Antiper | Comunisti (PeO,1)
Tratto da Antiper, Partito e organizzazione, Contributo per il Forum della Rete dei Comunisti, Roma, 27 febbraio 2010
Il nostro contributo a questo Forum consiste nel tentativo di entrare in dialettica con la riflessione e la linea politica dei suoi promotori cogliendo al contempo l’occasione per ricapitolare una serie di elementi che caratterizzano il nostro punto di vista. Naturalmente, per noi, “entrare in dialettica” significa anche segnalare elementi problematici perché riteniamo che accettare il confronto non significhi scambiarsi reciproci inviti per incontri in cui ognuno parla per conto proprio, ma analizzare con attenzione ciò che di volta in volta viene proposto e il fatto che possano emergere differenze o anche vere e proprie divergenze non deve spaventarci perché, in una concezione marxista, ogni sintesi è il prodotto di una contraddizione.
Diciamo subito che consideriamo sacrosanta l’esigenza di contribuire al confronto su “partito e organizzazione” (tema che riteniamo di primaria e vitale importanza per i comunisti in questa fase) e siamo d’accordo che questo confronto non debba condurci verso ipotesi organizzative immediate. Non perché non ci sia anche bisogno di una ricaduta pratica del dibattito sul partito; anzi, questa ricaduta è, mai come oggi, necessaria. Dobbiamo però evitare che questo dibattito venga piegato verso ipotesi pre-confezionate o frettolose che lo renderebbero sostanzialmente inutile come inutili, o forse anche dannosi, sono stati i tentativi di questi anni di assembleare “alla bell’e meglio” un po’ di persone che si definivano comuniste.
Constatiamo anche noi che le “opzioni oggi esistenti nel nostro paese” [1] non sono soddisfacenti e riteniamo che dovrebbe constatarlo chiunque non viva su Urano. Possiamo anche dire di più: alcune “opzioni” (come la fondazione a ripetizione di micro-partiti comunisti e/o “di sinistra” oppure la profusione di appelli unitari inascoltati) sono un’evidente manifestazione della confusione (forse in alcuni casi anche mentale) che regna nel movimento “comunista” italiano e non assomigliano neanche un po’ ad una manifestazione di “effervescenza” e di “vitalità”.
Ma il punto non è solo che le risposte offerte al problema dell’organizzazione dei comunisti non sono adeguate; il punto è che senza “separare il grano dal loglio”, come si sarebbe detto una volta, ogni dibattito è destinato a produrre ulteriore confusione e ulteriore inadeguatezza.
Ci domandiamo, ad esempio, se sia possibile svolgere una riflessione sul tema dell’organizzazione dei comunisti senza interrogarsi su chi siano i comunisti. Come si può ragionare sull’organizzazione di qualcuno che non si cerca – o non si è in grado – di “identificare” dal punto di vista politico e culturale?
Ora, rispondere alla domanda “chi sono i comunisti?” (o meglio, “chi sono per noi i comunisti?” perché non pretendiamo di offrire risposte assolute) non è semplice. Qualcuno potrebbe pensare che il fatto stesso di porsi la domanda sia un atto di “presunzione” (chi sono questi che si mettono a disquisire su chi sono e chi non sono i comunisti?). Ma, come vedremo, in realtà tutti si pongono la domanda e, in un modo o nell’altro, si danno una risposta.
Per cominciare, ci pare evidente l’inadeguatezza della semplice auto-definizione (“i comunisti sono coloro che si definiscono comunisti”). Anche se non vogliamo ricorrere al noto precetto di Marx (“non si può giudicare un uomo dall’opinione che egli ha di sé stesso”) è comunque abbastanza semplice capire che dirsi comunisti o appartenere ad un partito o associazione o gruppo su Facebook… che si definisce comunista non significa affatto essere automaticamente comunisti, altrimenti sarebbero stati “automaticamente comunisti” anche Veltroni, D’Alema o Napolitano prima della “svolta della Bolognina”. E invece, lo comprendiamo tutti molto facilmente, Veltroni, D’Alema o Napolitano non solo non erano comunisti prima della Bolognina, non solo comunisti non sono stati mai, ma, per la precisione, erano e sono pienamente e coerentemente anti-comunisti pur essendo stati massimi dirigenti di un partito che si definiva “comunista”.
