Antiper | Qualche considerazione sulle elezioni generali nel Regno Unito del 12 dicembre 2019
Antiper, Qualche considerazione sulle elezioni generali nel Regno Unito del 12 dicembre 2019, PDF, 14 dicembre 2019
Le elezioni inglesi sembrano aver prodotto un esito chiaro: Boris Johnson e i Conservatori hanno vinto, Jeremy Corbyn e la “sinistra” hanno perso, il “popolo” inglese vuole la Brexit.
Ma le cose stanno davvero in questo modo?
I risultati. Una prima osservazione da fare è la seguente: dato il carattere uninominale del sistema elettorale inglese i Conservatori, pur avendo raccolto solo il 43% dei voti hanno ottenuto il 56,1% dei seggi (365 su 650) [1]. I Laburisti non sono stati penalizzati perché con il 32% dei voti ottengono il 31,23% dei seggi. Penalizzati sono stati semmai i partiti minori che in nessun collegio (o quasi) potevano essere maggioritari (ad esempio i Liberali hanno raccolto l’11% dei voti e l’1,6% dei seggi). E già questo dovrebbe farci riflettere sul carattere “democratico” di un sistema politico in cui una minoranza diventa una netta maggioranza e in cui i grandi partiti vengono premiati a scapito dei piccoli.
Dai dati si ricava che i pro-Brexit non sono affatto una larga maggioranza e questo va detto per capire meglio la situazione e non certo per consolare gli europeisti (che non meritano per nulla di essere consolati).
La vittoria dei conservatori. Il partito Conservatore non ha conquistato molti voti (+1,2% rispetto al 2017) e ha potuto fare “man bassa” di seggi solo grazie a due elementi (oltre a quello del sistema elettorale): 1) Il “voto utile” del Brexit Party che alle europee aveva preso il 30,5% [2] e il 12 dicembre ha preso il 2% (i Conservatori avevano raccolto alle europee l’8,8% e questo spiega anche la sostituzione di Theresa May con Boris Johnson); 2) L’arretramento del Labour che perde il 7,9% rispetto al 2017 (anche se fa addirittura +18,5% rispetto alle europee, con il recupero dei voti persi verso i liberali a giugno).
Da questi dati si possono trarre due conclusioni: 1) il terreno “europeo” è un terreno minato per il Labour che va malissimo alle europee e male anche in questo “referendum” “pro/con” Brexit, ulteriormente drammatizzato da tutto il tira e molla sul “no deal”: 2) il tentativo dei Conservatori di non assumere un atteggiamento “hard” sulla Brexit è stato sconfitto dal risultato delle europee e dalla premiership di Boris Johnson (che in effetti era stato uno dei protagonisti della campagna referendaria).
La sconfitta dei laburisti. In queste elezioni Jeremy Corbyn ha provato, peraltro senza riuscirvi, a spostare il terreno dello scontro sulle questioni sociali; purtroppo (per lui) le elezioni erano in realtà un nuovo referendum sulla Brexit.
Il leader laburista ha sbagliato mossa? Non ha capito quale fosse la posta in gioco? O forse ha fatto la sola mossa che aveva a disposizione?
È realistico pensare che il fu-New Labour si sia ravveduto rispetto alla propria recente storia ultra-neo-liberista e ultra-guerrafondaia? Tutto può essere, certo, (in fondo San Paolo è stato folgorato sulla via di Damasco ed è passato da persecutore di cristiani a fondatore del Cristianesimo), ma è poco probabile.
Piuttosto, la mossa di Corbyn sembra essere stata dettata dal tentativo di riconquistare terreno nella storica base sociale del partito laburista che negli ultimi anni è stata sempre più egemonizzata da pulsioni xenofobe e da posizioni anti-europeiste di destra. Il punto era: come farlo?
