Carla Filosa | I nuovi “amici del popolo”
Il popolo non ha amici o poteri che lo tutelino, ma ha bisogno innanzitutto di fuoriuscire dall’ignoranza cui è stato da sempre relegato
“Tempi bui” aveva definito i suoi tempi – anni ’30-’40 del secolo scorso – B. Brecht. Questi nostri tempi potrebbero forse chiamarsi nebbiosi o meglio opachi, tempi in cui il potere, sostenuto da protesi tecnologiche di assoluta pervasività nelle coscienze, è riuscito a disorientarle su tutte le tipologie dei fatti sociali lasciando la scientificità solo sotto suo esclusivo uso e controllo. La comunicazione ha sostituito l’informazione e questa può continuamente essere deformata in base a convenienze economiche e politiche. La visione delle cose reali ne risulta incerta, insicura, si procede a tentoni nel più ampio spreco di empiria, deprivati di criteri razionali perché criminalizzati come “ideologia” divisiva, senza più intravedere le conseguenze di premesse determinate. I governi vengono scelti perché ancora non sono stati provati, poi si vedrà.
Il “restiamo umani” è diventato un obiettivo difficile testimoniato dalla necessità del suo appello; non si conosce il percorso per non essere ciò che già si è, intellettualmente colonizzati alla rinuncia, all’impotenza, alla rassegnazione della sconfitta o della pacificazione imposta. Il dogma dell’utile individuale continua a regolare le relazioni tra cose all’insaputa di persone rese ormai pure apparenze, la cui dignità sognata e non posseduta può essere esternalizzata da un decreto fasullo, che approda dopo che ne è stato strappato il senso legato alla lotta per l’esistenza. Quest’ultima però, non più solo naturale ma soprattutto sociale, scorre quasi normalizzata nei rivoli della xenofobia alimentata, del razzismo ritrovato, di un’ipotetica legittima difesa da legalizzare, di un’impunità da carpire, nell’anonimato di una rabbia sadica sfogata contro il diverso, ecc.
Se per questo ci fosse bisogno di un riferimento politico dell’oggi si può pensare al ministro leghista della famiglia, Lorenzo Fontana, omonimo dell’altro leghista e varesotto Lucio che, in preda ad un lapsus – a suo dire –, confuse il termine razza, intesa come bianca e cristiana, “superiore”, con razzismo. Corredo a tanto elevato “lapsus” è poi l’avversione al mantenimento nella nostra Costituzione della clausola di divieto di apologia del fascismo, facendo eco a una vecchia battaglia della Lega a sostegno della quale vennero anche raccolte le firme nella primavera del 2014. Da ministri si usa giurare sulla Costituzione sorta dalla lotta al fascismo, ma evidentemente si tratta di una formalità inessenziale su cui anche Salvini concorda, nell’affermare di voler abrogare la legge Mancino, “trasformata in questi anni strani in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”. Mentre infatti quest’altro Matteo da una parte dichiara che “priorità della Lega e del governo sono lavoro, tasse, giustizia e sicurezza”, dall’altra asserisce che bisogna “evitare di processare le idee, nel nome della libertà di pensiero… è una battaglia giusta ma certo non una priorità”. A tanta confusa chiarezza sembrano rispondere, in questa società appannata, le vili aggressioni ai danni di stranieri o anche italiani – ma coloured, Usa style –, e, peggio ancora, le formazioni che apertamente si richiamano al fascismo e al nazismo che si sentono autorizzate a rinnovare provocazioni e violenze. La legge Mancino in questo contesto di “cambiamento” risulta scomoda.
La lotta per l’esistenza sociale non viene più colta nella sua origine interna alla classe abusata, e da cui magari si tenta di sfuggire, cui si appartiene per una nascita predisposta senza alcun diritto dal sistema di capitale sovraordinato su tutti. Il “cittadino”, ipotizzato come destinatario di un’equità dovuta, è da sempre un’astrazione fallace. Come abitanti di un mondo che ideologicamente viene definito globalizzato da un capitale in perenne clandestinità, apparteniamo, per lo più senza saperlo o volerlo, alla maggioranza in continuo aumento di una classe da sfruttare, laddove è in questione non lo sfruttamento ma se lo si pratica nell’apparente dignità di chi lo subisce. La classe più esigua, dunque, sfrutta nel pieno diritto acquisito dall’abitudine e si appropria della ricchezza socialmente prodotta. Riaprire gli occhi su questa realtà basilare è lo sforzo sociale cui tutti siamo chiamati per minimizzare se non sconfiggere la barbarie già in atto intorno a noi.