È l’esempio più facile, ovviamente. Tra gli anti-comunisti Veltroni, D’Alema e Napolitano e il famoso “militante di base” del PCI (anche quello che poi li ha seguiti senza fare tante storie) c’era un abisso di sincerità e di interessi. Veltroni, D’Alema e Napolitano dirigevano il PCI allo stesso modo in cui un manager dirige una qualsiasi impresa capitalistica, ovvero considerando la crescita dell’organizzazione solo come un mezzo per far crescere il proprio potere, senza prendere nemmeno in considerazione le aspirazioni del singolo iscritto che la mattina andava a lavorare per guadagnarsi il pane e per pagare la tessera. Ma questo vale anche per il rapporto tra Berlusconi e il bottegaio che lo vota e per il rapporto tra Padre Pio e la “beghina” che gli è devota.
D’altra parte, non si può adottare come criterio neppure il “cosa ne pensa il nemico” perché uno dei nemici (Berlusconi) accusa di comunismo un po’ tutti, dagli esponenti del PD ai magistrati che lo indagano: a sentire “Lui” ci sono più comunisti in Italia oggi che tra gli iscritti al PCUS negli anni ’50.
Ecco, a questo punto, possiamo convenire sull’opportunità di escludere – come possibili interlocutori “comunisti” – i Veltroni-D’Alema-Napolitano di “prima della Bolognina” (e i loro equivalenti odierni). Abbastanza facile. Ma tra i Veltroni-D’Alema-Napolitano… e il “quadro” di cui parla la RdCc’è tutta una gamma di “comunismi” e di “comunisti” o, per meglio dire, di sedicenti tali.
Teniamo altresì conto che, mentre i D’Alema-Veltroni-Napolitano… quando si definivano comunisti, sapevano perfettamente di non esserlo, ci sono persone che sono convinte di esserlo e invece non lo sono. Non è infatti così raro trovare “elettori comunisti” che ce l’hanno con i “negri”, con i rumeni, con i “froci”, con i drogati…, che pensano che le donne “sono tutte troie”, che vanno in chiesa e si inginocchiano davanti al prete, che sono “ruffiani” con il capo e il padrone… e che, più in generale, sono indistinguibili nei propri comportamenti e nei propri “valori” da persone che comuniste non sono neppure un po’.
Ci sono poi quelli che scambiano alcune battaglie di civiltà (diritti GLBT, anti-razzismo, risorse naturali pubbliche, aiuto ai terremotati [2]…), che in un “paese normale” (come lo avrebbe definito il compagno Massimo D’Alema) dovrebbero essere portate avanti da semplici movimenti democratici, per lotta “per il comunismo”. L’idea stessa che i comunisti debbano farsi protagonisti delle “lotte per la democrazia” (borghese) è un’altra delle eredità del togliattismo (eredità che, calata nel baraccone politico-istituzionale attuale, spiega l’ulteriore spinta anti-berlusconista del PRC [3]).
Per definire i “comunisti” non basta neppure una semplice caratterizzazione intenzionale (“i comunisti sono coloro che auspicano il comunismo”) che può persino complicare le cose (perché non chiarisce se questo auspicio si riferisce alla semplice prefigurazione di un futuro ipotetico da vagheggiare messianicamente – salvo poi regolarsi nella vita di tutti i giorni in base a dosi sempre più massicce di “sano realismo” – oppure si riferisce all’intenzione di essere parte attiva all’interno di un concreto processo storico-sociale) e, allo stesso tempo, rimanda alla ulteriore e più complessa definizione di comunismo. Franco Fortini scriveva che “il comunismo è la lotta per il comunismo”. Di conseguenza, chi lotta per il comunismo è comunista. Già meglio, perché almeno non siamo alla pura intenzionalità astratta, ma Fortini era un poeta e poteva permettersi il lusso di impostare una “equazione” esteticamente suggestiva (“comunismo = lotta per il comunismo”) senza doversi preoccupare che conducesse ad un vicolo cieco logico [4].
