“L’autunno caldo è un periodo della storia d’Italia segnato da lotte sindacali operaie che si sviluppa a partire dall’autunno del 1969 in Italia, ritenuto il preludio del periodo storico conosciuto come anni di piombo… I sindacati ufficiali furono condizionati dai Comitati unitari di base (CUB), mentre i governi democristiani che si alternarono in quel periodo (Rumor I e Rumor II) non riuscivano a distinguere le richieste ragionevoli da quelle demagogiche, piegandosi a entrambe pur di arrivare a una pacificazione sociale: i CUB esigevano salari uguali per tutti gli operai in base al principio che «tutti gli stomachi sono uguali», senza differenze di merito e di compenso, concependo il profitto come una truffa, la produttività un servaggio e l’efficienza un complotto, sostenendo invece che la negligenza diventava un merito e il sabotaggio era un giusto colpo inferto alla logica capitalistica”. Ecco alcuni stralci dalla pagina italiana di Wikipedia* dedicata all’Autunno caldo. Analisi tratte da libri “astorici” di Montanelli e Cervi ( L’Italia degli anni di piombo, 1991). Una revisione della storia che oggi rischia di diventare dominante.
A partire proprio da questa citazione e dunque da una amara constatazione, martedì 7 giugno 2016, Sergio Bologna ha tenuto alla Casa della Cultura di Milano una bellissima e ricca relazione intitolata “Il lungo autunno: il conflitto sociale degli anni Settanta” – all’interno di un ciclo di incontri curato da Franco Amadori, “L’approdo mancato”. Una lezione durante la quale Bologna ha ricostruito, con grande forza evocativa, le origini dell’Autunno caldo, a partire dalla condizione operaia degli anni Cinquanta, “privata di ogni dignità” (divieto di andare in bagno, perquisizioni all’uscita dalla fabbrica…), alla prima rottura conflittuale segnata dalla vertenza degli operai elettromeccanici di Milano nel 1960, sino alla formazione ed emersione di una soggettività, operaia e umana, irreversibilmente consapevole di sé e della propria forza. Ed è proprio questa irreversibilità, questo, potremmo dire, mutamento culturale e antropologico, che trova la sua prima esplicita manifestazione nell’autunno 1969, a caratterizzare inevitabilmente e positivamente il processo di modernizzazione sociale che porterà l’Italia, alla fine del decennio, a colmare il gap sociale, economico e culturale con gli altri paesi europei. Possiamo aggiungere che la storia e i percorsi di ieri vanno riletti non solo per fare giustizia alla memoria ma anche per imparare a muoversi nell’oggi. Presentiamo dunque, con grande piacere, una sintesi della bella relazione di Sergio Bologna.
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Un amico, docente alla Bocconi e storico dell’impresa di profilo internazionale, mi ha proposto di partecipare a un progetto editoriale di grande interesse riguardante la storia italiana degli anni più recenti. Lavoro come professionista a partita Iva su temi della logistica e dello shipping da una trentina d’anni, mi impegno come attivista di un neo-sindacalismo della middle class, ma ricerche storiche non le faccio più da tempo, limitandomi a seguire quelle di alcune Fondazioni che mi riservano ancora un posticino nei loro comitati scientifici, in Italia e in Germania. Quindi è con un bel po’ d’incoscienza che ho accettato, tanto più che il tema assegnatomi non è dei più semplici: le lotte del lavoro negli anni 70, un argomento che appartiene in parte al mio vissuto e verso il quale provo un qualcosa di confuso che assomiglia a quel che si dice “un obbligo morale”. Dopo un anno che ci sto lavorando, mi sembra di aver messo a fuoco alcuni problemi che incontrano coloro che si trovano ad affrontare un tema del genere. Provo a elencarli.