Per contrastare questa tendente trasformazione che ormai sembra di specie, si tenta ora di invitare a una riflessione che certamente richiede disponibilità di tempo e interesse ancora inestinto a capire, cioè afferrare concettualmente questo presente, proponendo un passato che riesce a parlare ai nostri giorni e i fatti a questi legati come il ritorno di meccanismi già visti ed usati, ma ormai ignorati. A più di cento anni di distanza dalla rivoluzione russa Lenin offre analisi valide anche per diradare le molte confusioni dell’oggi. Sottoporle ai giovani e non più giovani che ancora resistono all’abbandono di ogni forma di lotta a questo sistema sempre più distruttivo della vita sociale, è già una battaglia che merita di essere vinta.
In risposta ad articoli apparsi sulla rivista mensile “RusskoieBogatsvo” (La ricchezza russa), pubblicata dal 1876 fino alla metà del 1918, Lenin scrisse nel 1894, ma aveva già cominciato ad organizzarlo un paio di anni prima, un libro dal titolo “Che cosa sono gli ‘Amici del popolo’ e come lottano contro i socialdemocratici?”, di critica ai populisti liberali russi che propugnavano una politica di conciliazione col governo zarista e quindi strenuamente avversi al marxismo. Da tenere presente che allora erano chiamati “socialdemocratici” i comunisti della futura tendenza bolscevica. Nonostante sia stato possibile conoscere solo la prima e la terza parte di questo testo [1], alcuni argomentati rilievi alle modalità e specificità della politica del tempo, sembrano di assoluta attualità ancora per l’oggi “globalizzato”. Dati i meccanismi che il potere utilizza da sempre, adeguandoli solo in termini gattopardeschi al mantenimento di un dominio di classe, l’interesse a rivedere questo passato per ora inestinguibile è stato destato dalle recenti affermazioni politiche populiste, e non solo nel nostro paese.
All’insediamento inizialmente proposto dell’attuale premier Conte, allora sconosciuto, Di Maio rassicurò in tv che era un “amico del popolo”, – forse ignorando il precedente storico di cui qui si tratterà – e il primo atto politico da lui stesso firmato porta il titolo di “Decreto dignità”, già sottoposto a varie critiche. Non solo. È recente la notizia della scomparsa dell’a.d. Sergio Marchionne, annuncio seguito da un coro unanime di riconoscimenti alla sua genialità e abilità di manager nell’era del capitale transnazionale. Quello che colpisce è l’inserimento in questo coro dei sindacati, tra cui la Cgil, che ha usato il termine “avversario” nel rammentare anche i contrasti passati. Come dire, i lavoratori di Pomigliano o Mirafiori stiano quieti, i ricatti subiti, l’eliminazione delle pause, dei diritti sindacali, ecc. erano dovuti alla squadra di calcio “avversaria” con cui si gioca una partita, non a uno degli agenti più capaci del “nemicodiclasse”, ovvero dell’innominato capitale, evocabile questo solo come fonte di “investimenti” benefici per l’occupazione, che Marchionne avrebbe “tutelato”!
La distinzione tra la persona, la cui morte può intristire in quanto la riconosciamo simile a noi per la comune fragilità umana, e la funzione sociale che questa ha svolto come appartenenza di classe, da parte sindacale andrebbe chiarita a lavoratori e intellettuali democratici inconsapevolmente imborghesiti, per non cadere in un pressappochismo umanitaristico senza criteri. Questo è stato infatti, in passato, il grimaldello, riservato anche a chi aveva ingenuamente creduto alla lotta armata individualizzata – lungi dall’idea di esprimere una qualche simpatia mai avuta –, per espungere dalla coscienza un concetto di classe in qualche modo acquisito, e cancellarlo nell’unicità di un crimine unanimemente riconosciuto contro la persona e i suoi affetti, causa del dolore di familiari, amici e colleghi. Nelle mafie che liberamente imperversano, al contrario, molto più preparate e consapevoli per essere sezione speciale del capitale o del potere silentemente condiviso, i reparti militari non hanno mai avuto di questi cedimenti, neppure di fronte all’esecrazione generale che si sa transitoria o di maniera.
