Gunther Anders | La resistenza atomica
Tratto da Gunther Anders, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e violenza. A cura di Lisa Pizzighella, Ed. Mimesis (Mi) | Titolo originale dell’opera da cui è tratto il brano Gewalt-ja oder nein. Eine notwendige Diskussion (Violenza si-no. Una discussione necessaria); Knaur Verlag, Munchen, 1987
Motto
Noi siamo condannati a tutto ciò che è stato inventato una volta per tutte. E questo per il semplice fatto che possiamo sempre riprodurlo; e non solo possiamo, ma in quanto produttori di massa ci sentiamo in dovere di produrre di ogni modello il maggior numero possibile di esemplari; e non solo ci sentiamo in dovere di farlo, ma effettivamente siamo incapaci, d’improvviso, di non essere tali: ossia non saper più fare d’un tratto ciò che sappiamo fare.
Sicuramente Platone non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno si sarebbe venuto a creare un tale funesto intreccio di idea e maledizione.
1. L’odierno problema industriale: How to get rid of [13]
Quand’anche contro le odierne armi di sterminio potessimo disporre di macchine della medesima potenza, e quindi onnipotenti, ugualmente queste contro-macchine non basterebbero. Perché annientare un potenziale di distruzione come quello delle riserve atomiche, è tecnicamente e politicamente più difficile (ammesso che sia possibile, cosa che è improbabile) di quanto non sia il produrlo; oltretutto tale distruzione del potenziale di distruzione è estremamente rischiosa. Nulla richiede una competenza tecnica e politica tanto grande, quanto lo smantellamento e il disinnescamento di materiali e strumenti di morte. Già gli antichi greci sapevano che per ogni testa che veniva tagliata all’Idra, ne sarebbero ricresciute due.
Non molto tempo fa, ad un ingenuo americano – tanto innocente, quanto solo gli stupidi sanno esserlo – che si lamentava con me di come sia difficile costruire una presunta indispensabile lega metallica (per un presunto indispensabile miglioramento di un presunto indispensabile microelemento di un presunto indispensabile progetto—SDI) [14], risposi: “Today’s problem is not how to get or to produce something, but how to get rid of it” [15]. Oggi la premura principale dei nostri sforzi non sono i compiti positivi (ma spesso solo apparentemente tali) del tipo: come creiamo o ci procuriamo qualcosa. I compiti principali, al contrario, sono (o sembrano) quelli negativi: cioè come eliminiamo qualcosa, e una volta per sempre: non costruire, bensì sbarazzarsi delle scorie della produzione, ancora così numerose e nocive. Va da sé che, dialetticamente, i compiti negativi (il “getting rid of”, lo sbarazzarsi di qualcosa) richiedano sempre prestazioni tecniche positive, e in certe circostanze richiedano perfino l’ingegnosa invenzione e costruzione di nuove apparecchiature tecniche.
Cosicché per lo “smaltimento” delle scorie radioattive naturalmente non bastano pale e carrelli e a tale scopo si dovranno invece inventare e creare nuovi oggetti. La riduzione richiede produzione (in certo qual modo di secondo grado), cosa che del resto non sempre riesce. Ad ogni modo agli scienziati e all’industria riesce molto più facile la coproduzione (che scaturisce inevitabilmente dalla produzione delle merci desiderate) degli scarti (indesiderati e per lo più chimici) o della contaminazione di territori (che anche se non voluta – vedi Chernobyl – è pur sempre accettata come rischio in maniera sconsiderata), che non l’eliminazione dei residui.
In altre parole: non disponiamo più di nessun altro luogo lontano, in cui poter confinare i “residui” senza contemporaneamente avvelenare quello e noi stessi: non disponiamo più di nessun’altra “ritirata” (ad una parola giustamente non filosofica, si addice qui un senso filosofico universale).
Oppure – forse questa seconda immagine è ancora più precisa – la barca in cui noi siamo non è circondata da un oceano che sta fuori e – in senso causale, quindi “trascendente” – irraggiungibile, da un oceano in cui possiamo buttare, sbarazzandocene, i residui (che sono non soltanto inservibili, ma anche) mortiferi. Noi siamo incapaci di gettare in mare i residui, poiché attraverso l’immenso accrescersi della nostra potenza è completamente cambiata – come dice Scheler – la “posizione dell’uomo nel cosmo”: poiché noi, volens nolens, attraverso un tale accrescimento influiamo “sull’oceano”. La tesi più sopra formulata “non disponiamo più di nessun’altra via di ritirata”, deve essere integrata da un’altra che apparentemente le si contrappone e la contraddice, dev’essere cioè integrata dall’antitesi: “ora tutto è diventato “ritirata””. Che significa: poiché gli effetti delle nostre attività oggi sono immensamente grandi, essi “traboccano”. Non c’è più nessun “bordo” che possa “imprigionare” questi effetti all’interno della nostra barca, dunque non c’è più “l’oceano” che possa proteggerci da questi effetti. Quel che oggi facciamo, non resta con noi “nella barca”. Ammesso che quelle in cui noi sediamo si possano chiamare ancora “barche”; e ammesso che non si debba invece dire che (poiché la nostra onnipotenza non si lascia contenere, e poiché di fronte ad essa, nonostante sia nostra, noi rimaniamo inermi), nuotiamo “nell’oceano stesso”, o (all’inverso) che “l’oceano”, dunque il mondo, è continuamente vittima nostra. In ogni caso le nostre azioni, per esempio i nostri esperimenti atomici, diventano eventi mondiali che non è possibile richiamare indietro. Dalla loro somma viene fuori qualcosa che non ha più niente a che vedere con gli esperimenti, ma molto di più con qualcosa che senza dubbio è il vero stato del mondo. Gli effetti delle nostre azioni sono irreversibili e si espandono impassibili, proprio come si allargano sempre di più i cerchi che noi creiamo lanciando un sasso in acqua. E non lo fanno solo in senso spaziale, ma anche in senso temporale (cosa che contraddice eo ipso qualsiasi esperimento cronologicamente delimitato) [16].