Diamo per scontato che la memoria di quegli anni è una memoria divisa, ma divisa è dir poco, perché da un lato c’è chi giudica gli anni 70 semplicemente come anni di piombo durante i quali buona parte del popolo italiano, ma soprattutto il popolo laborioso, avrebbe perso la testa, c’è invece chi giudica quel periodo uno dei rari momenti in cui il popolo italiano, ma soprattutto la sua componente operosa, si sarebbe ricordato della frase dantesca “fatti non foste a viver come bruti”. La distanza tra queste due posizioni è incommensurabile, sicché colui che si avvicina a quel periodo dovrebbe a priori, a mio avviso, rinunciare alla pretesa di poter costruire una storia obbiettiva, se non altro perché uno degli argomenti più fecondi di riflessione potrebbe essere proprio “la memoria lacerata”. Si tratta di un caso in cui la ricerca più che sui fatti avvenuti si deve concentrare sul modo come osservarli e analizzarli, sul punto di vista da scegliere, sui pro e i contro di un determinato punto di vista, anche, oserei dire, sulla disposizione d’animo migliore per venirne a capo. Una situazione un po’ simile a quella in cui mi trovai quando, lavorando per la tesi di laurea, dovetti misurarmi con la storiografia sulla Repubblica di Weimar, ipotecata allora – fine Anni 50 – da un giudizio di condanna senza appello di quella esperienza da parte degli storici occidentali e d’imbarazzato silenzio da parte degli storici del blocco sovietico. Sia agli uni che agli altri Weimar appariva una specie di Babilonia anarchica, pessima variante di una democrazia per i primi, malata d’infantilismo estremistico per i secondi. Solo un decennio dopo Weimar sarà considerata un’esperienza avanzata d’innovazione e un esempio limite di democrazia.
La consistente memorialistica sugli anni 70 che negli ultimi due decenni si è andata accumulando e che, quantitativamente, propende dalla parte di chi ricorda quegli anni con orgoglio e con fierezza, ci fa pensare che ad un certo punto si sia manifestata una reazione spontanea alla damnatio memoriae e chi in quegli anni aveva partecipato attivamente alle lotte sindacali o ai movimenti politici di contestazione abbia avuto il bisogno di rivendicare quell’appartenenza. In realtà penso che questo flusso di ricordi, non di rado raccolti in forma audiovisiva, sono una forma di intervento estremo nella morta gora del presente, sono un’accusa lanciata alla moderna società priva di conflitto e di ribellione dei settori più sfavoriti del mercato del lavoro. Sono testimonianze militanti, che gli storici in genere guardano con molta diffidenza.
Se dal livello della testimonianza vogliamo passare a quello della riflessione storica più complessa, il corpus di materiali disponibili più omogeneo è quello che riguarda la storia del sindacato, dove troviamo sia testimonianze di dirigenti e quadri sindacali, sia riflessioni di sociologi e giuristi del lavoro. Il tema di fondo è quello del governo dei movimenti e il tema della democrazia sindacale, il ruolo dei delegati e dei Consigli, il ruolo della contrattazione aziendale, il tema della compatibilità delle piattaforme rivendicative. Aleggia in questa letteratura la domanda: “dove abbiamo sbagliato?” Banale e poco feconda domanda, perché varrebbe assai più la pena chiedersi se in generale un periodo di alta conflittualità sociale possa essere compatibile con lo sviluppo dell’azienda e dell’economia di un Paese. Le riflessioni più equilibrate sulle lotte operaie degli anni 70 sono quelle che sintetizzano quel periodo come l’occasione mancata di istituire delle nuove relazioni industriali e quindi come un fallimento del sindacato, dell’imprenditoria e della politica nel non essere riusciti a trovare un terreno istituzionale di mediazione degli interessi. Ma è concepibile questo in un’economia di mercato? Non dovrebbe un progetto del genere fissare a priori i limiti del profitto oltre che del salario? Non dovrebbe un progetto del genere stabilire a priori i parametri distributivi? Sono domande provocatorie perché la stragrande maggioranza della letteratura su quel periodo che non accetta l’identificazione dei conflitti sociali con il terrorismo è ancorata alla convinzione che l’errore di fondo del sindacato allora sia stato quello di non tener conto del problema delle compatibilità o, in alternativa, di non aver saputo governare il movimento in modo da riportarne le rivendicazioni nell’alveo delle compatibilità, quando gli fu chiaro che doveva cambiare rotta.