Siccome però l’ideologia neocorporativa è onnipervasiva, il conflitto sociale non s’ha nemmeno più da conoscere, non solo da nominare, il reale sfruttamento di classe deve proseguire anche nelle leggi che ne regolano l’attuazione, l’unica condizione per sopravvivere è chinare la testa agli ordini e alle menzogne padronali, nascondendosi dietro una vincente democrazia mascherata. Il continuo mantra ossessivamente ribadito dai 5 stelle di non essere né di destra né di sinistra, il rifiuto di schierarsi o di parlare del fascismo, passato e presente, esprime l’obbedienza diligente a un’immagine politica di supposta neutralità coerente con una società pacificata, in cui c’è solo da migliorare qualche normativa a favore di “cittadini” sempre supposti eguali e tutelabili dall’alto. Questo a significare che il lavoro non ha più bisogno delle analisi di Marx, il cui rifiuto e mistificazione si lega a quello della conflittualità del reale, perché adesso c’è chi parla con i riders e chi regala dignità a chi si accontenta tacendo. I nuovi “amici del popolo” sono tornati non appena i nuovi zar travestiti da democratici sono stati resuscitati dalle crisi di un capitale in lunga astinenza da accumulazione. Sono i nuovi pifferai che hanno l’incarico di condurre al baratro di una resa incondizionata una proletarizzazione mondiale, che rinunci nei fatti a ogni diritto solo invocandone la rivendicazione, pena la morte onnipresente, causata dalle guerre in atto o costantemente minacciate, dalle migrazioni forzate, dai crescenti omicidi sul lavoro (i conti attuali ne danno quattro al giorno!), dal degrado ambientale e sanitario dilagante insieme all’immiserimento, ecc.
Da Marx, invece, abbiamo da tempo capito che il popolo non ha amici o poteri che lo tutelino, ma che ha bisogno innanzitutto di fuoriuscire dall’ignoranza cui è stato da sempre relegato, per essere usato senza parsimonia in quanto capacità produttiva o come carne da cannone. Le risposte di Lenin a questi cosiddetti amici, purtroppo, possiamo farle nostre ancora una volta. L’ideologia usata è quasi sempre la stessa. Nella dissimulata “fine delle ideologie” dei nostri giorni si è cercato di eliminare solo i criteri scientifici della lotta di classe, nel disarmo teorico di un proletariato troppo ingigantito dallo sviluppo imperialistico, mentre l’ideologia dominante perdura attestandosi su una concezione di società in generale. Dal loro punto di vista, dunque, “il concetto di formazione economico sociale è del tutto superfluo” – dirà in questo libro Lenin, sulla falsariga tracciata da Marx secondo cui
“l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica… Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale” [2].
