Gianfranco Pala | Il capitale fisso e l’intelligenza generale della società. Su “general intellect” e dintorni
Gianfranco Pala | Il capitale fisso e l’intelligenza generale della società. Su “general intellect” e dintorni | Materiali preparatori per convegni sull’intelligenza generale della società, Roma 1997
“Le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che l’officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini”, scriveva il maestro di Smith, Adam Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, già nel 1767. E quelle parti “umane” della macchina non contengono più neppure un briciolo di “intelligenza generale” del processo. Tutt’al più conservano, per poco tempo ancora, alcuni segreti e astuzie. La separazione del lavoro dal sapere, anziché essere superata col cosiddetto postfordismo (come alcuni vorrebbero far credere), e tuttavia neppure creata da esso, rimanda alla divisione del lavoro storicamente rilevante nelle società classiste, ai fini dell’affermazione del dominio di una classe (casta, ordine, ecc.), che è quella tra lavoro mentale e lavoro fisico. Con lo sviluppo della grande industria, il lavoro mentale e quello intellettuale (o meramente fisico cerebrale) vengono sottomessi realmente al capitale per la sua autovalorizzazione, nella produzione di plusvalore e poi nella sua circolazione. Non solo, ma i loro stessi risultati, derivanti dalla combinazione del lavoro sociale, sono continuamente incorporati come scienza e tecnica nel corpo materiale delle macchine del capitale.
L’ossificazione della moderna divisione classista del lavoro si ha perciò col passaggio dalla manifattura alla grande industria. Qui viene infatti riprodotta artificialmente la divisione del lavoro, attraverso la divisione delle funzioni ormai incorporate nelle macchine. Dal lato delle condizioni soggettive della produzione, l’intero processo si presenta perciò come scomposizione del lavoro, che era del singolo, ricombinato socialmente nel “lavoratore collettivo”. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero, replicata dalla grande industria, è caratterizzata dal fatto che il lavoratore parziale, col lavoro individuale, non produce più nessuna merce, ma prodotti anch’essi parziali. Solo il prodotto comune del lavoro collettivo dei lavoratori parziali – la cui connessione è mediata dalla vendita di diverse forze-lavoro allo stesso capitalista – si trasforma in merce. La sua compravendita avviene solo all’interno della società. La divisione sociale del lavoro si manifesta come divisione particolare, grazie alla divisione in dettaglio che accompagna quella a tipo manifatturiero (tecnica). A seguire la grande fabbrica fordista, l’organizzazione di tipo toyotista razionalizza e amplifica ulteriormente tali caratteri, in un processo che semplifica e “astrattizza” sempre di più il lavoro di massa, dequalificandolo e potendolo rendere per ciò stesso “multifunzionale”.
Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, prima la manifattura e poi la grande industria lo rivoluzionano da cima a fondo. E le procedure e le tecniche di postfordismo e qualità totale sono tutte assolutamente inscritte nella forma della grande industria. Prendendo così alla radice la forza-lavoro individuale, anche la forza-lavoro combinata del lavoratore collettivo passa, con tutto il suo sapere e le sue conoscenze, sotto il controllo e la proprietà del capitale nella forma di macchina, di automa e di autocrate. Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà che il lavoratore indipendente esercitava e sviluppava, anche se su piccola scala, ormai sono richieste soltanto per il complesso dell’officina, della fabbrica o dell’ufficio. Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che i lavoratori parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro. Marx non poteva essere più chiaro circa le conoscenze sviluppate e assorbite dal capitale e dalle sue macchine, senza bisogno di inventarsi suoi attributi cognitivi o quant’altro. “Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione ai lavoratori, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero, e si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale. L’arricchimento di forza produttiva sociale da parte del lavoratore collettivo, e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive individuali di ciascun lavoratore” [K.Marx, Il Capitale, I.12,5].
Il lavoro si spoglia della sua qualità umana impossessata dal capitale, e poiché l’astrazione ricopre la dialettica che la fonda, la verità della scienza prende l’apparenza paradossale di una negazione della vita stessa. Senza incantarsi sul mito del “general intellect” (letto assai male dai fanatici dei Lineamenti) bastano le precedenti osservazioni di Marx stesso per comprenderne più pienamente il significato in atto di spoliazione dei lavoratori da parte del capitale. Il capitale fisso quale depositario dell’intelligenza generale, quest’ultimo punto d’approdo, è dunque il punto di partenza nuovamente posto nello svolgimento del processo di accumulazione. Cause e conseguenze della seconda grande rivoluzione dell’automazione del controllo, dunque, sono da esaminare nell’àmbito dello svolgimento del processo che conduce storicamente al sapere sociale generale: conoscenza, scienza, coscienza, e loro negazione dialettica, nella forma del capitale. Questa contraddizione specifica cui all’inizio si è fatto cenno, tuttora pienamente operante nelle mutate spoglie del posfordismo, è la contraddizione della scienza, delle molteplici forme del sapere materialmente date in quanto appropriate unilateralmente dal capitale, come apparenza reale e mistificazione storica a un tempo. L’ulteriore sviluppo del lavoro mentale progettuale e creativo separato dalla figura del capitalista, da un lato, di contro alla meccanizzazione anche del lavoro fisico cerebrale ordinativo ed esecutivo, dall’altro, ne costituisce la specifica moderna antinomia.
Il famoso “frammento” dei Lineamenti fondamentali marxiani sulle macchine, appena ora ricordato, in cui trova spazio l’altrettanto famoso e altrettanto citato a sproposito passo sul “general intellect”, merita dunque una ben più seria considerazione: per un verso, conferendogli quello spessore contestuale di prospettiva, che la sua frammentarietà gli ha tolto; per un altro verso, sottraendolo a quella quasi simbolica enfatizzazione, cui è stato costretto da sconsiderate tendenze interpretative alla moda. Si tratta piuttosto di comprendere le modalità in cui avviene l’incorporazione della scienza nel capitale fisso, essendo tale processo assai significativo per la concomitanza della rivoluzione industriale dell’automazione del controllo con le procedure impropriamente dette “postfordiste”.
Non è male rammentare anzitutto una cosa che non è quasi mai stata detta da quanti hanno mitizzato, in adorazione isolata, il “Marx inedito”. Le pagine del cosiddetto “Frammento sulle macchine” costituiscono la seconda parte del capitolo dei manoscritti del 1857-58 dedicati da Marx al capitale fisso (il tema, prima del Capitale, torna anche nei manoscritti del 1862-63). Codesta forma del capitale è indicata come contraddizione specifica del capitale stesso, come la più organica e tuttavia la meno idonea in cui esso possa esistere. Nel momento in cui diventa fisso, infatti, il capitale entra in contraddizione con se stesso: poiché, per essere compiutamente tale, esso deve essere mobile al massimo grado possibile. L’illimitata brama proteiforme del capitale tendente alla sua assoluta mobilità e completa liquidità è invece ostacolata dalla sua crescente fissità. Senonché di tale fissità non può fare a meno. In essa è infatti inscritta la sua capacità di incorporare le forze produttive del lavoro sociale. Le accresce, appropriandosele, attraverso la sottomissione reale del lavoro e la trasformazione del lavoro individuale nella combinazione del lavoro collettivo.
Senza un tal processo il capitale non sopravvivrebbe a se stesso: il capitale è la repulsione reciproca di molti capitali. L’immanente e perenne contraddizione del capitale con se stesso si raffigura qui così, nel rendere sempre più fisso ciò che deve essere sempre più mobile. Ma per muoversi nella sfera della circolazione in espansione, come capitale-merce e come capitale-denaro, con lo smisurato accrescersi del tempo a essa destinato, il capitale si sottrae alla sua esigenza di valorizzazione nel tempo di produzione. Qui sta la ragione dell’appropriazione della scienza da parte del capitale, della spinta che esso dà allo sviluppo di quella, soprattutto nelle forme delle tecniche produttive. L’altro aspetto dell’appropriazione capitalistica della scienza è perciò l’espropriazione di essa ai danni dei produttori immediati, dei lavoratori come classe e come singoli individui. Si compie il passaggio dalla sottomissione del lavoro singolo alla sottomissione reale del lavoro combinato del lavoratore collettivo. Questo passaggio non esprime altro che la forma soggettiva di quella medesima oggettività per cui l’incorporazione della scienza nel capitale fisso si rappresenta materialmente.