Ma lasciamo da parte il problema se questa impostazione poggia o meno su dei presupposti sbagliati, chiediamoci invece se il problema delle compatibilità o della mancata istituzione di nuove relazioni industriali sia così centrale, così importante da azzerare ogni altro angolo visuale. La storia di quel periodo presenta aspetti molto più complessi, tanto complessi da chiederci se l’idea di un “ordinato ed equilibrato sistema di relazioni industriali” fosse un’idea realistica oppure un’ipotesi del tutto astratta, che si può formulare a posteriori semplicemente per necessità euristica. La complessità cui mi riferisco non è data solo dal quadro politico deformato e stravolto dalla strategia della tensione e dalla lotta armata, ma da quel vero e proprio giacimento in parte nascosto che si riferisce alle pratiche autodistruttive del management di tanti complessi industriali. Come mai non vengono messe in conto delle compatibilità impossibili? Anche su questo aspetto cominciamo a disporre di testimonianze per certi versi sconcertanti, sulla scia di quelle riportate nel libro di Garuzzo di dieci anni fa, l’ex numero 3 della Fiat che, tra le cose interessanti che ci racconta (la riorganizzazione della componentistica e dell’Iveco, per esempio) ci rivela anche come i dirigenti Fiat ricevessero parte del loro stipendio in nero. Mi riferisco ad alcune affermazioni di manager o quadri dell’industria i quali, pur considerando la guerriglia di reparto alla stessa tregua del terrorismo, ammettono che troppo spesso la violenza praticata dagli operai verso capi, capetti e impiegati è stata usata come scusante di scelte e comportamenti aziendali dannosi per l’impresa stessa. Scarse invece sono le testimonianze e le ricerche su come la pensavano gli uffici del personale delle aziende. Se del sindacato si sa tutto o quasi tutto, se i verbali dei Consigli di fabbrica sono in parte consultabili per certe grandi imprese, le riflessioni interne alle aziende investite dalle lotte operaie ci restano per lo più ignote e pochi sono i ricercatori che, come Giuseppe Berta ha fatto per la Fiat, sono andati ad interrogare gli ex capi del personale. Infatti non sono tanto le posizioni di Confindustria e dell’Intersind che ci possono illuminare sulla reazione padronale, quanto le carte degli uffici del personale della singola azienda alle prese con la contrattazione articolata e con gli scioperi di reparto. Se vogliamo chiederci davvero perché non si è messo in piedi un sistema nuovo di relazioni industriali non basta limitarsi all’incapacità del sindacato, si dovrebbe tener conto anche di quella dell’imprenditoria. Ma fu incapacità o non piuttosto volontà, esplicita, chiara, determinata? La domanda è: gli imprenditori ed i manager italiani nel loro complesso hanno mai pensato di poter convogliare la spinta conflittuale dei dipendenti in qualcosa di positivo per l’azienda, in termini di innovazione tecnologica o di sistema organizzativo o di gestione delle risorse umane o di diverso rapporto con le rappresentanze dei lavoratori? Oppure non ci hanno manco pensato, limitandosi a contenere alla bell’e meglio quella spinta, firmando degli accordi così tanto per far cessare gli scioperi, consapevoli che l’indomani loro avrebbero fatto di tutto per non rispettare quegli accordi e gli operai si sarebbero dati da fare subito per riaprire un altro fronte vertenziale? Insomma, si tirava a campare giorno per giorno o si era capaci di guardare un po’ più lontano?
E la politica, cosa ha fatto, che atteggiamento ha tenuto? Detto brutalmente, mi sono fatto l’idea – da quel poco che ho potuto vedere – che la Democrazia Cristiana non fosse così preoccupata del disordine in fabbrica, anzi che non avesse proprio interesse affinché venisse ristabilito l’ordine nelle aziende. La situazione d’instabilità sociale che metteva in difficoltà la Confindustria e il Partito Comunista poteva accrescere le sue possibilità di esercitare potere di mediazione, l’indebolimento dei corpi intermedi fa sempre piacere a chi vuol governare senza fastidi. Quanto al Partito Comunista, si era trovato in difficoltà sin dall’inizio – si pensi soltanto a come gli dovevano essere indigesti gli aumenti uguali per tutti – e si sarebbe trovato sempre più in imbarazzo dal 1975/76 in poi sino ad imboccare, con resistenze interne tutto sommato modeste, la lunga marcia della rottamazione della sua storia. Ma questi sono giudizi sommari, voglio tornare ai problemi di approccio al tema che debbo trattare.