La nostra “maledizione” non consiste più, come era stato fino a poco tempo fa, nel fatto (o solo nel fatto) che siamo condannati ad un’esistenza finita e quindi alla mortalità, ma consiste al contrario nel fatto (o anche nel fatto) che non possiamo arginare o tagliare via l’illimitatezza e l’immortalità degli effetti del nostro agire. Per quanto ciò possa sembrare contraddittorio, ciò che ci limita (ossia: ciò che ci fa restare privi d’aiuto) è l’illimitatezza degli effetti del nostro agire. L’onnipotenza è il nostro più fatale difetto [17].
Oggi può fungere da simbolo della nostra esistenza l’infinito – infinito rispetto alle dimensioni umane – “tempo di dimezzamento” del plutonio; o più esattamente: la nostra incapacità di accorciarlo o di eliminarlo del tutto. Il libro filosofico fondamentale di oggi non dovrebbe più chiamarsi, come sessant’anni fa, “Essere e tempo”; dovrebbe invece intitolarsi “Essere e tempo di dimezzamento”; o ancora più esattamente: “Tempo di dimezzamento e non essere”.
2. L’effetto della produzione
L’”imensità” della nostra produzione di catastrofi, dunque, non consiste solo nell’incommensurabile conseguenza dell’uso, non solo in ciò che potremmo chiamare l’”effetto Hiroshima”; essa, al contrario, comincia già in uno stadio precedente, quello della creazione. Infatti già questa scarica rifiuti – certo involontari, e tuttavia inevitabili – che il creatore non riesce più a controllare o ad evitare. Questo fatto non è da ricondurre al paragone, tanto spesso (anche da me) utilizzato, dell’”apprendista stregone” [18] poiché ciò che si dimostra irrevocabile non è solo l’effetto delle nostre attività o del nostro impiego dei prodotti, bensì già l’effetto della nostra fabbricazione dei prodotti. Dunque l’”effetto delle scorie radioattive”.
Infatti, le scorie radioattive sono il simbolo della nostra era, e quindi dell’umanità di oggi: simbolo della nostra incapacità di distruggere le forze e le materie distruttive che noi co-fabbrichiamo attraverso la nostra produzione.
Quelli che fabbricano materiali quali i rifiuti chimici (malvolentieri, ma come loro stessi dicono: inevitabilmente), e quelli che tentano di occultare questi materiali e poi cercano di occultare anche i loro tentativi di occultamento – in concreto: quelli che scaricano di nascosto tali materiali nei fiumi o nei mari sono i veri materialisti odierni, cioè i “materialisti in actu”, poiché, a differenza dei teorici materialisti che considerano l’organico e lo spirituale solamente come “mera sostanza”, essi trasformano effettivamente in materiali morti miliardi di creature organiche, dalle pulci d’acqua alle anguille, su su fino alle foche e agli esseri umani.
3. Le idee platoniche rendono immortale la possibilità del genocidio
Distruggere sostanze distruttive, ammesso che ciò sia possibile, è molto più difficile che creare sostanze distruttive. Fabbricare è facile. Ma quanto è difficile distruggere! Noi non solo non siamo dei “creatores”, ma non siamo neppure dei competenti “destructores”. Per quanto ciò possa sembrare assurdo, la nostra “incapacità di distruggere” è diventata evidente con la fabbricazione delle prime due bombe atomiche. Poiché anche qualora distruggessimo quelle che sono state costruite dopo, o liquidassimo (come sembra proporre oggi Gorbacëv) tutti gli attuali esemplari di cui disponiamo, in modo da non possederne più nessuna almeno per un momento – e anche qualora sembrasse di avere ristabilito la situazione pre-Hiroshima, qualora questa sembrasse anche solo ristabilita – non per questo non continueremmo a possedere i mostri [19], e ciò per il semplice fatto che ogni giorno potremmo fabbricarli (e perfino “migliori”).
Il condizionale primeggia trionfalmente sull’indicativo. Sotto forma di “blue print” [prototipi] essi sono come idee platoniche, immortali ed impossibili da gettar via [20]. Indirettamente anche la possibilità del mantenimento della pace è caduto vittima dell’universale dato di fatto della riproducibilità. Dunque non riusciamo a sbarazzarci non solo dei residui pericolosi, e non solo delle conseguenze delle nostre macchine di genocidio, i cui tempi di dimezzamento non influenzabili e non accorciabili si prendono gioco di tutti i nostri progetti; ma per di più non riusciamo a sbarazzarci proprio dei prototipi, dato che questi restano riproducibili in eterno e sopravvivono in eterno alle loro riproduzioni fisiche.
