periodo in cui la società aristocratica e ipocrita che in casa propria e nei suoi club ammucchia a volontà gli alcolici di ogni parte del mondo, la società per cui ogni giorno è domenica ed è sempre festa, pensò bene d’instillare la virtù e la morale nel volgo vietando la vendita domenicale di birra. Ma quando si attenta al suo stomaco il popolo londinese non scherza: la domenica successiva alla presentazione del relativo disegno di legge centinaia di migliaia di persone si riversarono a Hyde Park, dove salutarono gli aristocratici e le aristocratiche che se ne andavano a passeggio a cavallo e in carrozza con un tonante “Go to church! (Andatevene in chiesa!)” carico di scherno, così fragoroso che i signori virtuosi e le loro dame sbiancarono in volto dalla paura. La domenica seguente il quarto di milione diventò mezzo e il “Go to church!” risuonò ancora più vigoroso e carico di significato. La terza domenica la disposizione veniva già ritirata.
Durante la “rivoluzione del go-to-church” anche noi esuli avevamo fatto del nostro meglio. Marx, che in simili occasioni si scaldava parecchio, per un capello non fu impacchettato da un poliziotto e portato davanti al magistrato; alla fine però un caloroso appello alla sete di birra del bravo custode della legge riuscì a intenerirlo.
Come dicevo, il trionfo della virtù pelosa fu di breve durata e, a parte quel breve interregno, durante la marcia verso Hampstead Heath, quasi tutta senz’ombra, potevamo consolarci al pensiero di un sacrosanto e meritato sorso di birra fresca.
La marcia si svolgeva per lo più in quest’ordine. L’avanguardia, formata da me e dalle ragazze, apriva la via, ora raccontando storie, ora esibendosi in varie evoluzioni, ora andando in cerca di fiori di campo, allora meno rari di oggi. Dietro venivano alcuni amici e poi il grosso dell’esercito: Marx con la moglie e gli eventuali visitatori domenicali, che erano al centro dell’attenzione. La retroguardia era formata da Lenchen e dal più affamato della compagnia, che la aiutava a portare il paniere. Quando la brigata era più numerosa, ci si divideva in vari reparti. Non occorre dire che l’ordine di marcia o di battaglia veniva modificato a seconda del capriccio e delle circostanze.
Giunti in cima allo Heath, per prima cosa si cercava un posto adatto a piantare le tende, con particolare riguardo ai collegamenti con i rifornimenti di tè e di birra.
Autar epei posios kai edetyos ex eron hento [74]
– ma dopo essersi saziati di cibo e di bevande – i gitanti cercavano un posticino comodo per sdraiarsi o sedersi. Appena l’avevano trovato, tutti tiravano fuori i giornali della domenica, comperati strada facendo, e cominciavano la lettura e le discussioni politiche, mentre i bambini, che presto trovavano compagni di gioco, giocavano a nascondarella dietro i cespugli di ginestra.
Per introdurre qualche diversivo in quel dolce far niente, si gareggiava alla corsa, alla lotta, a tirare le pietre e via discorrendo. Una domenica scoprimmo nelle vicinanze un castagno con i frutti maturi. “Vediamo chi ne butta giù di più!” gridò uno di noi, e tosto ci mettemmo all’opera, fra gli hurrà generali. Il Moro era scatenato, anche se colpire le castagne non era certo il suo forte. Eppure era instancabile, come tutti, del resto. Solo quando l’ultima castagna fu abbattuta, fra selvagge urla di trionfo, il bombardamento ebbe termine. Marx non riuscì più a muovere il braccio destro per una settimana. E il mio non fu da meno.