Una delle tentazioni che si dovrebbe evitare è quella di considerare il decennio 70-80 come un blocco monolitico, come un unico ciclo indivisibile. Provare a spezzare questo blocco, tentando una diversa periodizzazione, già ci consentirebbe di fare qualche passo avanti. La mia idea è quella di considerare un unico ciclo il periodo ’67-’73 chiamandolo “prologo ed epilogo dell’autunno caldo”, di assumere la crisi petrolifera del dicembre 1973 come spartiacque tra un periodo storico in cui prevalgono le dinamiche interne ai vari Paesi ed un periodo in cui i vincoli esogeni sono determinanti, di assumere il 1977 come l’anno in cui inizia il declino della classe operaia come soggetto sociale e, una volta fissate queste pietre miliari, di cercare di capire come possiamo definire il senso dei due trienni, il ’74,’75,’76 e il ’78,’79,’80. Perché in realtà, una volta stabilita la grande linearità del ciclo ’67-’73 e piantato senza ombra di dubbio il paletto sul limes della crisi petrolifera, gli anni successivi ci appaiono come un groviglio di spinte che si esauriscono e di novità che si sprigionano. Dove però le spinte che si esauriscono lasciano giù un tale sedimento di elementi simbolici e materiali da farle apparire ancora operanti e dotate di forza propulsiva. Non v’è dubbio che dal ’74 in poi il movimento di lotta comincia a mangiarsi la coda, le lacerazioni interne diventano più acute, la grande spinta verso l’unità sindacale prima si affievolisce, poi s’interrompe e alla fine inverte il cammino. Ma al tempo stesso con le 150 ore e con le lotte contro la nocività gli operai sperimentano una nuova fase di crescita culturale e di allargamento conoscitivo che sembra quasi coronare un processo di emancipazione iniziato nel 1960 con la leggendaria lotta degli elettromeccanici milanesi. Alle Meccaniche della Fiat nel ‘74/’75 si realizza una contrattazione sui tempi, gli organici e le cadenze della linea che rappresenta un punto altissimo di conflittualità compatibile (si navighi nel bellissimo sito www.mirafiori-accordielotte.org curato da Cesare Cosi). Dire che si era vicini a costruire un nuovo sistema di relazioni industriali è indubbiamente eccessivo ma affermare che nella chimica con la questione della nocività e nella metalmeccanica con la questione dei ritmi si fosse arrivati a integrare la scienza operaia nella macchina del capitale per ridurre lo sfruttamento, non é fuori luogo. Prevale tuttavia, in maniera che diventerà schiacciante, la tattica del contenimento in attesa del logoramento dell’avversario. Lo strumento formidabile per attuare questa politica è la Cassa Integrazione Guadagni. Più ci penso, più vado avanti, più mi convinco che la CIG è stata un’arma potentissima per smorzare il conflitto, per narcotizzarlo, per emarginare selettivamente le avanguardie. Al tempo stesso è stata un ammortizzatore sociale estremamente generoso che ha impedito processi violenti di pauperizzazione, vista con gli occhi del precariato moderno, è stata una conquista sociale di notevole rilievo. Ma la CIG è anche la dimostrazione inconfutabile della scelta di contenimento/logoramento fatta dal sistema capitalistico italiano. In origine la CIG aveva tutt’altra finalità, quella di dare uno spazio di tregua alle direzioni delle aziende perché avessero il tempo di rimettere a posto la loro casa, magari cambiandone i mobili, più moderni ed efficienti, senza rescissione dei rapporti lavorativi con il personale. Lo stato continuava a percepire i contributi sociali, il lavoratore aveva assicurata la continuità contributiva, l’azienda non perdeva le sue risorse umane. Anche nella più rigorosa rotazione c’era sempre la possibilità di cacciar fuori i più combattivi, aspettando finché sarebbe giunto il momento di poterli lasciar fuori per sempre. Miliardi di ore di CIG senza alterare le statistiche sull’occupazione. Dal 1975 ad oggi la CIG è stata a mio avviso l’ago della bilancia, il punto di equilibrio, delle relazioni industriali in Italia.