A questo punto possiamo aggiungere una definizione funzionale (“i comunisti sono coloro che svolgono una certa funzione”); si tratta sicuramente di un passo avanti, ma dobbiamo considerare che un qualsiasi progetto (come anche il più isolato degli intellettuali) può ritenere che i compiti dei comunisti (ovvero la funzione che essi svolgono o dovrebbero svolgere) siano esattamente quelli che esso si pone (ovvero la funzione che svolge o vorrebbe svolgere). E siccome la funzione ci si da (da soli) e non ci viene data (da qualcuno) come si fa a dire che è comunista chi vuole svolgere una funzione e non lo è colui che vuole svolgerne un’altra?
Ed infatti anche noi, come tutti, abbiamo identificato la funzione che intendiamo svolgere in questa fase e che, a nostro avviso, anche gli altri comunisti dovrebbero svolgere. Si tratta beninteso di una indicazione generale, non di una elencazione di specifiche attività, e l’abbiamo esposta in un testo che abbiamo dedicato integralmente a questo tema, nel quale abbiamo formulato un ragionamento di questo tipo
“Si pone dunque il problema di come, partendo da queste constatazioni, sia possibile affrontare il “breve-medio termine”, con quale linea politica e con quali obbiettivi. Noi riteniamo che le attività principali da condurre nei prossimi anni potranno essere principalmente due: 1) accumulare e formare forze potenzialmente rivoluzionarie non opportuniste e non residuali e 2) radicare nel tessuto sociale e territoriale idee e percorsi di lotta anti-capitalisti. Questi sono, a nostro avviso, il lavoro di avanguardia e il lavoro di massa che concretamente sono in grado di sviluppare “forze soggettive comuniste” come quelle attualmente esistenti” [5].
Proprio dalla sezione del contributo della RdC che si riferisce alla “funzione dei comunisti” rileviamo alcuni elementi di perplessità che forse sono dovuti ad una nostra incomprensione; ad esempio, quando si scrive che la borghesia italiana
“…dimostra una debolezza strutturale ed un deficit di egemonia per cui i suoi interessi di classe raramente si contemperano con gli interessi generali delle altre classi e ceti come hanno invece dimostrato storicamente le borghesie dei grandi paesi capitalisti ” [6].
Noi la vediamo così:
1) a noi non pare che, in nessun paese, capitalistico o meno, gli interessi delle classi dominanti si “contemperino” mai (e si siano “contemperati” mai) con quelli delle classi dominate, se non nella misura in cui una parziale “contemperanza” sia stata imposta dai dominati ai dominanti (e dunque, se vogliamo, la “contemperanza” non deriva dall’inclinazione dei dominanti, ma semmai da quella dei dominati, attraverso la lotta oppure, al contrario, attraverso la rinuncia alla lotta, come nel caso delle “aristocrazie operaie”) [7];
2) purtroppo, secondo noi, la borghesia italiana ha una saldissima egemonia culturale – oltre che materiale –. Difatti, come si dice più avanti, siamo “in assenza di una seria iniziativa di classe” e ciò significa che il potere dominante può mantenersi soprattutto grazie alla propria egemonia, senza dover ricorrere all’uso dispiegato della propria forza [8].
E non solo manca una “seria iniziativa di classe” (anti-capitalista), ma uno dei segnali più preoccupanti della fase attuale è rappresentato dalla capacità della classe dominante di orientare il malcontento popolare verso forme incipienti di mobilitazione reazionaria anti-immigrati che fanno presa anche su vasti settori di lavoratori.
