Maurizio Brignoli | Sul modo di produzione dominante in Cina. L’involuzione dell’esperienza maoista nella fase di Deng
Da La contraddizione n.54, Maggio-Giugno 1996
Di fronte alle difficoltà che si incontrano nel tentativo di analizzare una realtà complessa ed in rapido movimento come quella cinese, vorremmo esperire un tentativo di ricorrere ad alcuni elementi teorici della tradizione scientifica marxista per delineare un quadro teorico che permetta di rendere meglio intelligibili i dati concreti. Avanziamo qui alcune ipotesi interpretative da intendersi come proposte di ricerca e ovviamente passibili di ulteriori approfondimenti e modifiche. Richiamiamo brevemente ora gli estremi teorici cui faremo riferimento.
1. Il rapporto fra i concetti di “formazione economica della società” e di “modo di produzione”
Nell’Introduzione del ‘57 leggiamo che “in tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango ed influenza a tutte le altre, come del resto anche i suoi rapporti assegnano rango e influenza a tutti gli altri. È una luce generale in cui sono immersi tutti i colori e che li modifica nella loro particolarità. È un’atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto ciò che da essa emerge” [1]. Lo strumento che illumina i rapporti storicamente determinati che si vogliono analizzare e il concetto di “modo di produzione” (come rapporto dialettico fra forze produttive e rapporti di produzione) [2]. Il quale permette di superare la confusione fra elementi generali della produzione validi per ogni forma storica e le leggi particolari che definiscono un modo di produzione determinato.
Ora il concetto di modo di produzione intrattiene uno stretto rapporto con quello di “formazione economica della società” pur non identificandosi con esso. La soluzione più appropriata ci pare quella che, partendo dal concetto di modo di produzione come astrazione determinata e reale, porti ad individuare nello studio di una concreta e determinata formazione economica della società, colta nella sua totalità, la compresenza e la combinazione di diversi modi di produzione. Il concetto di formazione economica della società [3] ci permette allora di cogliere la compenetrazione e la relazione fra i diversi rapporti di produzione e forze produttive che caratterizzano i differenti modi di produzione e che albergano in una determinata struttura sociale. Ora non è necessario che determinate forze e rapporti di produzione conoscano un’universalizzazione all’interno della formazione economica della società storicamente determinata, ma all’interno di questa un modo di produzione è dominante e determina un rapporto gerarchico nei confronti della combinazione concreta dei diversi modi di produzione, che vengono altresì riempiti di un contenuto nuovo. Questo modo di produzione (e riproduzione) del rapporto sociale ci permette anche di delineare le linee di sviluppo e di evoluzione della formazione economica della società in considerazione.
“Ma che cosa significa dunque, la parola transizione? Non significa, quando la si applichi all’economia, che in quel determinato regime, vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo?… 1) l’economia patriarcale… 2) la piccola produzione mercantile… 3) il capitalismo privato 4) il capitalismo di Stato 5) il socialismo. La Russia è cosi grande e cosi varia, che tutti questi differenti tipi economico-sociali vi si intrecciano strettamente. E proprio in ciò sta il carattere originale della nostra situazione. Ma, ci si domanda, quali sono gli elementi che predominano?” [4]. Nel caso in cui la conflittualità fra i diversi modi di produzione non si risolva con il predominio di uno di questi, nel caso in cui all’interno di una formazione economica della società, un modo di produzione non abbia ancora subordinato irreversibilmente gli altri, siamo in presenza di una formazione economica della società che possiamo definire di transizione.
All’interno di una formazione economica della società diversi sono gli aspetti e i gradi di sviluppo. Ciò che vogliamo sostenere è la presenza di un modo di produzione capitalistico all’interno della Repubblica Popolare Cinese e vedere se questo ha le potenzialità per diventare, oppure se lo è già diventato, il modo di produzione dominante.
2. Il periodo delle riforme
Che rapporto è possibile delineare fra il periodo delle riforme e quello del governo di Mao – dal 1953 (inizio del primo piano quinquennale) al 1976 – che lo ha preceduto? Una chiave di lettura corretta ci pare essere questa: un vero decollo economico c’è stato dopo il 1978 con le riforme, ma questo ha trovato le sue basi e le sue condizioni di riuscita nei fattori produttivi costituitisi ed accumulatisi nell’epoca maoista, la quale ha garantito le campagne di sufficienti infrastrutture ed ha creato una base industriale fondamentale, forse eccessivamente squilibrata verso l’industria pesante, ma che non aveva comunque impedito lo sviluppo di un’industria leggera.