La “storia” dell’interpretazione distorta di quel “frammento” marxiano (che frammento non era, per Marx, ma solo per i suoi traduttori e interpreti) è abbastanza istruttiva. Negli anni ‘60 la parola d’ordine andava contro la “neutralità della scienza”, confondendo questa giusta esigenza con la pretesa indistricabilità di macchine e comando, senza esaminarne la contraddittorietà dell’uso capitalistico. Negli anni ‘70, venuto meno l’assalto alla fabbrica e all’organizzazione capitalistica del lavoro del cosiddetto “operaio-massa”, si prospettava l’occasione di torcere la lettura del testo verso i “nuovi soggetti”, con una strana chiave di vòlta contro il lavorismo e il socialismo reale, in preparazione teorica di forza-lavoro-non-più-merce. Con gli anni ‘80, dissoltosi il “nuovosoggettismo” per mancanza di soggetti, gli acrobati dell’ermeneutica marxologica han pensato bene di svoltare sull’interpretazione della sproporzione tra sapere oggettivato e lavoro vivo, non come focolaio di crisi ma come una nuova forma di dominio, da cui perciò, anziché una prospettiva per il comunismo, potessero ricavarsi attrezzi per la sociologia del presente. Infine gli anni ‘90, annunciatori del millennio, dovranno consolidare il delirio del postfordismo come potenzialità della “capacità di godere”, il non-lavoro come fonte “interiorizzata” del valore d’uso della forza-lavoro-mai-più-mercificata, e il mitico “general intellect” non più incorporato nel capitale fisso bensì, in aperta “rottura” con Marx, quale intellettualità di massa per cervelli smaterializzati. Va da sé che, in tutta questa lunga deriva quarantennale, quella che i critici nuovisti chiamano “la cosiddetta legge del valore” è considerata sgretolata e confutata: naturalmente si tratta di un vieto luogo comune. In effetti, lo snodo di tutta la questione della scienza e del capitale, della comunicazione (linguaggio) e della società, ruota proprio intorno alla teoria del valore e del plusvalore. Gettata alle ortiche la teoria fondamentale marxiana, prima per incomprensione poi per convenienza intellettual-politico-salottiera, tutto il resto vien da sé.
La base materiale della sovrastruttura sociale è abbandonata insieme al suo divenire dialettico; l’immanenza delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico è ignorata e con essa la necessarietà sistematica delle crisi; la contraddizione stessa del capitale in processo, tra sua forma oggettiva (forze produttive del lavoro sociale) e sua forma storica alienata e transeunte (rapporti sociali e di produzione), è rimossa se non apertamente osteggiata; del resto, come si potrebbe altrimenti capire e spiegare l’accumulazione di capitale, la crisi da sovraproduzione, lo sviluppo delle forze produttive in antitesi ai rapporti di produzione, il nesso contraddittorio nella forza-lavoro come merce tra lavoro vivo (pagato e, pluslavoro, non pagato) e lavoro morto, rispetto alla forma di capitale fisso di quest’ultimo – come si potrebbe capire e spiegare tutto ciò e altro ancora senza la teoria del valore? Se non si capisce che sono le condizioni poste dal capitale stesso a dare “socialità”, anche al sapere, ecc., ma come forma antitetica e non certo come una qualche prefigurazione del comunismo, non si capiscono neppure quali siano le contraddizioni per lo sviluppo reale dell’intelligenza generale della società, entro e contro il dominio del rapporto di capitale: “entro” e “contro”, non fuori e oltre.
Fin dall’inizio, avverte Marx, i rapporti di produzione, non solo nella loro forma storica sociale ma anche nella loro forma oggettiva materiale, e quindi anche l’insieme delle conoscenze sviluppate da essi e su di essi – il sapere – sono indipendenti dall’individuo, dai lavoratori singolarmente presi. La “socializzazione” posta dal capitale è oggettiva e reale, in quanto lavoro combinato eterodiretto da intelligenza e volontà estranea ai lavoratori; e non ha senso quel che dicono alcuni che non c’è socializzazione sol perché non è “agìta” o “percepita” soggettivamente dai lavoratori medesimi. Quella combinazione del lavoro è infatti esterna a essi, i quali non si comportano come “operatori” della combinazione medesima (per usare ancora le parole precise di Marx). I lavoratori non sanno di essere loro stessi i soggetti dell’elaborazione compiuta per conto del capitale e da esso appropriata. E finché questa consapevolezza – questa coscienza della conoscenza, per così dire – non è pienamente sviluppata, non c’è “intelligenza generale” che possa svilupparsi nel cervello del “capitale fisso umano”. Non serve a niente proclamare simili clausole di sospirata autoemancipazione consolatoria.
Per questi semplici motivi, sommariamente rammentati, una volta collocato nella giusta ottica, lo stesso “Frammento”, con tanto di “general intellect”, può e deve essere letto in modo affatto diverso da come generalmente fatto. La parodia della lettura “operaistica”, generazione dopo generazione, degenerazione dopo degenerazione, scivolando fino nel mito del cosiddetto postindustriale (postfordismo e quant’altro) ha portato a insistere su considerazioni del tipo seguente, qui testualmente riferite, traendole da un coacervo di “autorevoli” fonti (di cui è irrilevante nominare i singoli “autori”, risparmiando così, oltre che le virgolette delle citazioni, il riferimento al futile narcisismo degli autori e all’inutile polemica con loro):
i) sarebbe finita la fase basata sull’industria e la produzione di beni durevoli e dunque [sic!] sulla produzione di merci, confondendo dapprima la produzione capitalistica con quella di merci; poi quest’ultima con la produzione di beni durevoli, tangibile fisicamente, dell’industria; quindi la base materiale con la forma sociale della produzione capitalistica di valore; per cui il supposto superamento dell’industria implicherebbe anche quello del capitale e della stessa merce!?
ii) il superamento dell’industria è riduttivamente identificato con l’esaurimento della sua forma “fordista”; ciò implicherebbe la fine del cosiddetto operaio-massa, la cui scomparsa prematura è altrettanto arbitraria della sua improvvisa invenzione: una categoria di comodo inventata dal nulla per spezzettare “operaisticamente” l’intera classe lavoratrice; non bastando, evidentemente, la giusta classificazione marxiana tra lavoro in generale (arbeit) e lavoro salariato (lohnarbeit), si è dapprima colpevolizzato moralisticamente il proletariato improduttivo; poi si sono frammentati ulteriormente i lavoratori produttivi, selezionando gli “operai” (abusando, con speciosità italica, di un termine generico riferibile all’operare) e tra questi il mitico “operaio-massa” (poi quello “diffuso”, e via sociologizzando in subconscio antimaterialistico);
iii) sarebbe cominciata la fase dell’economia tendenzialmente “smaterializzata”, volendo intendere che tanto la ricchezza prodotta, quanto le modalità per produrla, si fonderebbero sulla prevalenza [sic!] di processi cosiddetti simbolico-comunicativi, di attribuzione e di produzione di senso; anche le classi dominanti non sarebbero all’altezza teorica e pratica per affrontare un tale arduo tema della società detta postindustriale, fulcro del “nuovo” lavoro per bisogni sociali e ambientali; sicché, con una tipica acrobatica inversione di causa ed effetto, e con buona pace per i tentativi di Marx di affidare un significato compiuto alle parole, si proclama che la sovrastruttura ideologica farebbe parte della struttura della produzione della ricchezza sociale, dichiarando che il fine dell’accumulazione capitalistica sarebbe diventata la produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza, dove i processi di valorizzazione e di accumulazione del capitale si attuerebbero in forma [sic] di valorizzazione e di accumulazione del sapere e della conoscenza;
iv) la produzione di questa forma di capitale, che raccoglierebbe in sé le conoscenze (come se un’altra forma non le contenesse!) si compirebbe sulla base dell’interiorizzazione dei meccanismi della valorizzazione, negli àmbiti psichici e cognitivi dei soggetti; benché ciò avrebbe carattere praticamente costrittivo, interiorizzato attraverso dissociazioni dell’attività psichica e mentale, si dice, il singolo soggetto, divenuto cosciente di queste dinamiche psichiche e cognitive, sarebbe capace di rovesciare, fin dall’interno di se stesso [sic!], lo sfruttamento cui è sottoposto;
v) dunque, oggi più che il lavoro sarebbe il sapere a essere diventato la principale forza produttiva; con il che si avvalora l’ideologizzazione teorica borghese del cosiddetto “capitale umano”, in antitesi alla compravendita della forza-lavoro come merce: volendo travisare Marx in tutti i modi, è ovvio che si predichi la necessità del superamento dell’ideologia [sic] del lavoro-merce, ignorando anche la peculiare identità marxiana della forma di merce della forza-lavoro, facendone sparire la stessa duplicità contraddittoria; lo scambio contro capitale sarebbe sostituito semplicemente e direttamente da un rapporto di prestazione, un contratto d’obbligo stabilito su basi istituzionali, sì da poter abolire il contratto di lavoro salariato;
vi) la classe salariata sarebbe incapace a essere soggetto storico della trasformazione sociale del modo di produzione (“intermodale”, dicono): tanto da far decadere di fatto il concetto stesso di classe e di lotta di classe; giacché non si comprende affatto la precisa indicazione dialettica marxiana, secondo cui ogni processo di trasformazione rivoluzionaria supera negandoli entrambi i termini che agiscono in tale processo: sicché, se si conoscesse Marx, si saprebbe che proprio la classe rivoluzionaria, in quanto tale e in questa sua funzione storica, nega se stessa come classe; d’altro lato, ciò fa il paio con un’altra interpretazione adialettica incapace di cogliere l’antinomia, potenzialmente antagonista critica e trasformatrice, del lavoro mentale posto nella determinatezza salariale e viceversa; tale interpretazione preferisce adagiarsi sulle teorie del “management”, in chiave di abbandono della preminenza dei rapporti di proprietà, e di privilegiamento del ruolo lavorativo del capitale stesso, appiattendosi sul sociologismo industrialistico parsonsiano, sradicando quell’immanente contraddittorietà del modo di produzione capitalistico che sta proprio nel doppiosenso del lavoro mentale.