Corbyn non poteva proporre una chiara posizione anti-europeista “di sinistra” perché nel suo partito c’è una larga parte europeista; e non poteva proporre una chiara posizione “europeista” perché nel suo partito c’è anche una larga parte anti-europeista (quella che poi alla fine non lo ha votato). Non potendo optare né per una posizione europeista né per una posizione anti-europeista Corbyn ha provato a spostare il discorso su un altro piano, ma questo spostamento tattico non ha funzionato. Il che è qualcosa su cui bisognerà riflettere a freddo: perché se è vero che le classi popolari non si sono fatte imbrogliare dalle promesse sociali (elettorali) della “sinistra” (e questa è una buona notizia) è altrettanto vero che si sono fatte facilissimamente irretire dalle promesse elettorali populiste, xenofobe, nazionaliste, razziste… della destra. Ora, del destino dei Laburisti e di Corbyn può anche interessarci (e in effetti ci interessa) assai poco; ma delle trasformazioni politiche e culturali che si agitano nelle classi popolari occidentali, invece, ci interessa moltissimo.
Che mezzo bicchiere è? Si può discutere se il 32% raccolto alle elezioni dal partito laburista sia poco o tanto e se la “svolta neo-socialdemocratica” sia un fatto reale o semplice maquillage. Dal nostro punto di vista il 32% ad un partito come il Labour Party non è né poco, né tanto: è troppo. I lavoratori avrebbero dovuto (e dovrebbero) assai più massicciamente di quanto non abbiano fatto fino ad oggi abbandonare quel partito che è stato responsabile di veri e propri crimini sociali e politici, nazionali e internazionali; questo, ovviamente, non per abbracciare la demagogia della destra, ma piuttosto per scegliere una reale alternativa anti-capitalistica. Se a raccogliere il 32% di Corbyn fosse stato un partito autenticamente “socialista”, un partito schierato in modo intransigente dalla parte dei reali interessi dei lavoratori (fosse pure in modo sinceramente riformista) ci sarebbe stato di che brindare. Così come ci sarebbe stato da brindare se anche solo i voti persi dal Labour fossero confluiti su posizioni anti-capitaliste. Ma le cose, come sappiamo, non sono andate in questo modo.
L’acceleazione del leave. Una delle conseguenze prevedibili del voto inglese è probabilmente quella dell’accelerazione del “leave” della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Johnson ha già indicato la deadline del 31 gennaio 2020.
Che questo esito possa essere una cosa positiva per i lavoratori inglesi è lecito dubitarne. Beninteso, non perché il “remain” sia meglio. Il fatto è che solo ciò che si strappa attraverso dure lotte sociali, politiche e culturali può essere davvero favorevole per i lavoratori – e nel quadro di una società capitalistica può esserlo solo in certa misura e in via transitoria –
“Di tanto in tanto gli operai vincono, ma solo temporaneamente. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma la loro unione, che sempre più si diffonde” [3]
Che i lavoratori possano ottenere risultati utili per i propri interessi votando in massa i tories inglesi o la Lega in Italia o Marine Le Pen in Francia è qualcosa che una mente assennata non dovrebbe prendere in considerazione neppure come semplice ipotesi (anche se ovviamente bisogna sempre capire perché questo può avvenire e in effetti avviene); così come i lavoratori non possono ottenere risultati utili per i propri interessi neppure votando per partiti come il Labour o il PD. Più in generale i lavoratori non possono ottenere risultati utili per i propri interessi limitandosi a votare.
Il fatto che dentro una certa asin/istra in preda al proprio delirio di impotenza ci si scambino pacche sulle spalle per la vittoria della Brexit – dichiarata niente meno che espressione della volontà popolare (come se il 43,9% dei voti ai nazisti nella Germania del 1933 non fosse anch’esso espressione della “volontà popolare”) – è qualcosa che meriterebbe di essere studiata non sul piano politico, ma piuttosto su quello psichiatrico.
Una separazione contraddittoria. Anche una separazione che può apparire drammatica quando letta attraverso i nuovi e vecchi media, può rivelarsi assai più blanda nella realtà. Checché se ne dica, il capitale ha sempre un atteggiamento molto pragmatico perché in definitiva quello che conta davvero è il profitto e ogni ideologia è buona per realizzare questo obbiettivo.