4. Non vale la pena di minacciare i prodotti, giacché in essi è comunque già innata la “pulsione di morte”
Fino ad ora non ho assolutamente preso in considerazione il fatto che la distruzione dei prodotti (non solo quelli del nemico, ma anche i propri) rientra negli interessi del capitalismo, dato che tale distruzione è la condizione per la continuazione della produzione (la quale a sua volta richiede di essere prodotta). In breve, non ho considerato il fatto che tutti i prodotti (ammesso che con uno scherzo filosofico ci sia consentito attribuire loro una vita psichica) “desiderano” avere una vita tanto breve, quanto quella dei beni di consumo, e cioè di non esistere affatto; e dunque che la loro “pulsione di morte”, la loro speranza di sparire rapidamente, i loro impulsi tendenti verso quel fine rappresentano l’”inclinazione fondamentale” che agisce all’interno del sistema capitalistico [21].
Se si riflette su questo, allora si esita a credere alla paura e all’indignazione dei signori dell’industria di fronte al sabotaggio. Al contrario, essi sperano nel sabotaggio, poiché questo in verità non è che una variante della loro planned obsolence (obsolescenza pianificata) una variante in cui la distruzione, che solitamente essi stessi preparano (appunto attraverso la premeditata fabbricazione della scarsa resistenza di questi prodotti), viene affidata ad altre persone: ossia a quelli che loro stessi assumono con l’etichetta di “facinorosi”.
5. Contro chi o contro che cosa?
Di solito, da noi che dubitiamo disperatamente dell’efficacia della resistenza nonviolenta, ci si aspetta che se proprio ci decidessimo per la violenza, allora che la dovremmo impiegare “naturalmente” solo contro oggetti inanimati e mai invece contro i nostri simili. Si tratta di un’autolimitazione che però non è mai stata presa in considerazione come proprio principio dai nostri “normali” antenati e contemporanei che non sono pacifisti e appoggiano, finanziano e impiegano eserciti permanenti; un’autolimitazione che quelli e questi avrebbero respinto e respingerebbero beffardamente come un’insinuazione di “pacifismo”. Il nostro (davvero terribilmente inevitabile) minacciare uomini, non contraddice affatto i principi dei nostri avversari (non dovremmo stancarci mai di attirare l’attenzione dei contemporanei su questo dato di fatto). Al contrario sono loro, i quali reputano necessario fabbricare armi, ad essere sostanzialmente pronti alla violenza. Essi non sono affatto contrari alla violenza in quanto tale, ma solo contro qualsiasi disturbo del loro monopolio della violenza, contro qualsiasi contro-violenza (impiegata contro la loro violenza).
Naturalmente non si potrà mai dimostrare la legalità di questo monopolio, poiché ogni potere che si accampa il monopolio dell’esercizio della violenza e che fa riferimento a quello, in fondo “possiede” il suo potere proprio perché con l’aiuto della violenza è in grado in qualsiasi momento di conferire vigore alla sua pretesa di monopolio della violenza, cosa che il potere vorrebbe spacciare – punto estremo del circolo vizioso! – come “dimostrazione” e “legittimazione”, In questo circolo o imbroglio cadono dentro perfino gli stessi imbroglioni, credendo – cosa che naturalmente rafforza in loro la fiducia in se stessi – alla propria menzogna. In breve: violenza legittima violenza. Sembra legittimarla. Ma chi, come noi, è troppo orgoglioso per accettare la validità di un simile circolo vizioso, finisce col passare per “rivoluzionario”. Peggio di così non poteva andarci!
6. L’integrazione: uccidete quelli che vi ordinano di uccidere
È un’ipocrisia senza pari che contemporanei che non sono per niente pacifisti, che non pensano neanche lontanamente di limitarsi all’”uccisione” di oggetti inanimati, ossia al danneggiamento di cose, e che accettano di uccidere esseri umani (non solo la possibilità, ma addirittura la probabilità di uccidere) come “per necessità di cose” o come “difesa contro (immaginari) nemici” o come “inevitabile prezzo del progresso” – ad ogni modo come qualcosa che nella vita dell’uomo è tanto ovvia quanto il mangiare, il bere e l’amare, in breve: come qualcosa moralmente permessa, se non addirittura come glorioso dovere morale – è insomma un’ipocrisia senza pari che questi non-pacifisti simulino una così grande indignazione o che per autoinganno siano veramente tanto indignati, per il fatto che noi pacifisti, nell’interesse della pace futura e della continuazione della vita del genere umano, dichiariamo di essere costretti dalla loro mancanza di scrupoli a prendere in considerazione il passaggio dalla protesta alla difesa, dalla difesa al contrattacco, e di combattere veramente, al pari di loro, contro altri uomini (uomini davvero pericolosi e colpevoli). Dobbiamo insomma considerare nemici, e trattarli come tali, tutti quelli che (come per esempio è successo per la guerra di Hitler, ma anche per quella di Kennedy e Johnson in Vietnam) ci costringono a fare ciò che per noi è davvero tabù: uccidere. Al comandamento “Non uccidere” (Esodo 20,13), che ormai ha più di 3000 anni, dovremmo aggiungere un’integrazione: “Ti è consentito uccidere e forse perfino: tu devi uccidere coloro che sono pronti ad uccidere l’umanità, e che pretendono che gli altri uomini, dunque noi, approvino le loro minacce e prendono parte alle loro azioni”. Non basta che tu ti tenga lontano dalle azioni che mettono a repentaglio la vita dell’umanità, rifiutandoti quindi di prenderne parte direttamente. Con questo non assicuri la pace e la sopravvivenza dell’umanità; al massimo riesci a procurarti il piacevole sentimento d’avere una buona coscienza. Ma non c’è niente di più ipocrita che evitare il male solo perché si desidera avere una buona coscienza. Sacrificarsi o accettare di diventar martire sono fini assolutamente egocentrici. E ci sono consentiti e perdonati soltanto come estrema ed ultimissima via d’uscita.