La falsa lettura tardo-operaista e husserlgrundrissista del “frammento” e del “general intellect” – con tutti i corollari più o meno espressamente voluti, qui appena accennati – è dunque condotta senza neppure conoscere le categorie marxiane di forze produttive, capitale fisso, lavoro vivo, ecc.: in una frase, rigettando i fondamenti della teoria del valore e del plusvalore. E ciò vien fatto esplicitamente, per fortuna senza infingimenti. La teoria del valore è fraintesa e accantonata indistintamente da tutti i sedicenti neopostmarxisti. Il tempo di lavoro, dicono, “non è più la base per la misura del valore”. C’è chi lo dice perché considera ormai praticamente scomparso il lavoro vivo; chi perché torna a pensare direttamente in termini di valore d’uso immediato, anziché di valore; chi perché mischia sistemicamente e “sintomalmente” struttura e sovrastruttura, produzione e circolazione, forze produttive e rapporti di produzione, smarrendone l’unità dialettica in una piatta identità non contraddittoria; chi perché, in nome di una tal moderna “complessità”, vagheggia di una presunta indeterminabilità di valore, e giunge a considerare il capovolgimento contabile di grandezze di valore e tasso di sfruttamento “negativi”. Tutti quanti, indistintamente, riducono postricardianamante la “teoria del valore-lavoro” (questo pernicioso pleonasmo di “-lavoro” inutilmente appiccicato) a una mera teoria contabile della misura, della grandezza di valore. Sicché se ne possano disfare, liberando la loro falsa coscienza, senza remore, in una assoluta incomprensione e ignoranza dell’intera teoria marxiana e marxista. Da lì, teoria del denaro e dei prezzi, dell’accumulazione e della crisi, della circolazione e della caduta tendenziale del tasso di profitto, ecc., sono bruciate.
Non merita neppure spendere troppe altre parole per replicare a simili luoghi comuni. Essi, una volta posti nel corretto contesto teorico e individuati nella loro genesi, come qui fatto, si rispondono da sé. I caratteri della realtà virtuale e dell’immaterialità restano misteriosi. Ma se la produzione immateriale è quella dell’informazione e dell’intangibilità, con i suoi lavori impalpabili, basterebbe che tanti “nuovi” pensatori riflettessero su quali e quante erano le attività “immateriali” corrispondenti nel secolo scorso: decine di dattilografe per un’operatrice al terminale, di contabili per un “softwarista”, di disegnatori per un addetto “cad”, di insegnanti per classi meno affollate; o, se si vuole scherzare con la burocrazia italica, quanti “camminatori” ministeriali occorrevano per portar messaggi al posto di fax, posta elettronica o internet? Verosimilmente, la percentuale delle attività immateriali è diminuita nel mondo, non aumentata. Ma in attesa che qualcuno sveli codesti misteri, ci si contenti di una “banale” asserzione di Marx: “La ricchezza, considerata dal punto di vista materiale, consiste soltanto in una varietà di bisogni”. Lo sviluppo della ricchezza sociale pone questi bisogni storicamente come necessari, ed è la produzione materiale, appunto, a soddisfarli, non la … “produzione di senso”.
Meglio è tornare ai contenuti reali del tema in discussione, proprio prendendo le mosse dalla questione del lavoro mentale. Certo, nella misura in cui il lavoro mentale rimane monopolio della classe dominante, la coscienza emancipata rimane espressione della conservazione e riproduzione dei rapporti sociali di proprietà e di dominio esistenti. Nella costituzione del capitale, il lavoro alienato è normalmente quello fisico. Così, quest’ultimo urta contro quello che di fronte a esso è di fatto un monopolio, e sicuramente un’egemonia pressoché assoluta. Perciò, di norma non riesce, in quanto tale, a fuoriuscire dai limiti della coscienza immediata. Se la delega del lavoro mentale, ideativo (progettuale e strategico), che la proprietà capitalistica ha dato ai propri “intellettuali organici”, è stata finora storicamente irrilevante, seppur quantitativamente crescente, è per evitare di rompere praticamente quel monopolio. Sicché quei particolari “intellettuali” continuano ancora ad apparire come agenti della borghesia, sia pure elementi subalterni di quella stessa classe, e prevalentemente non ancora assimilati alla componente cerebrale del lavoro fisico salariato.
L’intelligenza generale non è una prerogativa particolare che possa appartenere, frazionata, a singoli individui. Tanto meno essa attiene a presunte dinamiche cognitive, psichiche e comportamentali, ricomponibili all’interno di ciascun lavoratore. Nella sua universalità, quel sapere generale sociale è, sì, rappresentato dal lavoro collettivo. Ma appunto tale lavoro è ormai organo delle macchine, di una scienza espressa dalla muta intelligenza del capitale. Ogni lavoro fisico è esecutivo e applicativo. Esso stesso è comprensivo anche di mansioni “intellettuali”, nell’àmbito della fissità sociale della divisione del lavoro di tipo manifatturiero, determinata su basi tecniche. La funzione meramente cerebrale preposta al controllo è caratterizzata unicamente da puro calcolo logico e memoria. Essa stessa è dunque forma di esistenza del lavoro fisico, in quanto forza-lavoro alienata. Tutto questo lavoro fisico, manuale e intellettuale (in quanto cerebrale), è sussunto all’intelligenza generale del capitale e demandato alle classi subalterne. Nella determinazione di modo di produzione, pertanto, risulta categoria fondamentale la divisione sociale del lavoro. L’attività mentale, creativa e progettuale, in ogni epoca rimane prerogativa delle classi dominanti.
In questa determinazione sociale il dominio si presenta come appropriazione della volontà altrui. Il capitale, nella sua fissità di macchina e automa, incorpora la scienza e rappresenta l’intelligenza generale della società. Così assume la capacità di subordinare a sé il lavoro umano alienato, costringendolo al pluslavoro capace di produrre plusvalore (sfruttamento), per il tramite dell’espropriazione del sapere delle classi lavoratrici. Di contro al lavoro fisico, di ogni tipo, connesso alla mancanza di proprietà, dunque alla necessità della sua alienazione al capitale, si erge il lavoro mentale connesso alla proprietà delle condizioni, generali e particolari, della produzione. Se quest’ultima condizione è base della coscienza emancipata, la prima rimane capace solo di coscienza immediata della prassi quotidiana. Da parte degli apologeti di un general intellect, presuntivamente distaccatosi e contrapposto al dominio del capitale, rimane da spiegare il percorso da seguire per operare un tale distacco e una contrapposizione capace di emancipazione. E ciò sarebbe tanto più interessante, in quanto tali interpreti affidano le loro ipotesi all’idea che ciascun lavoratore possa riappropriarsi del sapere sociale all’interno di se stesso, nel proprio cervello mutato in “capitale fisso”!
Ma la rivoluzione dell’automazione del controllo, che accompagna il cosiddetto postfordismo, lungi dal restituire “intelligenza” (neppure particolare) al lavoro, tende ad accentuare sempre più la separazione, effettiva e generalizzata, del lavoro dalla scienza. Al contempo, essa accresce e specifica ulteriormente la separazione del sapere produttivo anche dalla proprietà immediata. Con delega della proprietà medesima, il lavoro tecnico e dirigenziale viene duplicato, per così dire quasi “gemmato”, come porzione “intellettuale” e mentale. Il rapporto di capitale, in quanto tale, e particolarmente nella sua forma specifica, pone in misura sempre crescente la scissione del proprio operare dalla sua stessa personificazione, la separazione da sé del sapere da esso appropriato e incorporato. L’automazione del controllo del sistema informatico di macchine è in grado di mettere in moto quel processo di separazione del lavoro universale dalla proprietà del sistema medesimo, seppure in forma antitetica.
