Carlo Formenti | La riscossa dei tecnoentusiasti del Web. Alcune riflessioni critiche
Nel 2011 pubblicai un saggio [1] nel quale sostenevo la tesi secondo cui la Nuova Economia si fonda sullo sfruttamento del lavoro gratuito di miliardi di utenti della Rete. Un lavoro che innescò meno polemiche di quanto mi aspettassi, perché, evidentemente, avevo sfondato una porta aperta. Infatti oggi quella tesi è ampiamente condivisa, benché se ne traggano conseguenze divergenti sul piano economico, politico e ideologico. Uno dei paragrafi del terzo capitolo si intitolava I guru pentiti rileggono McLuhan e analizzava, fra gli altri, il pensiero di Nicholas Carr, Jaron Lanier e Sherry Turkle, tre autori che, già ardenti fautori della rivoluzione digitale, avevano successivamente maturato una visione più critica degli effetti di Internet su economia, società e cultura.
Oggi i motivi per riflettere sugli effetti indesiderati delle nuove tecnologie sono aumentati esponenzialmente: basti pensare alla messa in opera di quella gigantesca macchina di spionaggio globale di cui siamo venuti a conoscenza grazie all’ex contractor nella Nsa, Edgar Snowden. Tuttavia i pentimenti non sono aumentati; al contrario: fatta eccezione per alcuni casi, come quello di Evgenij Morozov, che ha il merito di avere demolito le tesi che esaltano il ruolo “democratizzante” della Rete, siamo di fronte a una riscossa dei tecnoentusiasti.
Anche autori lucidamente consapevoli di alcuni gravi effetti negativi delle tecnologie di Rete sembrano convinti del fatto che, alla lunga, la rivoluzione digitale risolverà più problemi di quanti ne stia creando. In questo articolo analizzerò in particolare tre autori – Tyler Cowen, Jeremy Rifkin, Jaron Lanier – che, pur partendo dalla presa d’atto della sparizione delle mansioni lavorative di livello intermedio, finiscono per delineare altrettante, improbabili tecnoutopie.
Il “peccato originale” comune alle loro visioni consiste, a mio avviso, nell’attribuire alla tecnica in quanto tale (ignorandone le sovradeterminazioni da parte del modo di produzione capitalistico, dei sistemi politici e giuridici e, soprattutto, dei rapporti di forza fra classi sociali) il ruolo di deus ex machina dei processi storici. Cowen scrive “Saranno le macchine a dire a noi economisti quali regolarità si nascondono dietro ai fenomeni economici” [2] ; a sua volta Rifkin esprime così il suo tecnodeterminismo: “Se una cultura viene creata dalle élite o dalle masse dipende largamente dalla cultura del medium” [3]; infine Lanier, che pure è il più critico dei tre, afferma: “Sono le invenzioni a rendere il futuro diverso dal passato” [4]. Analizzando le visioni utopistiche del terzetto, occorrerà dunque tenere in conto questo loro comune handicap epistemologico.
A rendere interessante il contributo di Cowen è il fatto che il lettore di sinistra, da un lato, trova in esso conferma alle più nere previsioni in merito all’impatto delle tecnologie digitali sul lavoro, dall’altro lato, viene spiazzato dal fatto che è proprio questo ad apparire positivo agli occhi di Cowen, il quale, da conservatore radicale qual è, vede nella crisi del mondo tradizionale del lavoro l’opportunità di costruire una società rigidamente gerarchica, fondata su una logica “ipermeritocratica”. Pur sostenendo che continua a valere l’assunto secondo cui le macchine creano lavoro non meno di quanto ne distruggano, Cowen riconosce che oggi esse creano posti di lavoro diversi da quelli del passato e danno vita a nuove categorie di vincenti e perdenti. Il mercato del lavoro del futuro, sostiene, vedrà tre fasce di lavoratori: quelli bravi a lavorare con le macchine intelligenti, quelli dotati di competenze complementari alle macchine e infine “lo scarto”, cioè le persone “superfue” che saranno rimpiazzate dalle macchine. Costoro saranno perlopiù soggetti privi di un adeguato livello di formazione (per adeguato si intende l’aver conseguito almeno un master o un posdoc), ma non solo: anche gli scienziati che non operano nel campo “giusto” (leggi quelli che hanno sprecato il loro tempo a formarsi nel settore delle scienze umane!) potrebbero presto trovarsi senza lavoro.