7. L’indispensabilità dell’intimidazione
Se ci limitassimo a minacciare o a “uccidere” cose inanimate, quale sarebbe la conseguenza? Sul piano militare, nessuna. In primo luogo perché rispetto alle loro armi e alle loro macchine il livello tecnico delle nostre armi è incredibilmente basso. E anche qualora riuscissimo a disturbare o perfino a distruggere questo o quel loro oggetto, non per questo verrebbe intaccata la loro superiorità tecnica.
In secondo luogo c’è da dire che la “de-democratizzazione”, la trasformazione della Repubblica Federale Tedesca in uno “stato atomico”, è comunque già in corso da molti anni. Si è già pronti ad intervenire militarmente, attaccandoci addirittura con l’aviazione come se fossimo dei veri e propri vietnamiti, e ciò si è già verificato ripetutamente, nonostante che il 99% dei dimostranti che hanno partecipato alle processioni del Corpus Domini fossero pacifici. Anche se protestiamo senza provocazioni, comportandoci da tranquilli cittadini, risultiamo già sospetti. Noi tutti. (Del resto, l’unica egalité di oggi consiste proprio in questo “potrebbe essere chiunque”).
Corriamo dunque il rischio d’essere derubati della nostra libertà, e in certi casi d’essere attaccati fisicamente, anche se restiamo nonviolenti. La paghiamo già cara o carissima anche se ci limitiamo a modeste proteste simboliche o a happenings o alla pura minaccia contro oggetti o, all’”uccisione di cose inanimate”.
Essere disposti a pagarla cara solo per una resistenza simbolica non è eroico, ma stupido. Soltanto indegni amanti del martirio si lasciano “punire” dai gas dell’aviazione per il solo fatto che, protestando contro la messa in pericolo dei propri simili e dei propri discendenti, si limitano a gridare, a tenersi per mano o perfino a recidere del filo spinato.
Piuttosto, la nostra massima dovrebbe essere: “Se cosi dev’essere, allora che sia davvero”, il che significa: “Se rischiano di venire comunque attaccati, allora per favore cerchiamo almeno d’essere puniti per qualcosa che abbiamo compiuto veramente, per delle azioni reali”. Se la nostra libertà ci viene limitata o sottratta del tutto, allora ciò non deve assolutamente accadere soltanto perché organizziamo happenings, come è successo finora (con grande piacere dei nostri nemici). Al contrario, solo perché noi, al fine di assicurare la nostra vita e la nostra sopravvivenza (e quindi quella del genere umano), cerchiamo davvero di mettere in pericolo quelli che mettono a repentaglio questa stessa sopravvivenza. È perfino umiliante (poiché la maggioranza delle nostre azioni scaturiscono da questo) mendicare in continuazione: “Suvvia, non prendeteci troppo sul serio!”.
E affermare sempre con paura e adulazione o con aria offesa o spalancando gli occhi: “Ma mi faccia il favore! In fondo noi la resistenza la simuliamo soltanto! In verità noi lottiamo solo come attori da palcoscenico!”. Non è scandaloso credere di agire solo come attori e di dover poi invece mandar giù il danno come persone reali?
8. La produzione di facinorosi
La versione ufficiale dello stato è che deve reprimerci (noi che in fin dei conti lottiamo per liberarci dalla minaccia della fine del mondo) perché con altri provvedimenti esso non riuscirebbe a salvaguardare la “libertà” (perfino la “libertà democratica”).
Forse che da una versione simile – la stessa che Hitler andava abbaiando già mezzo secolo fa – dovrebbero farsi imbrogliare anche i nipoti di chi fu gabellato allora? Pochissime popolazioni però (specialmente se le si chiama con adulazione “popoli”, cosa che le fa sprofondare in un orgasmo popolare) sono immunizzate contro l’imbroglio meglio di quanto lo siano stati i tedeschi nel 1933. Nell’odierna RFI l’imbroglio riesce con molta facilità, tanto più facilmente in quanto, se un paio di facinorosi (che il Ministero degli Interni prende come pretesto per “interventi drastici”) intraprendono qualche attacco, si trova sempre immediatamente sul posto una équipe televisiva che in simultanea prova in modo oculare tali misfatti, inventati di sana pianta. I cosiddetti “facinorosi” e i loro “provatori” oculari sono colleghi, poiché entrambi i gruppi sono impiegati di un solo ed unico padrone. L’imbroglio popolare funziona attraverso la fabbricazione [22] e l’assunzione di una speciale canaglia dall’aspetto accuratamente trasandato, appunto del cosiddetto “facinoroso”. E attraverso la fabbricazione di questo viene prodotta contemporaneamente anche l’immagine del nemico contro cui si combatte, l’immagine dei nemici che devono essere odiati anche dal pubblico televisivo (dunque da tutti), l’immagine di quelli che ora, come si voleva e si è mostrato (o si è richiesto), da questo pubblico devono anche essere veramente (perfino col gratuito suggerimento del sentimento della spontaneità) odiati e forse, quando è il caso, addirittura pestati [23]. A parte la nonviolenza, a cui aderisce la “stragrande” maggioranza dei dimostranti, e che consente ai detentori del potere di costruire indisturbatamente i loro mortiferi impianti, questi non si augurano altro che avere una manciata di violenti su cui poter far affidamento, giacché il solo fatto che questi esistano basta a rendere plausibile alla popolazione (esposta ad un estremo pericolo a causa delle installazioni atomiche) la presunta indispensabilità di trasformare lo stato in uno stato totalitario. Quale pretesto per la trasformazione (degli ultimi quartieri ancora democratici) dello stato in uno stato del tutto poliziesco, è assai gradita l’esistenza di dimostranti violenti e la corrispondente guerra contro di essi (nell’interesse della “pace interna”, ancora una volta detta pretestuosamente “prevenzione” necessaria, meglio ancora se violenta). Il famoso detto dei Molussi [24] “La polizia ha bisogno di criminali, deve a questi la propria esistenza e in caso di necessità deve perfino crearli essa stessa”, vale spaventosamente anche per la Repubblica Federale.