Nel vecchio e nuovo soggettivismo sociologico che guarda solo alle forme giuridiche e politiche e imperversa ancora nei pentastellati: “Lo scopo della società è l’utile di tutti i suoi membri”. L’obiettivo – parole di Di Maio (Manifesto, 26.07.2018) di fronte alle imprese a proposito del decreto dignità – è “garantire più lavoro, più diritti agli imprenditori e ai lavoratori; – inoltre – serve una lotta per il lavoro e non una lotta di classe fine a sé stessa, con l’impegno di tutti insieme, imprese e lavoratori”. Si aggiunge a tanta dichiarazione la reintroduzione, coerentemente (!) interna a questo decreto, dei voucher in agricoltura e turismo, che funzionerà iniquamente come salvacondotto per le aziende di fronte a eventuali ispezioni, oltre all’introduzione di un’autocertificazione all’Inps per i requisiti di legge a carico del lavoratore. Questo solleverà quindi ogni onere dall’azienda e metterà il lavoratore nella condizione di poter dichiarare il falso pur di ottenere il lavoro. Con i voucher non si avrà diritto al trattamento di disoccupazione, né alla tutela per maternità, né si potrà usare la contribuzione a fini pensionistici. L’ulteriore precarizzazione lavorativa che si sta profilando con la destrutturazione del lavoro stagionale, già denunciato, non riguarda scontri “ideologici” ma proprio la classica pura lotta di classe di parte padronale, che una dichiarazione ecumenica di principio non riesce a dissimulare. Già nel 1925 a Palazzo Vidoni si era scoperto che imprese e lavoratori avrebbero dovuto lavorare congiuntamente nel superiore interesse della Nazione! [3]
La sconosciuta e sempre condannata o elusa analisi materialistica ha invece offerto un criterio oggettivo, scientifico della reiterabilità e regolarità dei fenomeni sociali nei diversi paesi, evitandone la semplice e banalizzante descrizione. Il concetto fondamentale di “formazione sociale” cui si giunge permette quindi di identificare differenze e ciò che è comune ai diversi paesi capitalistici, rappresentando in tal modo
“l’evoluzione delle formazioni sociali come un processo storico naturale, con i suoi aspetti della vita quotidiana, con la manifestazione sociale concreta dell’antagonismo delle classi inerente ai rapporti di produzione, con la sovrastruttura politica borghese che protegge il dominio della classe dei capitalisti, con le idee di libertà, eguaglianza, ecc., con i rapporti familiari borghesi” [4].
Ignorare o sottrarsi a questa analisi rafforza il detto
“che la lingua è data all’uomo per nascondere il proprio pensiero o per dare alla vacuità la forma del pensiero” [5]!
I rapporti ideologici, pertanto, sono una sovrastruttura di quelli materiali rovesciandosi a loro volta su questi ultimi, e si creano in modo indipendente dalla volontà e dalla coscienza degli individui, come risultato dell’attività volta alla conservazione dell’esistenza.
“Grattate ‘l’amico del popolo’ – possiamo dire parafrasando un detto celebre – e troverete il borghese” [6].
Non si vince nulla! La continua denuncia, che Lenin non si stanca di ribadire, riguarda la futilità e l’insulsaggine di argomentazioni infondate o di un uso di categorie generali e perpetue – quali oggi l’eternizzazione di questo sistema sempre sostenuta da sociologi ed economisti di sistema – sorte invece da formazioni sociali storicamente determinate e quindi superabili. All’accusa poi compiaciuta dei cosiddetti “amici” dell’essersi distrutti reciprocamente sulla base dell’orgoglio e odio nazionale tra operai francesi e tedeschi dell’epoca e interni all’Associazione Internazionale fondata da Marx, Lenin risponde denunciandone invece la base negli interessi della borghesia commerciale e industriale, di cui il sentimento nazionale non è fattore a sé stante.
Il sistema dello scambio, dominato sempre dalla borghesia anche nei nostri giorni – e lo vediamo dai dazi di Trump agli accordi dei paesi di Visegrad – nell’alternanza tra protezionismo e libero scambio o accordi bilaterali, fomenta a ondate gli odî nazionali per contrastare i quali non c’è che l’unità organizzata della classe oppressa contro quella che opprime, in ogni singolo paese. Se oggi è di moda respingere chi ha bisogno di aiuto al punto di lasciarlo morire in mare o nella neve, colpire chi ha la pelle diversa da quella bianca di cui è sempre implicita la superiorità, sgomberare i campi rom o dare fuoco a chi vi appartiene purché inerme, chiudere le frontiere con l’arroganza di gendarmerie al di sopra delle leggi vigenti, ecc., significa che il nazionalismo ha ritrovato i suoi adepti, non sulle idee nostalgiche o retró di qualche rozzo governante, ma su interessi economici in piena belligeranza (per fare un solo esempio: acciai Usa, cinesi, italiani, tedeschi).