Si instaura un circolo vizioso che tende a infrangere il monopolio pratico della classe dominante. Il lavoro sottomesso al capitale e alla sua muta intelligenza generale erompe in un doppiosenso reciproco del distinto operare del lavoro mentale nelle due forme: esecutiva e creativa, sottomessa e cosciente. Tuttavia, proprio codesto doppiosenso insito nel processo lavorativo alienato richiede un lungo svolgimento di trasmutazione della prassi e della coscienza di coloro che effettualmente operano. Quanti ritengano di trovare una facile scorciatoia postoperaista per restituire ai singoli soggetti un sapere sociale, virtuale e immateriale, in cervelli svuotati dal capitale, sbagliano analisi e seminano illusioni. Costoro confondono la storia e i suoi lunghi e tortuosi processi con rapidi e suadenti corsi aziendali a immersione totale.
Senonché, ancora insufficiente appare oggi la trasformazione delle condizioni oggettive del lavoro sociale e del modo di produzione che corrisponde loro: sì che l’intelligenza generale della società sfugge alla consapevolezza delle masse che lavorano. La coscienza emancipata ha potuto oggettivamente esprimersi assai limitatamente, non sapendosi neppure essa mediarsi in senso critico verso le condizioni di vita esistenti e l’ideologia dominante. Il lavoro mentale postosi in antagonismo alla borghesia è ancora relativamente irrilevante. Del resto, la coscienza immediata degli strati superiori del proletariato ha fin qui mostrato l’insufficienza della propria autoemancipazione critica. Ciò ha rabbassato a mera forma ideologica la prassi antagonistica, e a falsa coscienza carismatica, volontaristica e fideistica, l’opposizione politica.
Anche e soprattutto oggi, è bene non cedere a facili suggestioni. Pretendere di “abolire” (quasi per editto) la divisione del lavoro, fisico e mentale, o credere che il presunto sviluppo autoreferenziale del “general intellect” si sia già sbarazzato di quella stessa divisione del lavoro, per la supposta prematura scomparsa del primo termine, è un futile vizio utopistico e infantile di vecchia data. Che vi sia la necessità storica di porre la mente stessa nella fisicità umana cui appartiene e da cui è inseparabile – e ne è scissa solo per la violenza di classe – è un fatto epocale che è impossibile raggiungere attraverso una loro ricongiunzione forzosa, accelerata: i tempi storici per l’elaborazione di una cultura che sappia andare oltre l’erudizione, la professionalità tecnica, o l’autoesaltazione delle differenze, di un gusto estetico che ignori le mode e il sincretismo, ecc., non sopportano corsi rapidi a full immersion o altre consimili amenità.
Ritenere, e predicare incoscientemente, che si sia già raggiunto il punto in cui il lavoro nella sua forma generale – in quanto presunto depositario nella sua “virtualità” e “immaterialità” dell’intero sapere sociale, produttivo e non, supposto quindi quale detentore di un indefinito “capitale fisso” altrettanto virtuale e immateriale nel proprio cervello – possa sottrarsi al dominio del capitale, può sembrare gratificante ma è solo autoconsolatorio (e politicamente assai grave dal punto di vista del comunismo). Non basta “dichiarare solennemente” che il capitalismo non c’è più affinché esso sparisca veramente. Né serve un’ermeneusi più sofisticata per cercare di mostrare come il capitalismo “postfordista” si stia trasformando, hic et nunc, nel sedicente “comunismo” in fieri dell’intelletto di massa. Cosicché si possa addossare a Marx l’“errore” di aver ritenuto (ciò che invece è esatto) che quell’intelligenza generale è necessariamente incorporata nella duplice forma del capitale fisso e delle macchine da esso oggettivamente prodotte e soggettivamente appropriate – una forma antitetica dell’unità sociale, appunto, di cui quei critici ignorano il divenire dialettico – anziché di aver volato con la fantasia, appunto, fuori dalla materialità delle macchine verso quel “cyberspazio” in cui l’intelligenza della società e il processo produttivo stesso sarebbero ormai direttamente ed esclusivamente depositati nei cervelli dei soggetti viventi. … Ma certo non in quelli di questi critici oltremarxisti! – i quali arrivano a sostenere seriosamente, in assoluta coerenza con le loro derive oniriche, che “se” la produzione non riguarda più fatti materiali, economici e tecnologici, ma ha invece per “materia prima” il sapere e la comunicazione linguistica, allora c’è da credere che alla sua comprensione contribuiscano nel modo più diretto l’epistemologia e la filosofia del linguaggio.
La considerazione analitica (riflessione e discussione) di ciò che significa e implica oggi l’intelligenza generale della società, nelle sue metamorfosi e manifestazioni contraddittorie, comincia proprio da qui: e non è certo assecondando le tesi del “postfordismo”, sia pure in chiave polemica, che si dà risposta ai quesiti della contemporaneità capitalistica. Qui, viceversa, si è posta solo una premessa seguendo un iter di questo genere: sussistenza, lavoro e sua divisione, merce, denaro, capitale e capovolgimento in esso dello sviluppo universale come forma antitetica dell’unità sociale, fino al capitale fisso quale depositario dell’intelligenza generale. Quest’ultimo punto sta nello svolgimento del processo che conduce al sapere sociale generale, dove sono da esaminare cause e conseguenze della seconda grande rivoluzione dell’automazione del controllo, con l’ulteriore sviluppo del lavoro mentale progettuale e creativo separato dalla figura del capitalista, da un lato, di contro alla meccanizzazione anche del lavoro fisico cerebrale ordinativo ed esecutivo, dall’altro: una moderna antinomia “servo-padrone” può esperirsi a partire da queste basi.
Alla medesima falsificazione ideologica – seppure a un livello un po’ più raffinato di teorismo, riprodotto nel brodo di coltura della qualità totale – vanno ascritte le molte chiacchiere recentemente fatte intorno al presunto recupero di “proprietà personale” del sapere lavorativo da parte dei lavoratori stessi. A partire dall’equivoco che pretenderebbe di concepire i nuovi processi di lavoro come espressione di una maggiore qualificazione del cosiddetto operatore o conduttore di sistema – tali che si incentrerebbero sull’aumento di applicazione dell’“intelligenza” del lavoratore – si può riscontrare una sequela di formulazioni pseudo-teoriche affatto prive di fondamento. In una stravagante accezione interpretativa post-operaista della tendenza, descritta da Marx, relativa allo sviluppo storico contraddittorio dell’intelletto generale della società, si presume che – immediatamente, senza cioè alcuna mediazione della contraddizione medesima – l’erede moderno dell’operaio sarebbe già, qui e ora, più cervello che mano, conferendo al soggetto una sorta di pervasività totale.
L’equivoco del passaggio dalla fabbrica fordista alla “fabbrica integrata” fa perdere di vista la conservazione dialettica del lavoro di massa dequalificato e ripetitivo anche nella riorganizzazione “alla giapponese” della produzione, preferendo vaneggiare su: intellettualità di massa; cervello come forza produttiva immediata di proprietà del lavoratore (al di là di ciò che è sempre stato, e quindi ancora è, in quanto forza-lavoro, unica proprietà alienabile dei proletari); conseguente falsificazione del rapporto di lavoro dipendente come prestazione professionale autonoma che ciascun lavoratore, in lotta con le sue competenze professionali, “vende” quotidianamente al proprio dirigente; capitalismo lavorativo, e quant’altro. Corollario di tutto ciò è l’assurda concezione di un sindacato non conflittuale che sarebbe capace di vendere il “sapere operaio”, in una forma di contratto sociale rappresentato come “democrazia economica e industriale”, che trasformerebbe il contesto produttivo in una “quasi-comunità”. Tutto ciò si chiama semplicemente neocorporativismo, senza scivolare sulla mitizzazione di un falso modello di “nuova” relazionalità sociale. Confondendo le forme di controllo del processo lavorativo nel fordismo e nel toyotismo, senza esaminare convenientemente la questione del consenso che era anche tra gli elementi che favorirono la nascita del taylorismo, non si spiega l’adeguamento del comando sul lavoro: senza altri equivoci, con flessibilità, intensificazione, precarietà e licenziamenti, nei termini dell’automazione del controllo nella seconda grande rivoluzione industriale, che è la sola realtà storica sociale che il supponente postfordismo consegna alla storia della modernità.