Per inciso, l’egemonia “in senso gramsciano” non è l’unico fattore che concorre a rendere forti i dominanti sui dominati. In Lavoro salariato e capitale, Marx scrive
“Da che cosa è determinato il prezzo di una merce? Dalla concorrenza fra compratori e venditori, dal rapporto tra la domanda e la disponibilità, tra l’offerta e la richiesta. La concorrenza, da cui viene determinato il prezzo di una merce, ha tre aspetti. La stessa merce è offerta da diversi venditori. Colui che vende merci della stessa qualità più a buon mercato è sicuro di eliminare gli altri venditori e di assicurarsi lo smercio maggiore. I venditori si disputano dunque reciprocamente le possibilità di vendita, il mercato. Ognuno di essi vuol vendere, vendere il più possibile, e possibilmente vendere solo, escludendo tutti gli altri venditori. L’uno, quindi, vende più a buon mercato dell’altro. Esiste perciò una concorrenza tra i venditori, che ribassa i prezzi delle merci che essi offrono. Esiste però anche una concorrenza tra i compratori, che a sua volta fa salire il prezzo delle merci offerte” [9].
Se applichiamo questo schema [10] alla particolare merce chiamata “forza-lavoro” ne ricaviamo che oggi la concorrenza tra i venditori di forza-lavoro – ovvero tra i lavoratori – è di gran lunga prevalente su quella con i compratori di forza-lavoro – ovvero con i capitalisti – ciò che rende deboli i venditori nei confronti dei compratori, i lavoratori nei confronti dei capitalisti. E poiché uno degli effetti dell’attuale approfondimento [11] della crisi per sovrapproduzione di merci e capitali sarà, come previsto da tutte le analisi (e come è logico che sia perché le classi e i paesi dominanti scaricheranno il peso della propria crisi sulle spalle delle classi e dei paesi dominati), un aumento della disoccupazione e uno sbilanciamento dei rapporti di forza, almeno da questo punto di vista, ancora più pronunciato.
Ma la debolezza dei “venditori” nei confronti dei “compratori” (di merce forza-lavoro) dipende anche da un altro fattore ovvero dalla limitata capacità (sindacale) dei lavoratori di vendere al prezzo più alto la propria forza-lavoro. Cos’è infatti, in definitiva, la forza sindacale se non la capacità di contrattare il più alto prezzo possibile nella vendita della forza-lavoro? I sindacati di regime CGIL-CISL-UIL lavorano per il padronato: avere dubbi su questo è impossibile. Il sindacalismo di classe e di base fa quello che può, ma riesce ad organizzare efficacemente solo una parte ancora troppo piccola del movimento dei lavoratori. Quindi, i lavoratori non riescono a recuperare con la lotta sindacale lo svantaggio derivante dalla crisi, dall’aumento della disoccupazione e dall’aumento dell’occupazione precaria e ricattata.
Da queste considerazioni traiamo l’ulteriore conferma che oggi, purtroppo, la questione che segna lo scenario sociale sta soprattutto all’interno della classe “dominata” (ed è anche questo, a nostro avviso, che spiega, più che un “astratto razzismo”, la contraddizione tra lavoratori italiani e lavoratori immigrati).
3) quanto al fatto che il presunto “deficit italiano” non avrebbe riscontro in altri paesi, anche qui, non ne siamo troppo convinti. Basta leggersi alcuni rapporti dell’OECD [12] per verificare che in tutti i paesi di quell’area è aumentata sensibilmente (e con l’attuale gestione della crisi “finanziaria” aumenterà ulteriormente) la polarizzazione sociale entro i paesi (e tra questi paesi e quelli non OECD); in nessun paese OECD (ed è lì che ci sono gli altri “grandi paesi capitalisti”) c’è “contemperanza” di interessi ma, esattamente all’opposto, la difesa degli interessi di una classe (dominante) avviene contro gli interessi delle altre classi (dominate).