La fase riformistica ha conosciuto diversi periodi [5]. Tutto ha inizio con le decisioni adottate nella riunione del terzo plenum dell’XI Comitato centrale del Pcc (18-22 dicembre 1978) che sancisce la vittoria del gruppo legato a Deng e che avvia una radicale trasformazione dell’economia maoista che aveva garantito una forte crescita però prettamente estensiva. L’elemento di fondo è riassumibile in queste frasi di Deng: “Le impetuose lotte di classe su larga scala a carattere di massa sono praticamente giunte a conclusione… È necessario riformare la struttura di gestione economica supercentralizzata… introdurre tecnologie e attrezzature avanzate, sviluppare la cooperazione economica con altri paesi” [6].
Ulteriore momento di passaggio può essere individuato nel XIII Congresso, apertosi il 25 ottobre 1987, che vede sostanzialmente prevalere la linea riformista. Zhao viene eletto segretario del Pcc e nel suo rapporto teorizza lo “stadio primario del socialismo” che corrisponderebbe all’”economia mercantile pianificata e socialista”, fase in cui “la lotta di classe continuerà ad esistere entro certi limiti per un lungo tempo a venire, ma non è più la contraddizione principale” [7].
L’ultima fase è quella che sta sviluppandosi tuttora e che porta all’elaborazione della teoria dell’economia socialista di mercato. Il XIV Congresso del Pcc (ottobre 1992) chiude la lotta sulle riforme economiche e nella relazione finale si sostiene che negli ultimi quattordici anni è stata incominciata una nuova rivoluzione, il cui obiettivo consiste nel cambiare fondamentalmente le strutture economiche che hanno intralciato lo sviluppo delle forze produttive e di impiantare una nuova e rigorosa struttura economica socialista [8]. Con l’VIII Congresso Nazionale del Popolo (marzo 1993) giungiamo all’inserimento del concetto di “economia socialista di mercato” nella Costituzione in sostituzione del principio di economia pianificata.
I dati economici nel periodo delle riforme hanno fatto registrare una crescita prorompente (tasso di crescita annuo medio dal 1979 al 1995: 9%).
3. Forme di proprietà e rapporti di produzione nella Cina contemporanea
Studiosi anche marxisti hanno sostenuto che la permanenza di un sistema socialista nella Rpc vada individuata nella presenza di un ancora ampio settore di proprietà pubblica. Pur tenendo presente la molteplicità di forme di proprietà prevista dagli statuti della Rpc cerchiamo di individuare gli elementi principali.
Agricoltura. Iniziamo il nostro excursus dal settore che per primo è stato investito dal processo di trasformazione. La base delle riforme sta nel capovolgimento della politica maoista: esse trovano il loro consenso nelle regioni più ricche del sud e della costa, in grado di meglio sfruttare le forze e le capacità produttive, nonché i capitali, accumulatesi precedentemente e ostacolate dall’egualitarismo maoista. Questi aumenti di produttività e di reddito, i prezzi ed i guadagni sono saliti del 60%, hanno permesso una ritirata dello Stato dal settore agricolo. Ciò ha provocato delle drastiche gerarchizzazioni all’interno del mondo rurale, sia nell’ambito regionale, con la ricomparsa del bracciantato e dei contadini ricchi, sia fra provincia e provincia favorendo l’arricchimento del sud-est, che ha una terra più fertile ed e prossimo ai ricchi mercati urbani del Guangdong, e delle Zone Economiche Speciali (Zes).
Si può parlare di proprietà privata della terra nella Rpc? La terra è stata data in gestione diretta e quindi non in proprietà, ma di fatto, pur senza sancire questo principio, viene garantita la proprietà privata sui diritti di utilizzazione, di compravendita e di trasmissione in eredità degli appezzamenti. Siamo quindi di fronte ad una privatizzazione pur in presenza del principio della proprietà pubblica del suolo. Ma non solo l’introduzione del sistema di responsabilità familiare determina una diseguaglianza nei redditi e nelle ricchezze, ma i nuovi criteri (lèggi profitto) che guidano l’attività economica mirano all’economicità dell’impiego della forza-lavoro e portano quindi ad un’espulsione della manodopera in eccesso, stimata oltre i duecento milioni entro la fine del millennio, era precedentemente assorbita all’interno delle comuni. L’unità produttiva è la famiglia che opera come piccola azienda privata e viene così eliminato ogni controllo collettivo della produzione.