Questo è il significato universale del postfordismo e della qualità totale. La lotta, finora, procede a senso unico nel dispotismo assoluto del capitale sull’organizzazione del processo sociale di produzione e di lavoro. La pacifica collaborazione nazionalcorporativa, che appare alla superficie, è ovunque il risultato di una fase terribile di lotta di classe stravinta dalla borghesia. Il nodo neocorporativo da sciogliere è proprio l’omologazione crescente di tutti i contratti di lavoro, al di là di settore o comparto, di livello tecnologico e automazione, che, al riparo degli accordi ipocritamente riferiti al costo del lavoro, sta diffondendo la nuova organizzazione del lavoro “alla giapponese”. Unica constatazione oggettiva, per ora, è che l’intero sistema – oltre che causa di conflitti tra capitali, per la crisi – è intrinsecamente fragile, proprio per la flessibilità imposta al lavoro con l’alibi di una millantata garanzia data da macchine vulnerabili. Dietro il volto accattivante della “qualità totale” – capace di estorcere masse crescenti di pluslavoro non pagato, appunto, nella quantità totale di plusvalore che rimpiazza la falsa “qualità” – sta in agguato quella contraddizione che è possibile svelare.
La classe operaia, per ora, è come un trucco: c’è ma non si vede! Se l’antica divaricazione tra socialismo o barbarie si ripresenta alla nostra preoccupazione, si può solo constatare che la barbarie è a buon punto! E il socialismo?
Il falso nome di “postfordismo”
Col nome di “postfordismo” (e con esso post-keynesismo, post-taylorismo e post-industrialismo, ovvero fine e superamento dell’era industriale del fordismo-taylorismo-keynesismo) si è andato perciò consolidando quel peculiare processo, connesso al mito della cosiddetta “globalizzazione”, che fa leva sul carattere passepartout della cosiddetta “flessibilità” (tanto da far rappresentare il tutto come fase della “globalizzazione flessibile”, il che non vuol dire doppiamente nulla). In effetti, è significativo invece considerare la ristrutturazione dei cicli produttivi nella concatenazione transnazionale dell’imperialismo contemporaneo, giacché il semplice porre correttamente la connessione tra i temi in questione mette in evidenza, confermandole, le circostanze fin qui illustrate, ossia come il cosiddetto “postfordismo” che pervade la “globalizzazione” non abbia cause meramente tecniche organizzative. Le nuove macchine e procedure, che necessariamente accompagnano la ristrutturazione dei cicli produttivi, non sono altro che le forme adeguate per configurare una nuova divisione internazionale del lavoro in risposta alla crisi del mercato mondiale.
Si capisce allora come gli apologeti, ancorché a volte ideologicamente critici, della supposta fine del taylorfordkeynesismo accentuino il ruolo affidato al nuovo macchinismo, alla produzione definita immateriale, all’ipotesi di un improbabile ridimensionamento della scala di produzione, al consumo presuntivamente anteposto alla produzione stessa (vecchia è la favola marginalistica della “sovranità del consumatore”!), e al lavoro ritenuto intangibile e autoreferente, sottratto (o sottraibile) alla forma salariale. Tutto, infatti, da costoro viene fatto discendere dal processo di informatizzazione e robotizzazione: non a caso da essi considerata “terza” rivoluzione industriale, avendo essi stessi (con la maggioranza dell’idealismo dominante) chiamato “seconda” la fase del taylorismo alla luce dell’epifenomeno fordista.
Per provare a puntualizzare la critica dell’ideologia del postfordismo, può aiutare indirettamente ancora una volta un’osservazione assai generale di Georg Wilhelm Friedrich Hegel: “Il capriccio del pensare fa piuttosto il contrario di quel che vorrebbe fare; porta in mezzo, cioè, quel che ha da venir poi, vale a dire altre categorie che non soltanto il principio. Bisogna tuttavia saper distinguere quel più lento effetto che, un po’ alla volta, rettifica l’attenzione cattivata da asserzioni roboanti: dopo il plauso dell’attimo fuggente, non avranno posterità alcuna”. Le recenti mode del post-qualcosa hanno così il ben servito. Se chi segua simili mode voglia dire che alcunché cui si sia prefisso un “post” vien dopo di ciò che è rappresentato dal termine usato come suffisso, avrà accolto l’ovvietà in casa propria. Dalla banale ovvietà precipitano nell’errore e nella menzogna, sicché con quella parolina “post” costoro saranno ignorati dai post/eri. Di contro alla grandezza culturale di ciò che la storia degli ultimi due secoli ha tramandato sotto il nome di modernità, son dunque stati mobilitati gli “architetti” dell’indifferenza per dar corpo al nuovo mostruoso oggetto: e lo chiamarono “post-moderno”. Dal postmoderno al postcapitalismo, passando per il postindustriale e il postfordismo, si approda all’indifferente e agnostico pluralismo che conduce al sincretismo eclettico. Caratteristica di ogni “post” pensiero è dunque l’abilità casuale ed eclettica di classificare descrittivamente, senza gerarchia e rango, i fatti e luoghi comuni di maggior evidenza. Mancando qualsiasi spiegazione, genetica e causale, essa è per ciò stesso ingannatrice, in quanto capace di mutuare pure “forme” e “nomi” da qualsiasi altro sistema, al quale sia così tolta preventivamente ogni sua propria coerenza, sia interna sia relativa al mondo reale rappresentato. Al sapere scientifico in genere, e dunque anche al marxismo nel campo sociale, è toccata la sventura di questa sorte, pericolosamente manipolato da chi ne imita alcuni detti nella loro totale ignoranza.
L’ideologia del post-moderno rientra dunque a tutti gli effetti nel quadro di una operazione di “polizia del pensiero”, tanto più efficace quanto più essa ha trovato la collaborazione degli intellettuali dell’“asinistra” che, in nome dell’inesistente pluralismo, hanno provocato i maggiori guasti di codesta dominanza ideologica, approdando anche al post-comunismo come segno diabolico del post-marxismo. Il cosiddetto postfordismo, in quanto ultima veste del postindustriale, è sovente associato – soprattutto da parte dei citati intellettuali progressisti dell’“asinistra”, “ammessi” dall’ideologia borghese – al post-keynesismo nella politica economica statuale. E ciò per la banale conseguenza di aver prima forzatamente posto, nel secondo dopoguerra, il parallelo tra fordismo e keynesismo, come mera descrizione fattuale di momenti obiettivamente coincidenti e sovrapposti del ciclo di accumulazione del capitale nella sua fase ascendente. A séguito di codesta forzatura – affatto immotivata quanto a determinazioni concettuali e storicamente incurante delle vicende e delle vicissitudini del taylorismo nell’epoca della prima guerra mondiale, del fordismo negli anni venti e del keynesismo negli anni trenta – è ovvio che con l’attuale ultima crisi, a partire dalla metà degli anni sessanta, rimangano perciò legati nella medesima sciagurata sorte entrambi i cosiddetti “paradigmi”: ecco dunque donde viene la supposta “fine del ciclo keynesiano-fordista”, e la simbiosi postfordista-postkeynesiana che ne segue. Dal cappello esce sempre e solo il coniglio che ci si è messo!
Occorre dunque considerare criticamente le presunte caratteristiche “nuove” del postfordismo. Per fondare seriamente la critica è bene prendere le mosse dall’invarianza della forma sociale del comando sul lavoro in vigenza del modo di produzione capitalistico, nella sua prevalenza sulla forma materiale dei rapporti di produzione. Si rammenti, anzitutto, che alla base di ogni organizzazione specificamente capitalistica del lavoro rimangono ben saldi i tre principî fondamentali indicati da Adam Smith: i. destrezza dovuta alla ripetitività semplificata delle operazioni di lavoro; ii. intensificazione resa possibile per la precedente disponibilità di lavoro semplice ripetitivo; iii. produttività aumentata in conseguenza delle innovazioni delle macchine (attribuibile al rapporto di lavoro mutato nelle due forme precedenti). Taylor non ha fatto altro che razionalizzare statisticamente ciò che Ure aveva studiato per la grande fabbrica, sulla primitiva traccia indicata da Smith. Marx aveva semplicemente inquadrato tutto ciò con il concetto di “rendere liquida” la maggior mole possibile di lavoro altrui, per usare al meglio la forza-lavoro acquistata, aumentandone al massimo grado la tensione onde ottenerne la massima quantità di pluslavoro altrui non pagato. Come si è già rammentato, Ohno non ha fatto altro, a suo stesso dire, che portare il taylorismo alle estreme conseguenze, rendendo più scorrevole il flusso produttivo fordista, dentro la fabbrica e fuori di essa, nel ciclo di subforniture e nella circolazione commerciale. La sua esigenza partiva, ancora e sempre, non diversamente da quella dell’ormai mitico fabbricante di spilli smithiano, dalla ricerca di eliminare tutti gli sprechi, spremendo al massimo il lavoro, generalizzando il cottimo nella forma coercitiva consensuale neocorporativa, sempre con l’obiettivo di minimizzare i costi di produzione.