Il travisamento di Marx e del metodo scientifico ha sempre regalato, a chi l’ha praticato, notorietà o posti di rilievo sociale. Invece di “mostrare l’oppressione delle masse nel regime esistente, mostrare la superiorità del regime nel quale ognuno avrebbe ricevuto ciò che egli stesso avrebbe prodotto, mostrare che questo regime ideale corrispondeva alla ‘natura umana’,… Marx ne diede una spiegazione scientifica, riconducendo questo regime esistente, diverso nei diversi Stati europei e non europei, a una base comune: alla formazione sociale capitalistica, e sottopose le leggi del funzionamento e dello sviluppo di questa società ad un’analisi obiettiva (dimostrò la necessità dello sfruttamento in questo regime)” [7]. Omettere in tutti i tempi i contenuti di questa teoria per combatterne la diffusione nella formazione di coscienze potenzialmente rivoluzionarie, trasferirne sul piano morale e individualistico le mistificazioni di invidia o odio, condimenti per un sentimentalismo innocuo piccolo-borghese da imbandire sulla tavola del libero arbitrio, è stato ed è uno stanco leitmotif tuttora in auge.
Nella lettera a Ruge del 1843 Marx scriveva:
“Noi dobbiamo occuparci dell’esistenza teorica dell’uomo, dunque far oggetto della nostra critica la religione, la scienza ecc. … Come la religione è l’indice delle lotte teoriche degli uomini, lo Statopolitico lo è delle loro lotte pratiche. Lo Stato politico esprime dunque all’interno della sua forma sub specie rei publicæ (dal punto di vista politico) tutte le lotte, i bisogni, le verità sociali. Non è dunque affatto al di sotto della hauteurdesprincipes far oggetto della critica la questione politica più particolare, ad esempio la differenza tra sistema degli stati e sistema rappresentativo. Infatti questa questione esprime soltanto in modo politico la differenza tra il
dominio dell’uomo e il dominio della proprietà privata. Il critico dunque, non soltanto può, egli deve entrare in questioni politiche (che, secondo l’opinione dei socialisti volgari, sono al di sotto di ogni dignità)” [8].
Ogni aspetto della vita sociale, della sua crescente complessità, – compreso quello di genere di cui in passato non c’era neppure traccia! – va pertanto preso in considerazione nell’analisi che Marx indica come necessità dell’ “esistenza teorica”, necessità di cui oggi, per ora, si è persa cognizione ed esigenza.
Il materialismo come unico criterio scientifico considera quindi la società come
“un organismo vivente in continuo sviluppo (e non come qualche cosa di meccanicamente concatenato, che ammette, per conseguenza, ogni sorta di combinazioni arbitrarie di singoli elementi sociali), per lo studio del quale è necessaria l’analisi obiettiva dei rapporti di produzione che costituiscono una data formazione sociale e la ricerca delle leggi del suo funzionamento e del suo sviluppo” [9].
Criterio dunque con cui
“trovare la legge dei fenomeni,del loro mutamento e del loro sviluppo, del trapasso dei fenomeni da una forma nell’altra, da un ordinamento dei rapporti sociali nell’altro”…
quale
“processo di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma che, anzi, determinano la loro volontà, la loro coscienza, le loro intenzioni” [10].
La negazione del soggettivismo, in queste citazioni di Marx, serve a Lenin per eliminare ogni dubbio sulla funzione non ideale ma subalterna della coscienza, anche se è in questa che prendono l’avvio i “fini” umani, quale riflesso dell’elemento materiale.
Attraverso le leggi immanenti della stessa produzione capitalistica si attua quindi l’esproprio di chi lavora quale necessità in movimento che conduce alla concentrazione e centralizzazione dei capitali, dove molti processi produttivi frazionati vengono fusi in un unico processo sociale di produzione. È entro questo quadro di riferimento che possiamo allora valutare concretamente e correttamente l’operato di un Marchionne che, per non soccombere come Fiat – troppo piccola per non fallire – ha saputo sostenere l’attività predatoria degli altri capitali rendendola una azienda transnazionale secondo le leggi della fusione e acquisizione, della centralizzazione capitalistica.