Ci sono rimasti solo gli asin/istri eurofobi ed euromani (oltre naturalmente a tutta la mala genìa neo-nazionalista e neo-populista) a fare della “questione europea” una questione di principio. Persino i lavoratori inglesi sono molto più pragmatici: che si esca dall’Europa per tagliare il canale di ingresso di italiani, polacchi, pakistani e di tutti gli altri maledetti stranieri [4].
Il rinculo della globalizzazione. Il risultato inglese va letto nel quadro di una gigantesca “onda di ritorno” rispetto al fenomeno della cosiddetta “globalizzazione” che ha caratterizzato le dinamiche internazionali almeno degli ultimi 30 anni. Si tratta di un’onda che coinvolge tutto il mondo occidentale che nella “globalizzazione neo-liberista” – in particolare attraverso i fenomeni della finanziarizzazione e delle delocalizzazioni – aveva riposto le speranze di un nuovo grande ciclo di accumulazione.
La critica alla globalizzazione, che aveva esordito alla fine dello scorso millennio con un segno di ambiguità (mescolando rivendicazioni contraddittorie [5] e come quelle avanzate nelle manifestazioni del 1999 a Seattle contro il cosiddetto Millenium Round del WTO), ha decisamente virato “a destra” assumendo caratteri apertamente neo-nazionalistici che stanno spianando la strada a nuovi e vecchi movimenti reazionari. Le componenti nazionalistiche del movimento anti-globalizzazione, che erano state marginali per una lunga fase, sono diventate egemoni, soprattutto grazie alla critica delle istituzioni sovra-nazionali (nel nostro caso, UE e Euro) e all’assunzione di posizioni apertamente xenofobe.
La battaglia contro l’Europa. È condivisibile la denuncia del carattere imperialista della costruzione europea?Sì. L’Unione Europea è impegnata, come peraltro anche i Governi nazionali, a difendere gli interessi del capitale e non quelli dei lavoratori: quella dell’acqua calda è una scoperta più emozionante di questa.
Ma l’Unione Europea è anche pur sempre una costruzione tra nazioni che hanno enorme potere sulle numerose e importanti decisioni che vengono assunte all’unanimità (il che anche spiega l’evidente debolezza politica della UE, paralizzata dai veti incrociati dei singoli paesi).
Gioire per la Brexit come se si trattasse di una vittoria delle masse britanniche (ed europee) senza rendersi conto della gravità del fatto che tra i lavoratori britannici (ed europei) serpeggiano sentimenti e suggestioni reazionarie che ben poco hanno a che vedere con l’Unione Europea è davvero qualcosa che lascia basiti.
Passato e futuro. In una visione politica marxista e internazionalista l’apertura di uno spazio globale non è necessariamente una cattiva notizia; semmai, la cattiva notizia è che tale spazio sia egemonizzato dal capitale (come del resto avviene, oggi, per ogni altro spazio).
Ma la soluzione non può essere vista in una qualunque forma di (illusorio) ritorno al passato, sia esso sovranista, sia esso comunitario/comunitarista. È nel futuro, non nel passato, che è collocata la soluzione ai problemi che sorgono di fronte a noi.
Note
[1] BBC, Election 2019, Results
https://www.bbc.com/news/election/2019/results
[2] Wikipedia, 2019 European Parliament election in the United Kingdom
https://en.wikipedia.org/wiki/2019_European_Parliament_election_in_the_United_Kingdom
[3] Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Roma-Bari, 2005, a cura di Domenico Losurdo
[4] Enrico Di Pasquale, Brexit, quali sono gli stranieri sgraditi agli inglesi e quali no, Il sole 24 ore, tratto da lavoce.info
https://www.ilsole24ore.com/art/brexit-quali-sono-stranieri-sgraditi-inglesi-e-quali-no-ABOVxbZB
[5] Cfr. Luke Martell, Sociologia della globalizzazione, Einaudi, 2012.