Il toyotismo è perciò fordismo totale, un suo superamento dialettico. Laddove il fordismo è parziale, limitatamente alla “catena di montaggio” (concettualmente intesa, quindi pure, a es., per il lavoro d’ufficio), il toyotismo è esteso al di là della “catena di montaggio”. Ma è ovvio, innanzitutto, che quanto più ci si allontani dal “segreto laboratorio della fattura del plusvalore”, tanto più si imponga la regolarità dei flussi dell’intero ciclo produttivo. Anche se l’andamento della produzione stessa ha una “crescita lenta”, come avverte Ohno stesso, esso deve essere continuo. Altrimenti i rischi di interruzione del ciclo di metamorfosi del capitale aumentano, anziché diminuire, come le ultime vicissitudini dell’industria giapponese stessa stanno ampiamente a dimostrare. Pertanto, di fronte al procedere “anarchico” del modo di produzione capitalistico, il toyotismo non è affatto risolutivo: i problemi rimangono i medesimi di prima, peraltro aumentando enormemente il grado di vulnerabilità del sistema (come le vicissitudini giapponesi degli ultimi anni stanno a dimostrare). Il nodo non è tecnico ma sociale, di classe. La reale portata della seconda grande rivoluzione industriale dell’automazione del controllo non può certo essere costretta nella pelle aderente del toyotismo e tanto meno in quella del postfordismo. La reale automazione del controllo è appena iniziata, e tuttora ha uno scarso peso sulle diverse fasi del ciclo produttivo (la cosiddetta informatizzazione riguarda al massimo il 10% dell’intera produzione industriale mondiale). Del resto, non si dimentichi come fosse limitata (e lo sia ancora) l’incidenza specifica della catena di montaggio anche nel tradizionale fordismo, decisamente minoritaria anche nelle sole fasi operative direttamente produttive di un ciclo industriale moderno. Ciò che prevale, nell’un caso e nell’altro, è perciò il carattere complessivo del processo nelle sue forme di dominanza.
Racchiudendo oggi quegli antichi princìpî smithiani, ripresi dal toyotismo, nell’unica categoria di flessibilità – di lavoro, salario e macchine – si riesce forse a inquadrare meglio la faccenda, per criticare l’ideologia del postfordismo. Quest’ultima pretenderebbe di ravvisare alcune caratteristiche tecniche lavorative – elencate senza criterio, com’è tipico del postmoderno – nella multifunzionalità del lavoro, nella presunta smaterializzazione del processo di produzione, nella continuità del ciclo di produzione e nella sua estensione al flusso esterno, nella conseguente sincronizzazione dei microcicli di lavorazione, nel controllo di processo, nella relativa autonomia decisionale dei “conduttori di sistema” (gli operai di una volta!), in un conseguente rapporto non conflittuale della forza-lavoro, entro una ritrovata “comunità di fabbrica” (a proposito: non è male ricordare Adriano Olivetti, dal corporativismo di Bottai al comunitarismo di Ivrea). Inoltre, proseguono i fautori della tesi del postfordismo, la prevalenza della qualità sulla quantità, a causa della crescita lenta, col superamento della produzione standardizzata tipica del fordismo, caratterizzerebbe il sistema come “tirato” dal mercato, anziché “spinto” dalla produzione: ma sulla presunta sovranità del consumo, e delle “tecniche” a esso connesse, si è già fatto il fugace cenno che tale sciocchezza merita.
L’eventuale giustezza di alcune singole osservazioni qui descritte fa parte di una “astuzia” dell’agnosticismo postmoderno, che, ignorando l’intero quadro, sciorina le presunte “novità” postfordiste soltanto come novità empiriche derivanti dal mero mutamento delle circostanze nel fluire del tempo, ma nient’affatto categoriali. Senonché, nel quadro generale della nuova organizzazione del lavoro, non si dànno novità nella sottomissione reale del lavoro al capitale (su cui si tornerà in conclusione) a dispetto della pretesa decisionalità e ritrovata individualità del “lavoratore postfordista”; già alcuni sono arrivati a riconoscere che nell’eteronomia dell’organizzazione del lavoro non c’è spazio per una vera autonomia. E allora non si capisce che cosa ci sia di nuovo nella supposta riappropriazione da parte del lavoratore del proprio “capitale fisso” – che sarebbe ormai tutto nel suo cervello! – quando rimane sussunto al capitale anche quel po’ di lavoro solo in parte riqualificato (e non è una novità anche se l’estensione è oggi maggiore), di contro alla sterminata massa, crescente su scala mondiale, del proletariato dequalificato. A fronte di un’espansione mondiale – ancorché in crisi di valore e plusvalore (com’è ogni crisi capitalistica, del resto) – del volume della produzione industriale, non si sa quale sia la ricchezza non più percepibile materialmente, resa virtuale. E non si capisce in che consistano i rinnovati fasti della teoria borghese della “sovranità del consumatore” sotto il dominio mondiale del capitale transnazionale, se non che l’ideologia dominante provi a risuscitare quel vecchio arnese dell’economia marginalistica per riproporre l’occultamento di classe in nome di una società di consumatori e cittadini, anziché di capitalisti e lavoratori.
Sicché, la nuova organizzazione del lavoro, che va sotto il nome di postfordismo e, eventualmente, toyotismo, lungi dal costituire un “nuovo” modo di produzione (giapponese o quant’altro), non rappresenta neppure quella presunta fase conclusiva della grande produzione industriale su larga scala basata sulla divisione scientifica del lavoro (della serie Smith, Ure, Taylor, ecc.). Con la cosiddetta flessibilità il capitale configura solo la sua risposta usuale alla perduta liquidità del lavoro (per dirla con Marx) da comandare, per controbattere e governare la crisi. Si è già detto come il comando sul lavoro, sulla forza-lavoro resa “flessibile”, ossia liquida, fluida, implichi sempre una corrispondente flessibilità delle macchine (condizioni oggettive della produzione) e del salario. E siccome il salario ha significato solo in senso sociale generale, di classe, la sbandierata “fine” del cosiddetto keynesismo-fordismo – una specie di “fine della preistoria” – va a farsi benedire, prima nei suoi aspetti “costruttivi”, poi in quelli organicamente distruttivi. Nella presente fase, allora, queste ultime circostanze – sempre necessarie in ogni processo di ristrutturazione (come i classici del capitalismo industriale, appena citati, insegnano) – sono raffigurate nella rivoluzione dell’automazione del controllo. Senza insistere qui sulla generalità del tema, l’interesse che riveste questo processo in corso, dal punto di vista delle catene transnazionali imperialistiche, è offerto appunto dalla capacità, già più che potenziale, di omologare le procedure dei cicli produttivi sull’intero mercato mondiale.
La vasta scala di produzione rende il ciclo produttivo ancor più standardizzato che nel taylorismo, giacché impone – nella cosiddetta produzione a fungo – la necessità di una maggiore produzione delle componenti base del ciclo del prodotto, differenziato solo nelle ultime rifiniture: nessun piccolo o medio capitalista sarebbe in grado di seguire una simile forma di mercato. Proprio la circostanza appena esposta mostra perché sia errato ritenere, come fa il senso comune, che si vada dal mercato alla produzione, al quale quest’ultima dovrebbe sottomettersi, nella già criticata presunta nuova “sovranità del consumatore”. Il ruolo del consumo, viceversa, continua a rimanere estremamente limitato, subalterno e secondario. Innanzitutto, l’attenzione a esso riservata dalla strategia capitalistica è direttamente proporzionale all’intensità della crisi da sovraproduzione – come è sempre stato, in tutte le fasi di crisi che la storia del capitale ha conosciuto. In secondo luogo, l’adattamento della produzione alle esigenze del consumatore può essere appena significativa limitatamente alla richiesta di beni di consumo durevole, peraltro soggetti a versioni opzionali e non a semplici requisiti funzionali standardizzati (e in ogni caso non può operare quasi per niente per i beni strumentali). Infine, come si è detto, non si può confondere la piccola scala di produzione con la capacità di produrre e proporre un’ampia varietà di modelli.