Il triennio ’77-’80 è il più difficile da caratterizzare, è veramente il periodo in cui un certo vecchio muore ed un certo nuovo avanza, è l’inizio della linea di faglia tra Novecento e Duemila. Non si può negare che le lotte operaie e quelle sociali in genere avevano raggiunto un livello di ripetitività e di stanchezza tali da definirle come movimenti inerziali, non si può negare che il segreto desiderio che tutto finisse fosse un sentimento diffuso, c’era coazione a ripetere, era quel terribile momento in cui ci si rende conto che il treno sul quale si viaggia va troppo forte per saltar giù e al tempo stesso si è coscienti del fatto che prima o dopo deraglierà. Solo Toni Negri nella sua irriducibile speranza/volontà di rivoluzione può affermare nella sua autobiografia che era un periodo esaltante quello della seconda metà degli Anni 70. Invece ho la sensazione, da quel poco che ho visto e da quel che ricordo, che gli operai avessero coscienza di rotolare il masso di Sisifo, con gli accordi portavano a casa sempre meno, la sensazione di perdere poco alla volta gli alleati che si erano conquistati all’esterno, tra gli insegnanti e gli studenti, tra i magistrati e i medici, era netta, così come la sensazione che la lotta armata avesse preso sul palcoscenico il posto che loro avevano occupato per tanti anni. Gli studenti cominciavano a guardare alla fabbrica, anzi, al lavoro dipendente, come a una galera, non come a un luogo di emancipazione. Il loro desiderio di rottura di ogni sistema disciplinare, di autonomia, non aveva il sorriso dell’ottimismo ma il cupo senso premonitore della disperazione: no future. Sul fronte opposto: non è quello il periodo in cui inizia il declino della grande impresa e l’ascesa della piccolo-media impresa dei distretti? Non è quello il periodo in cui la Comau mette a punto i primi robot della futura fabbrica automatizzata, non è in quel periodo che affondano le radici del moderno complesso di Pomigliano? E in questi due cambiamenti non v’è il segno, l’impronta delle lotte operaie?
Sì, la fine del decennio è la parte più enigmatica e complessa ma proprio per questo attribuire alla marcia dei quarantamila di Torino il significato inequivocabile di suggello di un’epoca o di pietra tombale di un’utopia non mi convince. Non so ancora come potrò esplicitare questo dubbio o superarlo. So che la strada da percorrere è ancora assai lunga perché mi aspettano altre due questioni grosse come due macigni, alle quali posso solo fare cenno qui. La prima riguarda l’attualità o meno del decennio 70-80, ovvero se si possa considerare quel periodo fordista così diverso dal presente da escludere ogni utilità a studiarlo. Oppure se si ritiene che quel periodo possa ancora interrogarci e magari renderci più consapevoli del presente. Qui non ho nessun dubbio a prendere posizione, perché mi rifaccio alla vecchia tesi sulla “storia militante” di ‘Primo Maggio’ per dare una risposta, laddove recita che sono le problematiche del presente a interrogare il passato. Guai a me se tornassi sui miei passi con lo spirito del ’68! Ci torno con lo sguardo del precario di oggi, superstudiato, che sa l’inglese come io non l’ho mai saputo, con un cv lungo come un lenzuolo – eppure socialmente più debole di un bracciante dell’Aspromonte – ci torno con il casual e il computer del nativo digitale non con la tuta da operaio.
L’altra questione riguarda la spontaneità operaia, meglio, la soggettività di un proletariato che in quegli anni ha attraversato una fase di grande emancipazione, tanto da assomigliare a un mutamento antropologico. Un po’ com’è capitato alle donne con il femminismo. Può essere considerata una variabile indipendente, un livello della realtà separato dagli altri, un soggetto storico a tutto campo? Io penso di sì, anzi, penso che da qui si debba cominciare per correggere molte delle interpretazioni correnti. Basterebbe questo per dare senso a una rilettura di quel periodo.
Immagine in apertura: Manifesti del 1969: con l’Autunno caldo la soggettività operaia emerge come antagonista e protagonista anche nell’iconografia.