E nell’inferno degli inutili sprofonderà anche buona parte di quella middle class su cui gli Stati Uniti hanno costruito il loro mito di agiatezza economica e stabilità politica e sociale. Non a caso il titolo del libro di Cowen è Average is over, che potremmo tradurre con “tutto ciò che sta nel mezzo non ha futuro”. A sostegno, Cowen cita, fra gli altri, il seguente dato: il 60% dei posti di lavoro persi durante la recessione sono quelli che garantivano salari medi, mentre il 73% di quelli aggiunti dopo la recessione sono nei settori a bassi salari, per cui è evidente che non siamo di fronte a un effetto congiunturale della crisi bensì al prodotto di un cambiamento strutturale. Le forze che lo provocano sono, nell’ordine: la crescente produttività delle macchine intelligenti, la globalizzazione economica e la rapida divaricazione fra settori stagnanti (la “vecchia economia” fondata sui beni di consumo durevoli) e settori a grande dinamicità (la “nuova economia” di Internet Company e imprese hi tech). Se la produttività delle macchine intelligenti sostituisce chi sta in mezzo, chi si salva? Quelli che, sapendo usare bene le macchine intelligenti, potranno accontentare i nuovi padroni, i quali sono sempre più abili nel riconoscere tali capacità e nel misurarne la produttività, così come sono sempre più abili nel misurare la (scarsa) produttività di chi non ci sa fare con le macchine, cioè di tutti coloro sui quali – considerati i costi di assunzione crescenti dovuti ad assicurazioni sanitarie, salario minimo e consimili laccioli “assistenziali” – non vale più la pena di investire.
Cowen ci regala poi altre tre considerazioni interessanti: 1) spiega che le donne conteranno sempre di più dei maschi perché sono più coscienziose, obbediscono di più e non nutrono risentimento (sintesi perfetta di cosa si intenda per “femminilizzazione del lavoro”); 2) prevede che assisteremo a una forte espansione dei servizi alla persona, perché i perdenti dovranno campare vendendo i propri servigi ai vincenti; 3) infine smonta il mito dei freelancer: non aumentano perché crescono il talento e la propensione all’autoimprenditoria, ma perché sempre meno gente riesce a trovare lavori remunerativi.
Infine l’“utopia”: in questo mondo ipermeritocratico, in cui i più resteranno ai margini, servirà un nuovo contratto sociale per indurre la maggioranza ad accettare salari stagnanti o decrescenti, mentre la minoranza del 10% godrà di ricchezze e elevata qualità di vita. Come tenere a bada gli “sfigati”? Tagliando la spesa pubblica (soprattutto nel settore dell’assistenza sanitaria); riducendo i debiti pubblici e privati grazie alla compressione dei consumi “superflui” (soprattutto quelli dei poveri!); facendo accettare una moderata pressione fiscale ai ricchi per finanziare un’edilizia popolare che garantisca abitazioni a buon mercato agli esclusi. Grazie a queste strategie (e alla globalizzazione che consente di importare beni e servizi a basso costo) i perdenti avranno meno servizi sociali ma più contante in tasca, e vivranno felicemente (!?) in ambienti urbani più simili a certe metropoli del Brasile e del Messico (con migliori dotazioni tecnologiche e più sicurezza) che alle attuali città nordamericane. L’utopia di Cowen è, in sostanza, una versione di destra di quella “brasilianizzazione dell’Occidente” di cui parla, da un punto di vista opposto, un noto libro di Saskia Sassen [5] .
Con Rifkin entriamo in tutt’altro ordine di discorso. Il paradosso è che questo autore, da un lato, rovescia l’ottimismo di Cowen sul tema della disoccupazione tecnologica, in quanto sostiene che le nuove tecnologie distruggono irreversibilmente i posti di lavoro esistenti senza crearne di nuovi, dall’altro lato prospetta visioni rosee in cui di questi posti di lavoro non avremo più bisogno. Più ottimista del Marx autore di improbabili descrizioni di una società comunista in cui gli esseri umani potranno dividere la loro giornata fra poche, gradevoli ore di lavoro, meditazioni filosofiche, creazioni artistiche e attività ludico-conviviali, Rifkin sogna a sua volta – citando però Keynes invece di Marx – un futuro in cui le macchine produrranno in abbondanza beni e servizi quasi gratuiti, liberandoci da fatiche e preoccupazioni pecuniarie e consentendoci di dedicare tutto il nostro tempo all’arte del vivere.