Anzi, la rammentata organizzazione a “fungo” esige proprio il contrario, laddove l’agilità della produzione, appunto detta “snella”, sta nella capacità di coordinamento centrale di unità produttive distinte entro una crescente larga scala di produzione. Ovverosia, si va, per così dire, da valle a monte solo quando è possibile programmare con regolarità continua, sia per la dimensione finanziaria e operativa raggiunta dall’impresa, soprattutto intesa come holding o gruppo transnazionale, sia per la capacità di questa di procedere per fuoriuscire dalla crisi. Come si dirà più avanti, lo stesso inserimento nella divisione del lavoro del “sapere” (know-how) da parte dell’azienda capofila, dunque, ha molto poco a che vedere con ciò che la moda “nuovista” definisce impropriamente come flusso di “merce immateriale” non meglio identificata. Esso rimanda piuttosto a quel flusso in quanto procedura strategica del controllo delle informazioni messa in atto dalla centralizzazione finanziaria del capitale.
Tutto ciò che precede riporta l’analisi di dettaglio su un punto dianzi appena indicato, a proposito della centralità della produzione in rapporto alla minimizzazione dei suoi costi in termini di tempo e di spazio del capitale (tempo di lavoro, di produzione e di circolazione, come pure di materiali, di macchine e spazio di produzione, di accumulazione e di mercato), azzerando tutti quei costi che derivino da sprechi capitalistici, cioè onerosi direttamente o indirettamente per l’impresa, non per la società o la natura, di uno qualunque di quei “fattori” posti nella loro forma economica. Di nuovo, è l’oculata commisurazione del punto di vista della quantità – privo di condizionamenti in una fase di abbondanza e di espansione del mercato – con quello della qualità – caratteristico di una fase di penuria e di crisi.
La parsimonia di tempo e di spazio – intesi come elementi di costo del capitale, quindi non dello spazio e del tempo altrui, ché anzi vengono così sfruttati al massimo grado consentito dalla forza di cui il capitale dispone – è il risultato della dialettica tra quantità superata e qualità posta, però verso un nuovo fondamento, per così dire, di “quantità qualitativa”. Sia lo spazio sia il tempo al contatto col capitale apparentemente si restringono in una continuità di cui il capitale stesso è garante nell’accumulazione di plusvalore; ma tale processo si rappresenta semplicemente come composizione di fasi estrinseche tra loro, le cui modalità organizzative e tecniche possono perciò riguardarsi unilateralmente come novità assolutamente indipendenti. Tale unilateralità rappresentativa impedisce di cogliere il nesso della totalità del processo unitario dello sfruttamento, quale sostrato tendenzialmente sempre in aumento, nesso che non distacca concettualmente il postfordismo dai suoi precedenti storici della sottomissione reale del lavoro nel modo capitalistico di produzione. Sicché la dominanza del capitale – mentre riduce a suo vantaggio lo spazio rappresentato nel just in time, nell’architettura interna di fabbrica, ecc., e così il tempo nel kaizen, nella saturazione dei tempi di lavoro, ecc., coerentemente all’aspirazione a ridurre a zero il tempo di circolazione per aumentare la frequenza produttiva, nelle rotazioni del capitale – è intenta in realtà a dilatare la globalità dei tempi di lavoro moltiplicati per il numero di rotazioni stesse (tempi di produzione più tempi di circolazione), oggi visibile solo nella spazialità del mercato mondiale unificato. L’ideologizzazione che ne consegue punta, pertanto, ad esaltare la rappresentazione dell’efficiente riduzione spazio-temporale tecnica, in quanto immane potenza identificata col sistema, e per converso a cancellare ogni riferimento all’unificazione della spazio-temporalità produttiva sociale con i fini stessi del capitale.
Se si considera il processo nella sua totalità, dunque, si capisce bene ora il perché si tratti di una elevazione “flessibile” del taylorismo. Comunemente si ritiene, come sopra ricordato, che il segreto del successo dell’esperienza che si basa sulla ristrutturazione “alla giapponese” vada ricercato nelle nuove tecnologie delle macchine informatiche: ora è evidente come non ci sia nulla di più inesatto o approssimativo. La nuova organizzazione scientifica del lavoro – ché di ciò realmente si tratta, quando si esaminino le procedure che Taiichi Ohno ha escogitato, mutuandole e sviluppandole dal taylorismo – s’incentra essenzialmente nel pieno e incondizionato recupero di comando sul lavoro da parte del capitale. Alla centralità del lavoro, dunque, alla sua organizzazione e al suo rapporto di capitale, è necessario riferirsi per considerare tutte le ricadute e le conseguenze che ne hanno imposto l’esemplarità, fornendo la risposta, adeguata alla contemporaneità, alla questione permanente dello sfruttamento del lavoro salariato. La nuova organizzazione imperialistica del lavoro è proprio quella che ormai ognuno ha sentito passare quasi quotidianamente sotto il nome insulso di postfordismo o qualità totale. Ma essa è quella che si esprime, attraverso la forma della doppia flessibilità di lavoro e macchine, nell’ulteriore flessibilità del salario. Non si dimentichi che scopo ultimo dell’accumulazione del capitale, infatti, è mettere in grado il capitalista di ottenere, rendendola liquida – con il medesimo esborso di capitale variabile – una maggiore quantità di lavoro, attraverso l’aumento di lavoro e la diminuzione di salario, conseguibile anche con l’apparente riduzione dell’orario lavorativo. La sintesi dell’intero processo, in tutte le sue tre componenti “flessibili”, è una maggiore quantità di pluslavoro non pagato.
In ogni epoca del modo di produzione capitalistico, quella adeguatezza è stata costantemente ricercata nella flessibilità del lavoro. L’esperienza nipponica conferma, ancora una volta, che la ritrovata fluidità e flessibilità sociale della forza-lavoro riesce ad affermarsi solo a séguito dell’incondizionata vittoria del capitale, con la disgregazione di ogni forma di opposizione proletaria: “il controllo dell’impresa sul sindacato”, sostiene Ohno. Solo così si avvia quel processo neocorporativo che infine si mostra in grado di trasporsi stabilmente in flessibilità lavorativa proprio grazie alla mediazione della flessibilità del nuovo sistema di macchine, prodotto e messo in produzione con la seconda grande rivoluzione industriale dell’automazione del controllo. Senonché il principio generale della flessibilità caratterizza l’operare del modo di produzione capitalistico, come sua legge immanente, e dunque storicamente fin dalla sua nascita. Il primo presupposto invariante del modo di produzione specificamente capitalistico – in qualsiasi sua forma, come già rammentato, fin da Smith indicato nell’aumento di abilità o destrezza del lavoratore, nell’intensificazione dei ritmi di lavoro e nel perfezionamento delle macchine da adeguare a quei fini – è costituito proprio dalla flessibilità del lavoro.
La doppia flessibilità qui in questione è ora in grado di ricadere sul salario e sulla corrispondente estorsione di pluslavoro, in quanto rappresenta il criterio portante per superare i vincoli presentati dalle rigidità poste nella grande fabbrica dalla prima grande rivoluzione dell’automazione del moto: alla quale taylorismo e fordismo non avevano potuto aggiungere nulla di qualitativamente nuovo, se non le condizioni pratiche per il raggiungimento della soglia estrema consentita da quel particolare sistema di macchine. La rigidità del sistema di macchine della linea di montaggio tayloristica, nel mondo intero, si è consumata in qualche decennio. D’altronde – proprio a causa dell’incoerenza tra i limiti imposti dalla rigidità meccanica e l’esigenza categorica della flessibilità lavorativa – la classe operaia riuscì via via a esprimere una propria rigidità, bloccando la forzosa flessibilità lavorativa corrispondente alla grande fabbrica. La significatività e la portata “tecnica” del cosiddetto postfordismo è racchiusa tutta in questa specificazione, chiaramente subordinata alla dinamica sociale.
Il cosiddetto “fattore lavoro”, e la sua efficienza, costituisce pertanto il punto di massima attenzione indicato dagli esperti giapponesi ai dirigenti capitalistici di tutto il mondo. I principali vantaggi – traducibili in ultima analisi in termini di minori costi e quindi di maggiore penetrazione nei mercati – sono stati ottenuti riorganizzando proprio il processo lavorativo (con lavoro multifunzionale), precisamente in quei segmenti interposti tra una macchina e l’altra. Come si è ricordato, l’osservazione è stata concentrata sull’eliminazione di tutte le forme di spreco e sull’aumento della scala di produzione. Ciò spiega largamente l’enorme processo di centralizzazione nelle grandi imprese transnazionali al vertice di una piramide di subfornitori via via più piccoli, fino al lavoro a domicilio, ma in rigida subordinazione gerarchica.