Per ottenere i profitti necessari alla nuova Chrysler-Fca è stato però necessario aprire l’altro conflitto, imponendo cioè il comando sui lavoratori con l’espulsione del sindacato più combattivo, la Fiom (ricordando anche che nello Statuto dei lavoratori dopo il tanto citato e bersagliato art.18, c’è anche l’art 19 sulla “rappresentanza sindacale”, garantita all’organizzazione più “significativa”), con la divisione di tutti i sindacati, con l’abbandono della contrattazione nazionale, con l’utilizzo del sistema Toyota del worldclassmanagement, con l’eliminazione di tutti gli “sprechi” attraverso i licenziamenti, la riduzione delle pause, la mensa a fine giornata, ecc. Siccome la forza-lavoro acquisita diventa capitale fisso, costituisce il costo da ridurre al massimo possibile. Se si è agenti del capitale – come Marchionne è stato – non si può che dare seguito alle sue leggi, mai scritte ma operanti nella necessità reale.
Nessun giudizio di tipo morale deve interferire a sviare l’obiettivo dell’analisi materialistica, l’unica in grado di farci capire pienamente di fronte a quale concatenamento di meccanismi inarrestabili ci si trova per intraprendere una lotta efficace per incepparli. È il sistema in tutta la sua estensione che va individuato strategicamente, con la conoscenza teorica con cui ci si riconosce classe necessariamente avversa e potenzialmente con la forza della maggioranza della popolazione planetaria, ma che può lottare solo tatticamente in forme separate, e sempre da ricollegare, negli anelli più deboli di questo modo di produzione. Da tenere sempre presente, poi, che il capitale come ha realizzato la tendenza – correttamente individuata da Marx – a diventare sistema dominante a livello mondiale, contemporaneamente genera al suo interno, per il suo stesso ottimale funzionamento, elementi contraddittori al suo sussistere. La certezza storica e teorica della sua transitorietà dev’essere di guida alle lotte contro la sua ineliminabile crescente distruttività sociale che ne accompagna i necessari progressi.
“Noi – scriveva Marx fin dal 1843 – non diciamo al mondo: abbandona le tue lotte, sono sciocchezze: noi gli grideremo la vera parola d’ordine della lotta. Noi gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa che esso deve far propria, anche se non lo vuole” [11].
È proprio ciò che il sistema, e i suoi servi anche sedicenti socialisti o di sinistra hanno sempre impedito, la formazione di una coscienza che rafforzi e persista nell’oggettività delle lotte. L’elusione delle cause reali sfuggendo la lotta dell’abbiente contro il nullatenente, il travisamento teorico, l’affidamento a qualche tutore di comodo “amico del popolo” e la conseguente sfiducia di quest’ultimo nelle proprie forze per smussare l’antagonismo delle classi, carpita anche nell’ipocrisia della fede religiosa, sono stati gli espedienti ideologici messi in atto e giunti fino ai nostri giorni. Intanto l’attacco concreto, nella vita pratica, è stato portato avanti attraverso la costante frantumazione lavorativa, l’inoccupazione, l’immiserimento progressivo, la creazione di aree a bassi salari per introdurre la competizione tra lavoratori, le guerre, le stragi di stato, il controllo sociale secretato mediante poteri massonici, mafiosi, polizieschi, assoldando sicari della destra estrema sempre pronta all’uso, ecc.
Marxista si è definito chiunque non conoscesse nemmeno le tesi fondamentali del marxismo o del materialismo, che non avesse avuto mai nessun programma in un agone politicodove invece solo l’affermazione personale avesse luogo. Inoltre, si è inventata la favola di un comunismo religioso (cattolico), umanitario e senza Marx, si è potuto proclamare il comunismo una dittatura toutcourt, sulla falsariga di quella borghese o ancor più il regime del terrore, sfruttando contingenze personali e storiche che nulla avevano a che fare con l’analisi del sistema di capitale di Marx e della necessità storica del suo superamento. Ogni sorta di falsificazione ideologica, in altri termini, è stata messa in atto da un secolo a questa parte per irretire le coscienze popolari e negarne la collocazione di classe nella sola funzione sociale rispetto al sistema dello sfruttamento.