Se uomini come Strau? accettano le manifestazioni – che naturalmente divengono simili a guerre civili soltanto dopo le “contromisure” della polizia e dei militari – lo fanno solo perché sperano (e su questo devono contare) che le loro misure agli occhi dei loro elettori appaiano come “azioni di salvezza”. Chi impiega la violenza con successo, sembra dimostrare con questo successo che il suo impiego della violenza è stato legale, un legittimo atto di salvezza, e che – questo è ciò che conta di più – il colpevole è l’aggredito. E ciò, appunto, è quel che vogliono dimostrare coloro che combattono i manifestanti [25].
Come sempre: gli Strau? non hanno mai paura delle manifestazioni (finora quasi tutte innocue). E altrettanto dicasi delle poche innocue azioni di danneggiamento di oggetti. Ma ciò di cui non hanno assolutamente paura, sono le ferite che essi stessi procurano ai “facinorosi” durante la “necessaria difesa”.
9. Il condizionale
E per finire ripeto le mie conclusioni, le quali non solo spaventeranno i miei amici, ma anche me, e non smetteranno mai di spaventarmi – ma avendo riguardo verso me stesso, finirei col compiere un atto di sconsideratezza nei confronti del mondo che si trova in pericolo – dunque ecco le mie conclusioni: Se vogliamo cercare seriamente di salvaguardare la nostra sopravivenza, e quindi anche quella dei posteri, allora non ci resta niente altro da fare che intimorire davvero quei nostri contemporanei che veramente ci minacciano. Ciò significa non solo restituire contro-minacce verbali – la verbalità non li scuote assolutamente – bensì: ogni tanto mettere in pratica queste minacce, affinché non si creda che continueremo a limitarci ad un puro teatro festivo.
Anche quelli che ci minacciano non si limitano di certo a dei semplici come-se, anche le loro minacce sono assolutamente reali. Di conseguenza dobbiamo anche noi mettere in atto il più realmente possibile le nostre contro-minacce. E questo significa nel modo più imprevedibile, nel modo più imponderabile: oggi potrebbe toccare a questo e domani a quell’altro. E dopodomani potrebbe – questo deve capirlo ognuno di quelli che diretta- mente o indirettamente, incoscientemente o stoltamente favoriscono il genocidio – dopodomani, appunto, potrebbe essere il suo turno, potrebbe capitare a lui. Che capiterà a lui, egli lo sa (deve, può saperlo) tanto quanto – poco – sa (deve, può sapere) un giocatore della lotteria, che vincerà una grossa fortuna, prima del momento dell’estrazione. Questa attività ricattatoria – che sia ‘ricattatoria’ non lo metto in dubbio [26] – questo “tenere-sullespine” è necessariamente nella forma condizionale “potrebbe” poiché noi non disponiamo di nessuna arma fisica che sia pari alle armi fisiche che loro posseggono. Per questa ragione siamo costretti a meditare su un altro tipo di arma, a pensare di trovare o inventare un’arma sostitutiva. E come nuova arma utilizzeremo appunto la loro ignoranza, il loro non sapere se oggi toccherà a loro o ad altri. Già solo attraverso la grandezza di questa loro ignoranza (ch’essi sono incapaci d’ignorare) ognuno di loro si sentirà terribilmente insicuro. Non vi sarà nessuno che al mattino non si chieda impallidendo se domani alla stessa ora ci sarà ancora. E di conseguenza alcuni di loro forse lasceranno perdere il loro sporco affare (come già da anni hanno fatto di spontanea volontà centinaia di scienziati responsabili). Ma essi lo faranno soltanto per paura, poiché a questi poveracci, ingiustamente, non è stato concesso di possedere una coscienza.