A parte alcuni altri passaggi su cui nutriamo perplessità minori, ci pare comunque da valorizzare quello che vogliamo considerare come il ragionamento centrale di questa sezione del contributo della RdC: i comunisti devono intervenire nel conflitto di classe a tutti i livelli (politico, sociale, sindacale):
1) in modo efficace avendo compagni e compagne capaci di farlo e qui, evidentemente, gioca un ruolo fondamentale la formazione “a 360 gradi” (che si fa tanto “sui libri” quanto “sul campo”). La questione della formazione rimanda all’ulteriore questione di essere/diventare capaci di sviluppare tutti i livelli della teoria (conoscenza, divulgazione, produzione) avere una teoria rivoluzionaria è cosa ben diversa dal conoscere la teoria rivoluzionaria con cui altri hanno operato in altre epoche. Ora, per capire se una concezione teorica sia valida o meno non c’è che un modo: verificarla nella pratica (nel senso che Marx dava ai concetti di “attività rivoluzionaria” o “attività pratico-critica” [13]) altrimenti si finisce nel campo del “parlare solo perché si ha la bocca” oppure in quello del “dire una cosa e farne un’altra”;
2) in modo indipendente dal punto di vista politico-culturale e organizzativo, per orientare – in quanto ci è possibile, ovviamente – lo sviluppo del movimento di classe ed evitare che ad orientarlo siano concezioni più o meno direttamente espressione del campo della borghesia, foss’anco una borghesia “democratica” e “progressista”. Giustamente, qui la questione non è tanto “rifarsi a Lenin” (che pure su questo specifico punto ha scritto alcune delle pagine più belle ed importanti del suo intero straordinario contributo teorico), quanto alla nostra stessa esperienza recente [14].
Nel 2002-2003, “seguendo in anticipo” il suggerimento della RdC sulla necessaria indipendenza nei movimenti, ci eravamo cimentati [15] nella “missione impossibile” di provare a suggerire, all’interno di un certo ambito di dibattito nazionale, una modalità di intervento – antimperialista e non subalterna – nel movimento contro la guerra. Ma la “missione impossibile” si rivelò… troppo impossibile e dovemmo assistere impotenti alla triste rincorsa degli antimperialisti nei confronti dei pacifisti.
Riassumendo, quello che ci premeva era evidenziare la necessità di capire – nell’approssimarci al tema dell’organizzazione dei comunisti – chi possano essere (o, quanto meno, chi non possano essere) gli interlocutori di questo confronto [16] perché altrimenti quello che viene fuori non è un confronto ma quello che “tecnicamente” potremmo definire “parlarsi tra sordi”.
Note
[1] RdC, Partito e organizzazione. Una base di discussione per i comunisti in Italia (PeO), pag.1.
[2] Già, perché i Giovani Comunisti hanno fatto pure le “brigate” per aiutare la ricostruzione in Abruzzo (o per contendere la scena e i voti a Berlusconi?). Una volta si andava in Spagna con il fucile, i tempi cambiano…
[3] Il PRC si è messo a cantare sempre più forte nel coro “legalitario” dei Di Pietro e dei Travaglio, pretendendo che vengano “applicate le leggi”, come se quelle non fossero leggi che tutelano gli interessi delle classi dominanti contro quelli delle classi sfruttate. Dopo la “stangata di aprile” e dopo il Congresso di Chianciano del 2008 si poteva supporre che nel PRC si sarebbe aperta una riflessione seria e approfondita sul disastro elettorale della SA. Ad esempio, il PRC avrebbe potuto riflettere sul fatto che – oltre alla totale mancanza di risultati concreti conseguiti a favore delle masse popolari – una della ragioni del cataclisma fosse dovuta ad una quota di “voto utile” che aveva spinto molti elettori della SA a votare il PD pur di “battere Berlusconi”. Chi si immaginava che il PRC potesse aver capito che insistere sull’anti-berlusconismo ad oltranza (l’equivalente sostanziale del “battere le