Il massimo treat (godimento) era però una cavalcata generale a dorso d’asino. Si rideva e si scherzava come matti! E quante buffe scene! Marx si divertiva un mondo – divertiva sé e noi. Noi ci divertiva doppiamente: per il suo modo decisamente primitivo di stare in sella e per la foga con cui proclamava il suo virtuosismo di provetto cavaliere. Questo virtuosismo si spiegava con due circostanze: una volta, quand’era studente universitario, egli aveva preso lezioni di equitazione (secondo Engels non aveva mai superato la terza); inoltre quando si recava a Manchester a far visita a Engels, Marx usciva con lui in sella a un venerando Ronzinante, probabilmente un lontano pronipote della mansueta cavalla donata dal vecchio Fritz di buona memoria al bravo Gellert. [75]
Il ritorno da Hampstead Heath avveniva sempre in grande allegria, anche se il divertimento pregustato dà più gioia, di solito, di quello appena trascorso. Ma dalla malinconia – per la quale di solito c’erano eccellenti motivi – ci preservava il nostro umorismo nero. I guai dell’esilio venivano messi fra parentesi e chi cominciava a lamentarsi veniva richiamato immediatamente e nel modo più energico ai suoi doveri sociali.
Rincasando l’ordine di marcia era diverso da quello dell’andata. Le ragazze, stanche morte a furia di correre, formavano la retroguardia insieme a Lenchen, che, alleggerita dal paniere vuoto, poteva occuparsi di loro. Di solito s’intonava una canzone. Raramente canzoni politiche; per lo più melodie popolari, quasi sempre piene di sentimento, o – non sembri una frottola – canti “patriottici” della “patria lontana”, come O Strassburg, o Strassburg, du wunderschöne Stadt, [76] che godeva di uno straordinario favore. Oppure le ragazze cantavano canzoni negre, con accompagnamento di danze – quando le loro gambe si erano un po’ riposate. Durante la marcia la politica era argomento proibito come i guai dell’esilio. Invece si parlava molto di letteratura e di arte, e allora Marx poteva far sfoggio della sua portentosa memoria. Recitava lunghi brani della Divina Commedia, che sapeva quasi tutta a memoria, e scene di Shakespeare, alternandosi a sua moglie, anch’essa eccellente intenditrice di Shakespeare. Quando era in gran vena, ci dava un saggio dell’arte di Seidelmann nella parte di Mefistofele. Andava matto per Seidelmann, che aveva ascoltato quand’era studente a Berlino, e il Faust [77] era il suo poema tedesco preferito. Non posso dire che Marx fosse un maestro di recitazione – era decisamente troppo caricato –, ma non mancava mai di effetto e sapeva esprimere il senso con grande precisione; insomma, faceva la sua figura, e la comicità delle prime parole declamate con voce stentorea svaniva non appena si notava che egli era entrato a fondo nella parte, la comprendeva in tutte le sfumature e la dominava a menadito.
Jennychen, la maggiore delle due ragazze (Tussy, ovvero la signora Eleanor Marx-Aveling, a quel tempo era ancora in grembo all’avvenire), che era il ritratto di suo padre – gli stessi occhi neri, la stessa fronte – di tanto in tanto cadeva in preda a un’estasi profetica: “lo spirito veniva sopra di lei”, come sulla pizia. [78] I suoi occhi cominciavano a luccicare e a fiammeggiare, e cominciava a declamare le più straordinarie fantasie. Ebbe una volta uno di quegli accessi sulla via del ritorno da Hampstead Heath: si mise a raccontare della vita sulle stelle, parlando in versi. Con l’ansia della madre che ha perso più di un figlio, la signora Marx, impaurita, esclamò: “Nessun bambino parla così alla sua età. Questa precoce maturità non è segno di buona salute”. Ma il Moro la prese in giro e io le feci notare che la pizia, destatasi dal suo profetico sogno, si era rimessa a correre ridendo allegramente, come il ritratto della salute. Eppure Jennychen è morta giovane – anche se alla madre è stato risparmiato il dolore di sopravviverle.
Man mano che le ragazze crescevano, il carattere delle gite domenicali si modificava. Ma vi fu chi pensò alla discendenza, ragion per cui l’elemento giovanile non venne mai a mancare.