Il deus ex machina che consentirà di realizzare tale miracolo è l’Internet delle Cose, cioè quella Rete distribuita in cui tutto (computer, ogni genere di medium, satelliti, telecamere fisse e mobili, automobili, elettrodomestici, impianti di riscaldamento e refrigerazione, abitazioni, uffici, robot industriali, “abiti intelligenti” e quant’altro) verrà integrato nella grande Rete e messo al lavoro per produrre l’inesauribile cornucopia dei Big Data, materia prima di processi produttivi in cui il costo marginale di ogni copia addizionale di prodotto sarà sostanzialmente zero. E il capitalismo? Visto che in questa situazione non sarà più possibile realizzare profitti, si estinguerà pacificamente (Rifkin fissa addirittura una data: la dipartita è prevista attorno al 2050). Poco importa che il mondo reale in cui viviamo sia dominato da un pugno di corporation che generano immani profitti, o che l’economia dell’abbondanza di cui parla Rifkin esista, nella migliore delle ipotesi, in qualche settore dell’industria culturale fondato sulla riproduzione di file audio e video, mentre una marea di merci materiali continuano a essere sfornate dalle industrie dei Paesi in via di sviluppo (al prezzo dello spaventoso sfruttamento di centinaia di milioni di operai), le quali operano in un’economia che continua a rispettare il principio di scarsità. Rifkin vede solo stampanti in 3D che fra poco potranno creare qualsiasi cosa dal nulla, democratizzazione della finanza (!?) attraverso il crowdfunding, prosumer interconnessi attraverso l’architettura aperta e distribuita della Rete che permette loro di fare concorrenza ai monopoli [6] persino sul terreno della produzione/distribuzione di energia (naturalmente rigorosamente “verde”).
Insomma: il capitalismo tramonta mentre sorge l’astro dei Collaborative Commons (il tutto senza che i dominatori del mondo muovano un dito per contrastare la propria fine!). Del resto, argomenta Rifkin, le cose stanno cambiando così rapidamente che niente e nessuno potrebbe fermarle, anche perché stiamo rapidamente perdendo la comprensione delle stesse cause del mutamento. Un esempio? Noi siamo convinti che la crisi sia il prodotto di fattori come il costo energetico elevato, la demografia, il debito pubblico e privato, la speculazione finanziaria, ecc., invece, spiega Rifkin, c’è un’altra causa nascosta che potrebbe spiegare il fenomeno: con l’aumento dei beni e dei servizi il cui costo tende a zero i profitti calano e il Pil comincia a svanire, sempre meno gente ricorre al mercato per soddisfare i propri bisogni, e con il crescere dei prosumer sempre più attività economiche migrano dall’economia di scambio all’economia dei Collaborative Commons [7] . Che a provocare la crisi siano le economie “alternative” – la cui crescita è piuttosto un effetto collaterale della crisi, in quanto una delle tante declinazioni dell’arte di arrangiarsi – è un’ipotesi talmente bizzarra da sforare il ridicolo. Del resto, questa infelice battuta rifette un vezzo tipico di quell’ideologia “postmateriale” cara agli intellettuali postmoderni che preferiscono ignorare la cruda realtà di vita delle classi inferiori; quelli che, ironizza Karl Heinz Roth, coltivano l’ideologia della decrescita e praticano gli stili di vita “liberal” di gruppi qualificati e benestanti [8]. Con Lanier torniamo – almeno per quanto riguarda la pars destruens del suo saggio – con i piedi sulla terra. In primo luogo, Lanier rilancia il tema del lavoro gratuito dei prosumer come fonte del profitto dei colossi della New Economy. Il fatto che la quantità di beni e servizi messi liberamente a disposizione sulla Rete cresca esponenzialmente, argomenta, distoglie l’attenzione dal fatto che una ristrettissima classe di persone si arricchisce grazie a questa fìnta “gratuità”. In proposito cita, fra gli altri, l’esempio di Instagram [9]: com’è possibile, si chiede, che una società che impiega tredici persone sia stata valutata un miliardo di dollari: forse perché quelle persone hanno una produttività altissima? No, risponde, ciò succede grazie al valore creato dai milioni di utenti che contribuiscono al network senza essere pagati.