destre” dell’InFausto) avrebbe continuato a consegnare nelle mani del PD una potentissima opzione sul proprio elettorato, si sbagliava di grosso. Il gruppo dirigente (allo sbando) del PRC si è buttato con ancora più foga sull’anti-berlusconismo (uno dei pilastri delle vittorie di Berlusconi), sui referendum e sulle manifestazioni di Di Pietro (ivi compreso il “No B-Day”) ed ha addirittura dichiarato la propria disponibilità ad allearsi con chiunque – anche con Casini; e perché non con Fini? – per un “Governo di transizione” (proposta che Ferrero, peraltro, aveva già formulato la scorsa estate al Congresso PD di Genova). Come abbiamo illustrato ampiamente in Il ciclo sgonfiato e in Essere antifascisti, l’anti-berlusconismo è la chiave per accedere a qualsiasi tipo di alleanza e quindi a noi non stupisce minimamente questa linea della FdS e del PRC. Quello che ci stupisce – confessiamo l’ingenuità – è che ci sia qualcuno che ancora abbocca a sparate del tipo “Mai più bisognerà dialogare con il PD!” (cfr Giorgio Cremaschi in «Rottura anche nel sindacato. La Cgil molli Cisl e Uil». Il segretario FIOM: «Mai più col PD» di M. Cocchi, Il Resto del Carlino, del 29 luglio 2008. Come faceva quella canzone di Mina? Parole, parole, parole…
[4] Sostituendo progressivamente a destra la parola comunismo con la “definizione” che di esso viene data, si ottiene la nuova formula “comunismo = lotta per il [lotta per il [lotta per il [lotta per il….]”).
[5] Laboratorio Marxista – Compagne e compagni veneti per una organizzazione politica marxista, I nostri compiti nell’immediato… ma non troppo, aprile 2005, www.antiper.org.
[6] RdC, PeO, Pag. 21.
[7] Se si voleva intendere che in certe epoche, in particolarissime condizioni economiche e politiche, le classi dominanti hanno dovuto lasciar cadere qualche briciola dal tavolo affinché le classi dominate potessero raccoglierla, allora sì, questo è vero, ma non si tratta di “contemperanza” e neppure di beneficenza. Si tratta di “virtù” indotta dalla necessità.
[8] E questa è la ragione per cui nutriamo forti perplessità in merito alle tesi sulla cosiddetta “fascistizzazione dello Stato” o sulla sua presunta “deriva autoritaria”, come abbiamo esposto in modo particolareggiato in Antiper, Essere antifascisti. Riflessioni su fascismo e democrazia, aprile 2009, www.antiper.org. Ci pare che per il momento lo Stato non abbia alcun bisogno di ricorrere al fascismo per tenere sotto controllo le contraddizioni sociali esistenti.
[9] Scritto nel 1847. Pubblicato nell’aprile 1849 sulla Neue Rheinische Zeitung.
[10] Che costituisce solo un aspetto embrionale della riflessione di Marx sulla formazione del prezzo delle merci nel modo di produzione capitalistico e che verrà successivamente precisato in quella che viene comunemente chiamata Legge della trasformazione del valore in prezzi di produzione.
[11] Legato all’esplosione della bolla finanziaria nel 2007-2008.
[12] OECD, Growing unequal?
[13] Karl Marx, Tesi su Feuerbach, I.
[14] Basti prendere il movimento “no global”-Social Forum o il movimento contro la guerra in Iraq e si capisce subito a cosa ci riferiamo: una volta che le forze politiche, sindacali e sociali dirigenti di quei movimenti hanno ritenuto di aver realizzato il proprio obbiettivo – ovvero incrinare e rovesciare il consenso del Governo Berlusconi – hanno dismesso ogni intervento di movimento e si sono concentrate solo sulla rivincita elettorale e sul ritorno al Governo.
[15] Cfr. Laboratorio Marxista, ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell’aggressione all’Iraq, gennaio 2003, www.antiper.org.
[16] Altre riflessioni sul tema comunismo/comunisti le abbiamo svolte in un Incontro di Approfondimento Teorico (IAT) di cui abbiamo pubblicato gli appunti preparatori (incompleti). Cfr. Antiper, Riflessioni su Marxismo e comunismo, 58 pagine, www.antiper.org.