Laboratorio Marxista | La liberazione della donna è la liberazione di tutti
Volantino, 2xA4, PDF
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La posizione delle donne e degli uomini nella comunità è il prodotto di relazioni sociali che si sono sviluppate storicamente attraverso la trasformazione delle diverse forme economiche e politiche. Il ruolo della donna è dunque un prodotto storico-sociale e la trasformazione di questo ruolo può prodursi solo con la trasformazione della società nel suo complesso.
Non si può, dunque, fare a meno di partire dall’analisi del tipo di società in cui viviamo – dunque una formazione economico-sociale di tipo capitalistico – che si fonda essenzialmente sullo sfruttamento di una classe su un’altra. Dobbiamo anzitutto capire che esiste una classe sfruttata – fatta di uomini e di donne – e una classe che sfrutta – anch’essa composta da uomini e donne –. Questo è l’elemento basilare che ci fa collocare la contraddizione tra i sessi all’interno della contraddizione tra lavoratori e capitalisti. Chi non parte da questa premessa finisce, volente o nolente, a discutere di rapporti uomo-donna con Angela Merkel o Hillary Clinton.
La liberazione della donna deve essere opera della donna stessa; deve essere il prodotto di una lotta e non può essere il frutto di una elargizione magnanima. In questa lotta, che arricchisce la più generale lotta per l’emancipazione sociale, le donne hanno bisogno dell’unità con le donne (e gli uomini) della propria classe per lottare contro una società in cui esse sono vittime dello sfruttamento di uomini e di donne.
Le donne delle classi dirigenti chiedono più potere all’interno di un sistema che le favorisce e non possono porsi nell’ottica della liberazione della donna in quanto donna; anzi, tendono ad emulare i normali comportamenti di potere. Al contrario, per le donne delle masse popolari l’obbiettivo dovrebbe essere quello dell’abbattimento di una società in cui esse vivono la duplice oppressione di donne e di proletarie.
Riflettiamo per un attimo sulla situazione della donna rispetto al mondo del lavoro. Non c’è dubbio che le donne subiscono per prime e in misura maggiore gli effetti della attuale fase di crisi economica del sistema capitalista. Infatti, gli attacchi durissimi portati allo “stato sociale” e alle condizioni di lavoro hanno conseguenze pesantissime su tutti i lavoratori, ma in particolar modo sulle donne. Il processo di ristrutturazione e precarizzazione del mercato del lavoro è stato portato avanti dai vari governi che si sono succeduti negli anni e ha prodotto l’istituzionalizzazione della massima flessibilità e della massima precarietà del lavoro, portando con sé lo smantellamento di una serie di conquiste che i lavoratori e le lavoratrici avevano conquistato nel ciclo di lotte dei decenni precedenti.
Le donne sono diventate i soggetti preferiti del supersfruttamento attraverso contratti di lavoro atipici come il lavoro interinale o il part-time che molte sono portate a richiedere non allo scopo di liberare tempo per sé stesse, ma solo per poter sopportare la gestione del doppio carico di lavoro, al di fuori e all’interno della famiglia. Quindi: doppio sfruttamento per le donne salariate e lavoro gratuito per le donne che “restano a casa.”
Senza parlare poi del fatto che l’aumento della pressione economica porta con sé l’aumento della violenza sulle donne (e magari anche la diminuzione delle denunce, le due cose non sono affatto in contraddizione). Pensiamo alle molestie sessuali sui posti di lavoro: quanto più il mercato del lavoro è chiuso alle donne, tanto più drammatica diventa la “scelta” di denunciare i datori di lavoro e i colleghi violenti o molesti. Non c’è bisogno di dire che i mass media, con i modelli “culturali” che propongono, svolgono un ruolo determinante nell’indurre le donne alla rassegnazione.
Il capitalismo cerca di suggerire una particolare naturalità del ruolo sociale della donna. Certo, solo le donne possono essere madri, ma non è affatto “naturale” che la donna debba occuparsi (spesso da sola) del lavoro domestico, dell’educazione dei figli o dell’assistenza agli anziani. Questa ruolo è purtroppo molto radicato nella società e conduce a non considerare tutto questo lavoro, svolto gratuitamente dalla donna, come un vero e proprio lavoro. Insomma, è l’uomo che lavora; la donna “sta a casa”. Questo tipo di ideologia tende a rafforzarsi nelle fasi di crisi economica, in cui le fabbriche chiudono e i disoccupati aumentano. E le donne sono i primi soggetti che vengono espulsi dalla produzione, dopo essere state impiegate principalmente in lavori precari e con salari inferiori che ne alimentano la dipendenza dall’uomo e dallo Stato. Ecco che allora l’ideologia dominante tenta di giustificare questo “ritorno a casa” ponendo al centro del mondo la famiglia e il “meraviglioso” ruolo che in essa avrebbe la donna, “padrona della casa”, “angelo del focolare domestico”.
Si torna a legiferare sui corpi, sulle scelte e sui comportamenti delle donne. Si riconosce la tutela giuridica dell’embrione per attaccare il diritto di autodeterminazione sulla maternità; si approvano leggi sulla procreazione medicalmente assistita che concedono l’accesso alle tecniche di fecondazione solo alle coppie sposate o conviventi.
Non c’è liberazione della donna se non in una società socialista: questo è il senso che diamo alla lotta delle donne. Comuniste dunque, anche in quanto donne, per realizzare quella liberazione che dentro la società della divisione del lavoro e della divisione in classi non può realizzarsi.
E questa è la ragione per cui le donne comuniste non si pongono solamente come antagoniste all’esistente: lottano contro, certo, contro lo sfruttamento, contro il patriarcato, contro la violenza, contro la collocazione in ben precisi ruoli sociali e culturali…, ma lottano anche per “abolire lo stato di cose presenti” e per costruire un mondo nuovo, di liberi ed uguali: un mondo socialista.
Parlare di liberazione della donna come di un obbiettivo raggiungibile all’interno di una società capitalista non è possibile; solo nell’ambito di una liberazione complessiva di tutti gli oppressi, uomini e donne, sarà possibile incamminarsi sulla strada di una effettiva liberazione della donna.
E questo è un processo rivoluzionario non solo perché cambia la situazione dal punto di vista degli equilibri di potere tra le classi, ma anche perché offre un impulso straordinario – rivoluzionario, appunto – alla trasformazione culturale e della coscienza.
Dopo la Rivoluzione di Ottobre – avvenuta nel 1917 – le donne russe ottennero conquiste che le donne del resto del mondo avrebbero ottenuto solo molti anni dopo: per esempio, la prima donna ministra al mondo fu stata Aleksandra Kollontaj all’indomani della rivoluzione, mentre in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1947, dopo la Resistenza; in Russia le donne ottennero il divorzio nel 1917 e l’aborto nel 1920; in Italia dovremo attendere gli anni ’70-’80.
Questa, più di tante parole, è la dimostrazione di cosa significa, anche per i diritti delle donne, una rivoluzione comunista. Fatti e non chiacchiere.
Toscana del nord, agosto 2014