Più di un bambino morì. Anche i due maschi avuti da Marx. Uno, nato a Londra, morì prestissimo, [79] l’altro, nato a Parigi, dopo una lunga malattia. [80] La morte di quest’ultimo colpì Marx tremendamente. Ricordo ancora le tristi settimane della sua malattia senza speranza. Il ragazzo – chiamato Musch (mouche), ma il cui vero nome era Edgar, nome di uno zio – era molto dotato ma cagionevole di salute sin dalla nascita. Questo ragazzo dai magnifici occhi e dalla grossa testa, una testa che prometteva una grande intelligenza ma era troppo pesante per il suo corpicino, era un vero figlio del dolore. Se avesse avuto una vita tranquilla, con cure assidue e lunghi soggiorni in campagna o al mare, il povero Musch avrebbe forse potuto salvarsi. Ma nella vita dell’esilio, nelle peregrinazioni da un luogo all’altro e poi nella miseria londinese, nonostante l’amore tenerissimo dei genitori e le cure materne non fu possibile irrobustire la delicata pianticella tanto da metterla in grado di affrontare la lotta per la vita. Musch morì. Non posso dimenticare la scena: la madre che piangeva silenziosamente china sul fanciullo morto, Marx che in uno stato di tremenda emozione respingeva con violenza e quasi con collera ogni parola di conforto, le due bambine che singhiozzavano piano in grembo alla madre, che nel suo dolore le abbracciava strette strette, come se volesse incatenarle a sé e difenderle dalla morte che le aveva portato via il ragazzo.
Due giorni dopo ci fu la sepoltura. Lessner, Pfänder, Lochner, Conrad Schramm, il rosso Wolff e io accompagnammo la bara – io nel carro funebre con Marx. Sedeva muto, il volto nelle mani. Gli accarezzai la fronte: Moro, hai tua moglie, le bambine, e anche noi. Ti vogliamo tutti così bene. “Non mi potete restituire il ragazzo,” sospirò, e proseguimmo muti fino al camposanto di Tottenham Court Road. Quando la bara – straordinariamente lunga, perché durante la malattia il bambino, che fino a quel momento era molto in ritardo nello sviluppo, era cresciuto in modo impressionante – venne calata nella fossa, vidi Marx così sconvolto che mi misi al suo fianco, temendo che volesse seguirla.
Trent’anni dopo, quando la fedele compagna della sua vita, la metà di lui stesso, la sua stessa vita venne sepolta nel camposanto di Highgate, Marx si sarebbe precipitato dietro di lei se Engels, come più tardi mi raccontò, non lo avesse fulmineamente afferrato per il braccio.
Note
[57] Gelernt, participio passato di lernen (imparare), equivalente dunque a “imparato”.
[58] Gelehrt (dotto, istruito), participio passato di lehren (insegnare), equivalente dunque a “insegnato”.
[59] Erroneo per “pigiati”.
[60] Pigiarsi, accalcarsi.
[61] Vessare, molestare.
[62] Espressioni avverbiali più o meno equivalenti, che significano “sotto, sopra, fuori, da questa parte”.
[63] In italiano nel testo. La citazione esatta è: “Vien dietro a me, e lascia dir le genti: | sta come torre ferma, che non crolla | già mai la cima per soffiar di venti”. Purgatorio, V 13-15.
[64] Parolaio.
[65] On the Origin of Species; tr. it. C. Darwin, L’origine delle specie, Boringhieri, Torino 19723.
[66] Zur Kritik der politischen Ökonomie; tr. it. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in Il capitale, cit., vol. II: Libro i. Appendici.
[67] Con il rame erano coniati gli spiccioli.
[68] Picchiare la moglie.
[69] “Assassino!”
[70] Giovane, giovane carpentiere.
[71] Diese Würde, diese Höhe: probabile citazione.
[72] Biblioteca.
[73] The Posthumous Papers of the Pickwick Club; tr. it. C. Dickens, Il circolo Pickwick, Adelphi, Milano 1965.
[74] Verso formulare dell’epica omerica: Iliade I, 469, passim.
[75] Nel 1761 Federico II di Prussia raccomandò a Christian Fürchtegott Gellert (1715-69), professore di morale, poesia ed eloquenza all’università di Lipsia, una lunga cavalcata giornaliera come cura contro il “male degli eruditi”, l’ipocondria.
[76] Strasburgo, Strasburgo, meravigliosa città.
[77] Tr. it. W. Goethe, Faust, a cura di Barbara Allason, Einaudi, Torino 19745.
[78] L’antica sacerdotessa di Delfi, che cadendo in estasi e pronunciando parole sconnesse vaticinava l’oracolo di Apollo Pizio.
[79] Föxchen, nato il 5 novembre 1849 (cfr. p. 116), morì di meningite il 16 novembre 1850.