Io non accetto l’esortazione che un mio vecchio amico ha recentemente e con audacia rivolto a migliaia di dimostranti: “Fate a pezzi ciò che vi fa a pezzi!” [27], un’esortazione che è stata tacciata dai paurosi e dagli indignati come imperdonabile “incitamento alla violenza” e per questo forse egli dovrà subire anche un processo. Non l’accetto non perché mi sembra che vada “troppo in là” o perché sia “troppo militante”, ma al contrario perché non va abbastanza in là e perché resta non militante. È come se una donna, aggredita da suo marito con un coltello, reagisse contro di lui minacciando di rompergli il coltello. Ebbene, nell’era della produzione di massa fare a pezzi degli oggetti non serve a niente. Al prossimo angolo di strada lui può comprarsi un coltello di riserva, addirittura lo “stesso” coltello. Invece non c’è una “vita di riserva”. Per questo la minaccia contro la vita è l’unica minaccia seria. Consiste in ciò la terribile serietà dell’uccidere. Oggi l’esortazione dovrebbe, anzi deve spaventosamente essere: “Fate a pezzi quelli che sono disposti a farvi a pezzi!”. Un anno fa in una rivista canadese si leggeva: “Nessuno di quelli – ed io mi riferisco soprattutto a politici, generali, scienziati e giornalisti – nessuno di quelli che preparano la minaccia atomica di massa e l’eccidio di massa, minacciando o solo accettando con ciò la possibilità dell’eccidio di massa attraverso i cosiddetti pacifici impianti nucleari, nessuno di loro potrà o dovrà più sentirsi sicuro della propria vita” [28]. Quel che è vero in Canada, vale anche da noi. Anche noi dobbiamo spiegare a quelli che ci minacciano, che noi consideriamo le loro attività come una guerra nei nostri confronti, contro milioni di terrestri; e che accettiamo questa guerra che non è mai stata dichiarata (come si usa da Hitler in poi) poiché non abbiamo altra scelta, il che significa: cercheremo di difenderci bellicosamente e senza riguardi [29]. E non avremo riguardi neanche nei confronti di noi stessi: cioè senza riguardi nei confronti della nostra ripugnanza inestirpabile e profondamente radicata di fronte a qualsiasi spargimento di sangue, che nonostante tutto rimarrà per noi inestirpabile anche in futuro.
Ma ciò non ci aiuta. Dobbiamo vincere questa ripugnanza. E dal momento che non ci è concesso di restare indifferenti di fronte alla nostra fine e a quella dei nostri figli – una tale indifferenza sarebbe omicida – non dobbiamo neanche rifiutare la lotta contro gli aggressori con l’argomentazione secondo cui il comandamento “Non uccidere” non ammette alcuna eccezione. Esso l’ammette. Anzi la esige. E ciò nel caso in cui attraverso l’atto-eccezione vengano salvati più uomini di quanti ne muoiano a causa sua. Dobbiamo cioè accettare la guerra a cui siamo costretti.
E questo –noi non saremmo davvero i primi, ma saremmo certamente gli ultimi! – con la stessa disperata risolutezza con cui mezzo secolo fa migliaia di uomini e donne nei Paesi europei oppressi da Hitler hanno (o avrebbero) dovuto accettare la lotta contro la politica di sterminio del nazionalsocialismo.
Ancora oggi, perfino fuori della Francia, la parola résistance non ha perduto il suo bel suono. Dovremmo forse vergognarci di fronte alla generazione d’allora? Allora, infatti, furono solo i più ignobili ad avere il “coraggio alla viltà”: ossia il coraggio a non opporre nessuna resistenza, vantandosi persino, come fanno oggi certi oppositori del nucleare, di limitarsi alla “resistenza nonviolenta” per motivi giuridici, morali o religiosi [30]. A causa di una tale autolimitazione perirono allora un gran numero di persone.
Oggi si tratta di un numero incomparabilmente più grande di allora. Perché il pericolo di oggi non solo è più grande di allora, ma è – il comparativo non basta più – totale. E potrebbe essere definitivo.
Per questa ragione noi contemporanei possiamo permetterci ancor meno di accontentarci di “happenings”, o addirittura di vantarci di un tale accontentarsi. Piuttosto, adesso dobbiamo invece cercare di combattere gli odierni nemici e aggressori con la medesima mancanza di riguardi con cui quarantacinque anni fa i partigiani cercarono di combattere, di indebolire o appunto di uccidere gli occupanti e oppressori nazionalsocialisti dei loro Paesi.
Perché anche noi siamo occupati ed oppressi. E pertanto anche noi dobbiamo sentirci dei partigiani.
E ciò non solo perché nella RFI veniamo dominati da persone che hanno interessi nel settore nucleare, commerciale, politico e militare, bensì anche e soprattutto perché il potere-chiave sull’impiego delle armi atomiche installate sul territorio della RFI risiede esclusivamente nelle mani di un’altra potenza, per di più extraeuropeo, di una potenza che a partire da Hiroshima in poi ha continuamente dimostrato i propri principi pacifici (ad esempio in Corea, in Vietnam e in Libia). Una potenza che già più di cinque anni fa ha annunciato in modo consolante per bocca di uno dei suoi più importanti uomini di stato, Rostow, capo del “gabinetto per il controllo del riarmo e del disarmo degli USA”: “Noi non viviamo in un dopoguerra, ma in un’anteguerra” [31]. Ma dato che il potere chiave sui missili che stazionario sul suolo della Repubblica Federale è nelle mani di un’altra potenza (nelle mani degli americani, che proteggono la RFI da un presunto “male”); ne consegue che mediante un eventuale forte impiego di quei missili (e quindi mediante l’inevitabile controattacco dall’Est) la Repubblica Federale (se non addirittura un territorio ancor più vasto) verrebbe ridotta per sempre in un contaminato deserto senza uomini; e che dunque i suoi abitanti perirebbero come covittime del primo aggressore, mentre a quest’ultimo forse verrebbe risparmiata la vita [32].