È chiaro che i populisti che Lenin aveva di fronte nella fine dell’800 non sono quelli di ora. Erano ancora in vigore le leggi feudali nei confronti dei contadini e l’industria aveva sviluppato in Russia solo un embrione di proletariato rispetto a quello dell’Europa occidentale. Non manca però di denunciare tutte le forme di sfruttamento capitalistico che si stavano avviando, quale ad esempio il lavoro a domicilio effettuato dalle aziende artigiane per conto della grande produzione. Fa chiarezza cioè sulla industria chiamata ancora “popolare” e considerata in opposizione a quella capitalistica, mentre invece ne costituiva la premessa o già la prima forma in divenire. Gli “amici del popolo” di allora, come gli altri liberali russi, dissimulavano l’antagonismo delle classi e lo sfruttamento lavorativo chiamandoli “difetti”, perdendo di vista l’organizzazione sociale dell’economia e la spoliazione della piccola proprietà immiserita a vantaggio di quella più grande. Questo era reso possibile con l’omissione oculata della definizione precisa
“delle forme dell’organizzazione economica effettivamente esistente” [12],
basandosi solo
“sulla forza dell’abitudine nonostante tutta la sua fenomenale illogicità, senza esaminare separatamente i rapporti di produzione e trasferendo direttamente la questione nel campo della politica” [13].
Non si percepiva che il cosiddetto regime popolare presentava gli stessi caratteri di quello capitalistico, essendone questo la continuazione e sviluppo. Nella destinazione in mani private di tutto il prodotto del lavoro sociale veniva attivato un processo verso forme più brutali di sfruttamento di quelle feudali; l’accumulazione di capitale
“fa sì che il capitale, pur non essendo ancora in grado di subordinare direttamente a sé l’operaio, acquistandone semplicemente la forza-lavoro al suo valore, avvolga il lavoratore in tutta una rete di vessazioni usurarie, lo leghi a sé con metodi da “kulak” e, come risultato, lo spogli non solo del plusvalore, ma di una parte notevolissima del salario, e per lo più lo inchiodi, privandolo della possibilità di cambiare ‘padrone’, lo schernisca, imponendogli di considerare come un beneficio il fatto che esso gli “dà” (sic!) lavoro” [14].
La critica delle idee populiste non va effettuata solo sulla base di quelle marxiste ma
“è necessario mostrarne il sostrato MATERIALE nei nostri attuali rapporti sociali ed economici. Questo permette di classificare gli ‘amici del popolo’ fra gli ideologi della piccola borghesia, il cui legame ci spiega appunto la vasta diffusione di queste idee radicali nella nostra ‘società’; spiega magnificamente anche il servilismo politico degli ‘amici del popolo’ e lo zelo con cui accolgono i compromessi” [15].
La società odierna è sicuramente più avanzata nello sviluppo capitalistico di quella ancora in parte feudale di cui Lenin parlava, mentre restano indelebili i falsi obiettivi di attenuazione dello sfruttamento, conciliazione e unione sociale del riformismo dei nostri odierni ‘amici del popolo’. È ancora di Lenin la denuncia:
“Vogliono l’economia mercantile senza capitalismo, il capitalismo senza espropriazione e senza sfruttamento e solo con una piccola borghesia che vegeti tranquillamente sotto la protezione di grandi proprietari filantropi e amministratori liberali… si sforzano di combinare un ordine sociale nel quale i lupi sarebbero sazi e le pecore incolumi” [16].
Prendere qua e là qualcosa di buono – dirà ancora Lenin – è solo una fantasticheria reazionaria che ignora la realtà, somigliando ai Menschenfreunde (filantropi) d’occidente, che esaltano l’industriale che si occupa degli operai con spacci di vendita, case, ecc. Anche gli attuali sindacati hanno sempre magnificato l’operato di un Adriano Olivetti i cui interessi opposti venivano cancellati come la foresta dietro gli alberi. Se ancora oggi il mercato è il regolatore della produzione, i socialdemocratici di allora ma anche i comunisti coscienti di oggi prospettano una società in cui i mezzi di produzione le appartengano, sostituendo una forma privata dell’appropriazione del prodotto con una forma collettiva, con una preventiva trasformazione della formadiproduzione, in una forma collettiva unica quale condizione materiale formata dallo stesso capitale.