Ad avvantaggiarsi della manna di dati messi a disposizione gratuitamente dagli utenti, sono quelli che Lanier definisce Server Sirena, vale a dire le poderose concentrazioni di server che consentono a Google, Facebook, Amazon, Apple ed altri di immagazzinare i Big Data, cioè quella che è la materia prima dei loro modelli di business. Perché Server Sirena? Perché prima seducono l’utente facilitandogli l’ingresso nei loro regni e offrendogli servizi “gratuiti”, poi impongono a chi si lascia sedurre modalità di interazione che ne rendono prevedibili (e quindi manipolabili) i comportamenti; infine creano un “effetto rete” che scoraggia le velleità di evasione di chi si è fatto catturare (“tanta più gente entra in Facebook tanto più diffìcile sarà che ne possa uscire” [10] ). Inoltre Lanier coglie con lucidità la relazione fra Server Sirena e finanziarizzazione: gli schemi finanziari altamente tecnologizzati – derivati, High Frequency Trading, hedge fund, ecc. – non funzionerebbero senza poter attingere ai Big Data [11].
Per tutte queste ragioni i Server Sirena stanno creando un’economia che non è, come sostiene Cowen, ipermeritocratica, bensì una winner take all economy, una società in cui i vincitori prendono tutto, caratterizzata dalla crescita vertiginosa delle disuguaglianze e dall’indebolimento della classe media. Cowen mette nella stessa barca padroni, manager e creativi (quelli che ci sanno fare con le macchine), invece Lanier vede chiaramente come i destini dei creativi si dividano fra uno strato superiore, cooptato nell’élite, e uno strato inferiore che sprofonda con gli altri membri della middle class nell’inferno degli esclusi. E, diversamente da Cowen, capisce che l’inabissamento della classe media rischia di trascinare nella rovina anche i vincitori, visto che minaccia di far crollare la domanda aggregata: “Stiamo dando vita a una situazione in cui nel lungo periodo una tecnologia migliore implicherà solo più disoccupazione o un colpo di coda socialista” [12].
Mettiamo, per ora, fra parentesi quell’accenno al colpo di coda socialista, e concentriamoci invece sull’errore di prospettiva che, secondo Lanier, gli entusiasti dei Collaborative Commons commettono: il paradosso è che le vecchie volpi di Wall Street e i giovani elettori del Partito Pirata si ritrovino a braccetto per cantare il ritornello secondo cui tutto (denaro, informazioni, beni e servizi) deve “fluire liberamente” [13]. È un’alleanza innaturale che giova a una sola parte: mentre gli “alternativi” giocano alla libera condivisione dei contenuti, chi sta in cima alla piramide sfrutta il loro impegno libertario per accumulare sempre più ricchezza e potere (“l’apertura, ironizza Lanier, è già compromessa non per mano dei vecchi governi e della vecchia economia che odiano la neutralità della rete, bensì delle nuove corporation che più di ogni altro la amano” [14]).
Eccoci infine all’utopia. Come si è visto, Lanier non auspica un ritorno del socialismo; continua invece a coltivare il vecchio sogno americano di un mercato e di un capitalismo “buoni”, dove a tirare le fila non siano i super ricchi, ma una robusta classe media. E naturalmente – visto che anche lui pensa, come Cowen e Rifkin, che a fare la storia siano le macchine – è alla tecnica che affida il compito di rianimare una classe media moribonda. Come? Semplice: basterebbe attivare una procedura che imponga, ogniqualvolta vengano caricati nuovi dati su un server da un dispositivo locale, di memorizzarne la provenienza. In questo modo il valore creato dalla massa degli utenti di cui i Server Sirena si appropriano gratuitamente non sarebbe più anonimo: ogni frazione di quel valore potrebbe infatti essere attribuita agli individui che hanno effettivamente contribuito a produrla, ma soprattutto – ed è questa la pensata di Lanier – ogni singolo produttore potrebbe usufruire di un micropagamento per il proprio contributo. Nessuno pretenderebbe più di ottenere beni e servizi gratuiti, se sapesse che viene pagato per tutti i dati che ha prodotto nel corso della vita; nascerebbe così una nuova economia di mercato “democratica”, un’economia universale diffusa in grado di assicurare una vita dignitosa alle classi medie, le quali tornerebbero a consumare e, quindi, a garantire prosperità e profitti anche a quella élite di super ricchi che, per cecità e avidità, rischiano di rovinare se stessi assieme al resto del mondo.