La perdita della sovranità o la rinuncia alla sovranità, come è stata portata a termine dalla Repubblica Federale, oggi può condurre al suicidio. Hiroshima può trovarsi anche in Saarland o in Baviera o nel Pfalz.
Quindi la RFT non solo è occupata, ma è stata resa in prospettiva “vittima sostitutiva”, dato che è dal suolo tedesco che gli USA minacciano l’Unione Sovietica. I “colpi di risposta” atomici che manderebbero alla rovina la Germania Federale, non sarebbero per lei. Questi “colpi” non sarebbero risposte ai “first strikes” [primi colpi] tedeschi, ma a quelli degli occupanti della Germania… naturalmente; non è che con questo io voglia assolvere dalla loro co-colpevolezza gli stolti cancellieri e governi tedeschi che hanno acconsentito a trasformare il territorio tedesco in una rampa di lancio, in un bosco di armi atomiche. Comunque, nel temibile caso di uno “scambio di colpi” la RFT non sarebbe vittima di quelli da cui gli occupanti vorrebbero “proteggerla”, bensì (anche se solo indirettamente, ma ciò non attenua per niente la colpa) dei presunti “protettori”.
Coloro che si fanno chiamare così, in verità sono dei provocatori che – qualora sembrasse loro opportuno, cosa che loro chiamano “per necessità di cose”, insomma in caso di guerra – metterebbero una croce sopra la Germania. Ma perché metterebbero? Infatti non c’è più nessun condizionale, nessun “if” [se], ma solo un “when” [quando], ossia sulla Repubblica Federale metteranno una croce o già ce l’hanno messa. È lo slogan pubblicitario per viaggi di gruppo di un’agenzia turistica americana, che sembra come se invitasse ad andare a vedere immediatamente un Musical che resterà ancora in programma solo per un paio di giorni: “You better book your trip to Europe soon” [Affrettatevi a prenotare il vostro viaggio in Europa], poiché effettivamente questa meta di vacanze domani potrebbe essere già scomparsa dalla scena.
Nella storia della pubblicità per viaggi questo slogan rappresenta una première, perché si invita già ora alla visita di future rovine che oggi stanno ancora in piedi come edifici; mentre prima, invece, ci si limitava ad invitare ad andare a visitare le odierne rovine di costruzioni antiche.
Ebbene questa pubblicità è si nota in Europa, ma non è presa sul serio; del resto che cosa si prenderebbe già (o ancora) sul serio? La distinzione che l’industria dei media fa (e di conseguenza anche il pubblico fa) tra E-Musik e U-Musik, non la fa invece nei confronti della realtà. Tutto infatti, persino quando si tratta della minaccia globale, appartiene alla Realtà [33].
Ed ora il paragone decisivo che già avevo annunciato nel titolo di questo testo: quei tedeschi che adulano l’occupante o il proprietario della RFT, che accettano questa situazione umiliante e mortalmente pericolosa, lodandola pateticamente; quelli che d’altra parte criminalizzano come “facinorosi” noi, gli oppositori di questo scandalo, agiscono altrettanto scandalosamente e ignobilmente di quanto abbiano agito i vassalli francesi di Hitler, i pétainisti, al tempo in cui, uniformatisi a Hitler, nell’interesse di costui insultarono, inseguirono, arrestarono e uccisero i combattenti della resistenza francese.
L’attuale governo della RFT non è meno uniformato agli USA, di quanto lo era stato il governo di Pétain a Hitler.
Noi, al contrario, dobbiamo cercare di uguagliare i combattenti partigiani d’allora. Essi sono modelli veramente degni. Seguendo i loro principi i cittadini della RFT potrebbero perfino recuperare l’onore perduto a causa dei quarantacinque anni di mancata resistenza dei loro genitori.
Note
[13] “Come sbarazzarcene” [NdT].
[14] Su una tale interazione di presunte indispensabili parti di macchine e azioni di parti di macchine si fonda per il 99% l’instancabile imprenditorialità della nostra industria.
[15] “Il problema, oggi, non è in quale modo si possa produrre qualcosa, ma in quale modo ce ne possiamo sbarazzare” [NdT].
[16] Riguardo a ciò si veda la mia motivazione del rifiuto degli esperimenti nucleari del 1956. Essi sono immorali, poiché contrariamente agli esperimenti classici, non vengono effettuati in interni ermeticamente chiusi che non intaccano il mondo, e pertanto divengono eo ipso eventi mondiali, entrano nella storia e si ripercuotono perfino su di noi “Sperimentatori” (cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 257ss.).
[17] La prima, ancora inadeguata, formulazione di questo dato di fatto in G. Anders, L’uomo è antiquato I, p. 217 ss.
[18] Ibidem, p. 217 ss.