Qualunque cosa si pensi di Lenin come persona o come figura storica come per chiunque altro: filosofo, politico o intellettuale in genere, non deve avere importanza in questo excursus. Qui si è voluto far riaffiorare alla memoria storica una fase del nascente imperialismo e del suo sovrapporsi ad altri modi di produzione precedenti e compresenti, da cui si svilupparono problemi teorici di diversa matrice e rilievo pratico. L’acutezza e la lucidità del percorso intellettuale di Lenin – quale anche dirigente di una rivoluzione proletaria vittoriosa entro la guerra imperialistica – fa emergere un metodo analitico e una complessità di argomentazioni con cui confrontarsi soprattutto oggi, data la generale difficoltà se non proprio impossibilità di reperire questo materiale, soprattutto per i più giovani.
Il potente ostracismo opposto a tutto ciò che non coincide con il pensiero liberale, è stato possibile procurando progressivamente il suicidio teorico di una sinistra internazionale e nazionale, costretta in spazi culturali e politici sempre più arretrati e a sparizione. L’invito o meglio lo stimolo, che si è cercato di riproporre, riguarda l’attivazione di una critica all’esistente mediante la riappropriazione razionale di un’autonomia mentale che non sia solo il contenuto di alcune canzoni d’autore. Ogni abbandono problematico, deresponsabilizzazione sociale, affidamento fideistico, facilitazione culturale accettata e fatta propria è una vittoria di questo sistema predatorio. Se riflettere o sapere alle volte è faticoso e fa male, è comunque l’unica difesa che in questa fase putrescente del capitale può rimanere proprietà inalienabile della nostra forza-lavoro precarizzata e svalorizzata. Saper riconoscere poi i finti marxisti fa parte di questo re-impadronirsi della propria intelligenza, ricominciando dai testi originali di Marx, facendo a meno di intermediazioni di dubbia volontà o capacità interpretativa.
La somma di individui coscienti non è ancora la totalità auspicabile, ma la storia mostra all’improvviso i suoi mutamenti, senza profeti. Può efficacemente operare entro il suo corso solo chi è in grado di conoscere le tendenze necessarie dei meccanismi in atto, analizzati nel loro funzionamento, non chi chiacchiera di cambiamento senza qualificarne contenuti, direzione e appellandosi ai soli desideri. Inseguire interessi o “sogni” di un popolo genericamente inteso come massa informe da affabulare serve a inseguire i voti necessari alla democrazia mascherata della governance, ossequiente al principio della libertà del guadagno di cui è schermo. Sebbene ormai nessuno più osi parlare di socialismo e comunismo, sconosciuti ma egualmente criminalizzati in esperienze storiche passate sotto questa denominazione, le articolazioni di questo scritto di storia trascorsa sono testimoni del perdurare di fattori manipolatori solo a caccia di consensi coatti. Non a caso il postmodernismo liberale di ultima generazione ha rispolverato nel culturalismo l’opportunità di nascondere gli antagonismi reali tra le classi facendo cadere l’interesse solo
“sul progresso, la scienza, il bene, la lotta contro la menzogna, l’interesse del popolo, la coscienza popolare, le forze popolari, ecc” [17].
Note
[1] V. Lenin, Opere Scelte, Editori Riuniti, vol. I, pp. 47-221
[2] K. Marx, Il Capitale. Vol. I. Prefazione alla prima edizione tedesca.
[3] Cfr. La Carta del Lavoro, 1927
[4] V. Lenin, Che cosa sono gli “Amici del popolo”… pp.54-55
[5] V. Lenin, ivi, p. 61
[6] V. Lenin, ivi, p. 65
[7] V. Lenin, ivi p. 69
[8] V.Lenin, ivi, p.73
[9] V.Lenin, ivi, p.76
[10] V.Lenin, ivi, p.76-77
[11] V. Lenin, ivi p, 93 (citazione della lettera di Marx a Ruge del 1843).
[12] V. Lenin, ivi, p. 116
[13] V. Lenin, ivi, p. 117
[14] V. Lenin, ivi, p. 119
[15] V. Lenin, ivi, p. 134
[16] V. Lenin, ivi, p. 140
[17] V. Lenin, ivi, p. 178