Ora, è di fondamentale importanza capire che tutte le procedure e tecniche adottate, in quanto tali, servono esclusivamente ad aumentare l’intensità e la condensazione del lavoro, e non la sua produttività (come dimostrano gli esperimenti pilota condotti alla Toyota su reparti attrezzati con tecnologia tradizionale). Tale accorgimento ha permesso di studiare, come in laboratorio, l’effetto specifico della riorganizzazione, in quanto distinta dall’innovazione tecnologica. Ed è proprio quella riorganizzazione che ha consentito risparmi di tempo di lavoro vivo dell’ordine del 40%, spingendolo a coincidere col tempo di produzione. Dopo, e solo in conseguenza di tale riorganizzazione, può procedere più speditamente il varo delle nuove tecnologie informatizzate; cosicché, d’altra parte, si attui anche una costrizione implicita all’aumento della durata del lavoro (con straordinari, turni, cottimi), previamente reso più intenso. La struttura gerarchica, ben lungi dall’affievolirsi, si razionalizza e si rafforza, eliminando proprio le funzioni di gestione intermedia, e mettendo in diretto contatto la struttura operativa con i “capi” superiori, sul modulo del cottimo, elevato anch’esso al livello neocorporativo di gruppo.
Il comando sul lavoro da parte del capitale è dunque il perno attorno al quale ruota la comprensione del processo di ristrutturazione in atto: le “nuove libertà” del postfordismo non sono nient’altro che fumo! La ripresa piena e incondizionata di tale comando – complessivamente racchiuso sotto le insegne della flessibilità – è la forma integrata del controllo sul salario, con l’ottenimento di un consenso in forme più o meno coercitive, e con l’introduzione (eventuale, perché non rigorosamente necessaria) delle nuove tecnologie del controllo automatico. Dunque, è così che il capitale tende a creare condizioni di precarietà permanente per l’occupazione e la sua retribuzione – aumentando lo sfruttamento attraverso la maggiore tensione della forza-lavoro: con ritmi di lavoro a intensità crescente, con taglio dei tempi morti per raggiungere una maggiore condensazione del lavoro effettivo sul tempo di lavoro contrattuale, fino alla saturazione totale di esso, con la possibilità del lavoro notturno e dei cicli continui di produzione, laddove necessario, per poter usufruire anche di una più lunga durata della giornata lavorativa. Quella precarietà si completa attraverso l’instabilità costitutiva delle prestazioni lavorative e del corrispondente salario: non è certo per pura coincidenza che proprio nella cosiddetta “epoca del postfordismo” si affermino e si sviluppino, su scala mondiale, i contratti a tempo parziale, con la formazione-lavoro o il salario d’ingresso, con le agenzie di lavoro a “prestito” e con i contratti di solidarietà, ossia con la formale “regolarizzazione” di tutte le forme di lavoro salariato prima ir/regolare e precario, marginale “nero” o “sommerso”, ecc.: la componente attiva, e non disoccupata ancorché stagnante, dell’esercito industriale di riserva.
Questo processo è ciò che fornisce la base strutturale e il fondamento materiale del neocorporativismo, costruito intorno alla ricordata parodia di consensualità, imbellettata come partecipazione: partecipazione a un ricatto capitalistico che subordina il salario del lavoratore al risultato dell’impresa, e il reddito del cittadino allo stato dell’economia “nazionale”. La flessibilità del salario, commisurata al rendimento del lavoro, risponde al classico concetto di cottimo – che i lavoratori combattono da sempre, non appena ne scoprono le insidie. Non è un caso che – tranne che per la teoria “pura” del marginalismo economico, araldo di una supponente armonia paritetica ed egualitaria tra “proprietari”, tutti messi sullo stesso livello – ogni forma di “pagamento su risultato” sia esorcizzato dai padroni e dai loro ideologi, che evitano anche di pronunciare la sola parola “cottimo”; ovvero la ricoprono di scuse non richieste, per dire che i loro sistemi di incentivazione, di premi di produzione, di riconoscimento per gratifiche, ecc., fino alla più recente “partecipazione” sono altra cosa.
Senonché le cose, nella realtà della crisi in cui è necessario inquadrare le procedure “postfordiste”, stanno altrimenti. Pur senza parlare del salario nella sua dimensione sociale di classe, il salario diretto sicuro tende a fermarsi intorno alla metà della busta paga, in condizioni normali di crescita economica; grazie all’ideologia della qualità totale, che si fa quantità totale, l’altra metà salariale è subordinata all’obliterante principio della partecipazione. Prevale quella logica “premiale” che già Marx – nel cottimo come categoria generale – riferiva alla “parvenza” di lavoro già oggettivato secondo la capacità di rendimento del lavoratore. Ma oggi il grande innominato, assurto al più elevato rango di despota del lavoro salariato, è diventato quello dianzi già indicato come cottimo corporativo, giacché la sua misura non è più neppure rintracciabile direttamente nel “rendimento” del lavoro stesso. Un incontrollabile risultato d’impresa – stabilito sulla base di libri contabili arbitrariamente compilati dagli amministratori aziendali, e per di più soggetto all’incertezza del mercato nazionale e mondiale, sul cui andamento nulla può lo zelo lavorativo – diviene il principio regolatore della quota salariale che integra la misera base contrattuale. E così pure, si diceva poc’anzi, al medesimo cottimo corporativo sono vincolate le parti del cosiddetto “salario indiretto”, a suo tempo garantito dallo stato attraverso la prestazione di servizi sociali.
Con simili clausole contrattuali e salariali – lavoro a tempo determinato e salario in base al risultato ottenuto – il posto di lavoro fisso e lo stesso orario di lavoro cominciano a riguardare sempre meno lavoratori (di cui solo una minoranza con prospettive di carriera). Per gli altri la “qualità”, che impone flessibilità, si prospetta ormai già solo come “quantità” – come sua misura sociale, cioè, non più vincolata, a particolari condizioni tecnologiche della riorganizzazione – che implica precarietà, attraverso la “messa in soprannumero” nella grande industria e nella grande agricoltura, la rovina nell’artigianato, il lavoro stagionale o a tempo parziale, le nuove forme di lavoro a domicilio, ecc. La forza-lavoro precarizzata è resa così ulteriormente flessibile per perfezionarne la forma liquida di pluslavoro.
L’esempio “giapponese” è il segnale che il capitale mondiale dà della sua strategia, consistente nel dividere dalla classe lavoratrice una nuova aristocrazia proletaria, nucleo forte delle regole neocorporative, parzialmente garantita e gerarchicamente strutturata a protezione del padronato, per imperare su una classe lavoratrice inferiore, serbatoio della forza-lavoro comune. Su tale strategia punta il moderno capitale finanziario transnazionale in tutto il mondo, in quanto essa lo rende capace di ottenere lavoro sempre più ricattabile e asservibile, anche mediante l’esempio del consenso coatto di quegli strati superiori di un proletariato mondiale diviso. In ciò realmente risiede, dunque, il potere dell’imperialismo transnazionale, e non nella inespressiva – ancorché empiricamente e fenomenologicamente rilevante – divisione geopolitica tra nord (ricco) e sud (povero), che fa il paio con i miti della “globalizzazione” e del “postfordismo”: con cui non si dà alcuna spiegazione, ma solo la mera descrizione di dati di fatto, in maniera fondamentalmente esterna alla struttura di classe del modo di produzione capitalistico.
NOTA. Per quanti ritengono che il tema dell’alienazione appartenga solo agli scritti giovanili di Marx, si precisa che i riferimenti qui considerati – così come alcune locuzioni emblematiche, qui ampiamente riportate senza ulteriori chiarificazioni – si trovano soprattutto nella quarta sezione del primo libro del Capitale [la produzione del plusvalore relativo: divisione del lavoro nella manifattura e nella società; il carattere capitalistico della manifattura; la fabbrica], e in alcuni quaderni (I.23, III.22, IV.47ss, V.28, VII.2ss, 44) dei Lineamenti fondamentali [il denaro come rapporto sociale; plusvalore e tempo di pluslavoro; reale estraneità dell’operaio rispetto al suo prodotto; forme che precedono la produzione capitalistica; differenza del modo di produzione capitalistico da tutti quelli precedenti; contraddizione tra la base della produzione borghese e il suo sviluppo stesso; alienazione delle condizioni di lavoro del lavoro con lo sviluppo del capitale], che riprendono direttamente le medesime tematiche della prima sezione del primo libro dell’Ideologia tedesca [Feuerbach]; qui non si è reso necessario alcun richiamo diretto ai Manoscritti economici filosofici.