[19] Questa frase ipotetica è comunque discutibile, dato che le prime due bombe atomiche sono state distrutte davvero. Cioè attraverso il loro uso. E “noi” non abbiamo distrutto solo loro, ma in un certo senso anche i loro modelli addirittura ininterrottamente, mediante un metodo di distruzione molto amato, l’unico metodo grazie al quale noi, anche in periodi di pace, ossia in pace, distruggiamo di continuo macchinari, anche macchinari di distruzione: mediante il metodo che chiamiamo “miglioramento” o “progresso”. In altre parole: abbiamo distrutto le bombe di Hiroshima nella misura in cui, dopo il 6 agosto 1945, abbiamo inventato “macchine di morte migliori”, “bombe migliori”; e, affinché le invenzioni non risultassero vane, le abbiamo anche costruite. La frase di Eraclito “pòlemos pànton patèr” (“la guerra è il padre di tutte le cose”) oggi deve essere completata, e precisamente mediante il suo rovescio: attraverso il nostro “patères e’nai” [essere padri], attraverso la nostra creazione di macchine sempre nuove, automaticamente facciamo la guerra. Ossia la guerra contro le macchine di ieri, contro il nostro mondo delle macchine di ieri, al quale naturalmente appartengono anche le macchine da guerra di ieri. Inoltre le distruggiamo anche nella misura in cui le smerciamo agli stati del Terzo Mondo (o facciamo venire loro l’acquolina in bocca), i quali, per il fatto di possedere questa nuova proprietà, si sentono obbligati a farne uso e quindi si sentono in dovere di intraprendere guerre,, nelle quali le macchine di distruzione vengono distrutte in modo attendibile e definitivo.
[20] G. Anders, L’uomo è antiquato II, p. 37.
[21] Ibidem, p. 38 e 284.
[22] Naturalmente mai attraverso la fabbricazione di “proletari speciali”, dato che non si vuole assolutamente dire che i proletari sono dei “ribelli contro il nucleare” i quali dei resto, purtroppo, non lo sono davvero quasi mai.
[23] L’esattezza della diceria, non del tutto infondata, secondo cui il Ministero degli Interni non solo avrebbe nelle vicinanze di Ingolstadt un Istituto professionale per facinorosi (con un corso speciale per segatori di metalli), ma a Neugelsenkirchen intratterrebbe anche relazioni con una ditta di abbigliamento per facinorosi (la quale si è specializzata esclusivamente nella fabbricazione di quel particolare tipo d’abito), Purtroppo finora, nonostante interminabili indagini non è stata ancora provata al 100%. Altrettanto dicasi della notizia riportata sul “Corriene di Kleinkleckendorf” del 13 ottobre 1985, Secondo cui Franz J. Stran? avrebbe fatto brevettare, nel luglio dello scorso anno, il neologismo “facinoroso”, evitando così una volta per tutte che qualcun altro potesse chiamarlo così.
[24] Anders ha sempre amato – fin dai tempi de L’uomo è antiquato I, –rifarsi ai detti e alle sentenze molussiche. In realtà il popolo dei Molussi non esste e tutte le citazioni molussiche da lui usate sono prese da un romanzo utopico, pubblicato nel 1992, ch’egli Scrisse negli anni ‘30 come romanzo filosofico antifascista. La Molussia era una metafora della Germania nazista [NdT].
[25] Anche molte sentenze e dibattimenti della polizia e dei tribunali attinenti a “casi di violenza carnale” dimostrano che “ad essere ritenuti colpevoli non sono i violentatori, ma le violentate” Colpevoli, perché sospette. Infami, perché infamate. “They don’t deserve it any better” [Non si meritano niente di meglio], riporta il sottotitolo di una foto americana Scattata a Huè e raffigurante il cadavere di un vietnamita
[26] Il “ricatto”, la minaccia con la violenza e con il “se non, allora”, è permesso solo (sicuramente richiesto) quando si pretende da qualcuno che compia un atto immorale, o nel caso in cui si venga minacciati per non aver accettato le condizioni poste da un criminale (ad esempio l’uccisione dei familiari). Il ricatto è permesso esclusivamente come “contro-ricatto”.
[27] L’amico di Anders che pronunciò la frase in questione è Robert Jungk [NdT].
[28] Charles Meunier, in “Le Canard Dèchainé”, febbraio 1986, Montrèal; citato in “Forum”, dicembre 1986, Vienna, p. 24.
[29] Mentre scrivo queste parole penso con malinconia e con profondo rispetto al mio malinconico amico Jean Améry. Poco prima di suicidarsi, Jean mi aveva confessato che gli era insopportabile pensare al fatto che (sebbene avesse rischiato abbastanza spesso la propria vita) non fosse mai riuscito a superare i propri scrupoli, minacciando di morte coloro che gli avrebbero dato la caccia. Insomma egli si pentiva, e forse a ragione, per il suo essere-rimasto-morale.
[30] Naturalmente non mi riferisco a persone come Améry. Améry si è pentito molto di non aver mai combattuto il nemico con le armi, quindi di non averlo mai messo in pericolo di vita. Ma ha più volte rischiato la propria in azioni pericolosissime (ad esempio con azioni di volantinaggio).
[31] Il fatto che Rostow abbia pubblicato giustamente questa dichiarazione su “Playboy” conferisce ad essa una particolare, provocante attrattiva. A playboy indeed! [Un vero playboy!].
[32] Un tale “andare alla malora al posto di un altro” è diventato usuale già 42 anni fa. Come è noto, esso si è imposto con l’inizio dell’era atomica: le vittime di Hiroshima e di Nagasaki in verità sono perite al posto dei russi sovietici, a cui con l’indice alzato si doveva mostrare che cosa sarebbe potuto “capitare loro” if they didn’t behave [se non s fossero comportati bene].
[33] Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato I, p.187ss.