A conclusione di questa rassegna sulle nuove tecnoutopie made in Usa, caratterizzate dalla convinzione di poter affrontare le sfide della rivoluzione digitale trasformando in altrettante soluzioni le cause della crisi, non mi resta che esprimere il mio “antiquato” punto di vista neomarxista e neo operaista. Il che significa analizzare quanto sin qui descritto dal punto di vista dei rapporti di forza fra le classi sociali. Che l’analisi di Cowen rispecchi gli interessi di dominio delle nuove oligarchie – economiche, politiche e tecnostrutturali ad un tempo come ho altrove argomentato [15] – è affermazione quasi banale, visto che è lo stesso autore a rivendicare tale ruolo, vagheggiando l’avvento di una società rigidamente gerarchica fondata sul “merito”.
Viceversa Rifkin e Lanier esprimono entrambi il punto di vista di un particolare strato di middle class, vale a dire di quei knowledge workers che fino a qualche anno fa amavano presentarsi come i protagonisti di una rivoluzione pacifica che avrebbe sostituito il capitalismo con un’inedita economia della conoscenza fondata sulla condivisione dei beni comuni. La differenza è che Rifkin, rifiutandosi di prendere atto del fallimento economico, politico e culturale di quel progetto – spazzato via dalla rapida concentrazione del potere nelle mani di monopoli hi tech, capitale finanziario e nuove oligarchie politiche -continua come se niente fosse a esaltare un mondo che non esiste più, Lanier, al contrario, prende lucidamente atto della catastrofe e delle sue cause ma, meno lucidamente, spera di poter far girare al contrario le lancette del tempo, restituendo un ruolo da protagonista alle classi sociali intermedie cui lui stesso appartiene. Ma è abbastanza intelligente per intuire che, se l’evoluzione dell’attuale sistema verrà lasciata alla sua spontaneità, finirà per risvegliare il vecchio spettro socialista. Che è esattamente ciò che si augura chi scrive.
Note
[1] C. Formenti, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.
[2] T. Cowen, Average is over, Penguin, New York 2013, p. 223 dell’edizione digitale.
[3] J. Rifkin, The Zero Marginal Cost Society, Palgrave Mcmillan, New York 2014, p. 177 dell’edizione digitale.
[4] J. Lanier, La dignità ai tempi di Internet, il Saggiatore, Milano 2013, pos. 1975 (nell’edizione digitale non è disponibile la numerazione delle pagine).
[5] Cfr. S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Torino, Einaudi 2008.
[6] Rifkin mutua questo concetto da Y. Benkler (cfr. La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007).
[7] Cfr. Op. cit, pp. 19-20.
[8] Cfr. K.H. Roth, Z. Papadimitriou, Manifesto per un’Europa egualitaria, Derive Approdi, Roma 2014.
[9] Cfr. op. cit. pos. 35 (nell’edizione digitale non è disponibile l’indicazione della pagina).
[10] Ibidem, pos. 3.319.
[11] Cfr. Ibidem, pos. 416: “la piaga dei titoli tossici e la crescita insensata dei servizi finanziari sarebbero state impossibili, senza la disponibilità di enormi masse di calcolo capaci di immagazzinare e analizzare tutti i dati necessari per fregare le persone”. E le persone si fregano creando dal nulla denaro virtuale che altro non è se non una scommessa sulle intenzioni future dei prosumer e sui loro impegni di pagamento (debitamente cartolarizzati e immessi nel circuito finanziario globale).
[12] Ibidem, pos. 78.
[13] Ibidem, pos. 722.
[14] Ibidem, pos. 3.299.
[15] Cfr. C. Formenti, Utopie letali, Jaca Book, Milano 2013.