Lo sviluppo dell’industria rurale ha avvantaggiato solo un pugno di agricoltori più ricchi e intraprendenti. Più del 60% dei redditi provenienti da questo settore è percepito dal 10% della popolazione. Lo strato più povero invece riceve sostentamento solo dall’attività agricola, oltretutto danneggiata dalla progressiva scomparsa dei lavori collettivi. Un elemento positivo è determinato dal fatto che queste aziende quantomeno concorrono ad assorbire parte della manodopera in esubero (che con termine più scientifico è meglio chiamare esercito industriale di riserva).
Imprese di Stato. Nel settore statale è stato introdotto un sistema di responsabilità basato sui “contratti di gestione”, con il quale i dirigenti delle aziende garantiscono un determinato tasso di crescita e gestiscono liberamente buona parte dei profitti. Si opera sulla base del principio di separazione fra il diritto di proprietà e quello di gestione: le imprese di proprietà statale possono infatti essere affidate in gestione a singoli privati o cooperative. In modo ancor più radicale si è proceduto nei confronti del settore comprendente circa un milione di piccole imprese che sono state privatizzate completamente, tramite aste o cessioni in leasing, oppure trasformate in imprese a capitale misto o in cooperative. Lo stadio intrapreso è dunque quello della diluizione della proprietà pubblica.
In termini quantitativi che quota occupano ancora le imprese pubbliche? Questa è quantizzabile a seconda dei criteri che si adottano per la definizione di “imprese di Stato”. Nell’accezione più ampia sono meno del 50% (dieci anni fa erano ancora l’80%), ma in una più ristretta si riducono a controllare un terzo dell’economia (proporzione dunque simile a quella di alcuni paesi occidentali). Un altro elemento importante per capire verso quale direzione si stia avviando la formazione economica della società cinese e costituito dal fatto che un numero sempre più ampio di imprese di Stato di grandi dimensioni si sta trasformando in spa con l’emissione di azioni e obbligazioni che vengono negoziate nelle borse valori. In questo modo si va sviluppando sempre più un meccanismo di mercato capitalistico per determinare i rapporti di proprietà delle aziende statali.
Ora bisogna tener presente che le aziende statali sono basate sul sistema della danwei: non si tratta cioè solo di un’unità produttiva, ma vi sono uniti dei compiti di garanzia sociale (domicilio, servizi sanitari, istruzione, pensione, ecc.). Il nuovo corso tenderebbe invece ad eliminare questi oneri sociali dai compiti dell’azienda. Il problema e appunto determinato dalle possibili conseguenze. È a causa di questo timore che non si è ancora proceduto ad una massiccia privatizzazione delle aziende statali e la legge sul fallimento ha trovato scarsa applicazione. Il nuovo sistema di contratti di lavoro a termine prevede che la manodopera recentemente assunta non debba più godere della sicurezza del posto di lavoro e che debba rinunciare a buona parte delle garanzie sociali. Si procede dunque alla “precarizzazione” dei lavoratori. Per smantellare l’egualitarismo maoista, che non è comunque sinonimo di controllo sul lavoro e sul processo produttivo da parte dei lavoratori, ed aumentare la produttività si è fatto di nuovo ricorso ai premi di produttività ed al cottimo [9]. L’obiettivo è questo: combattere l’egualitarismo rivalutando gli incentivi materiali e porre in relazione gli aumenti salariali con aumenti di produttività [10]. Si viene specificando dunque una sempre più accentuata gerarchia di ruoli e corrispettivi salariali, equivalente a quella del settore privato, all’interno della struttura produttiva statale.
La precarizzazione dell’occupazione, l’espulsione di manodopera dalle campagne che si riversa verso i centri urbani, la mancanza di forme di controllo istituzionale stanno dando vita ad un’altra forma di mercato nella Rpc: quello del lavoro, che costituisce, insieme al mercato dei capitali, un elemento fondamentale del modo di produzione capitalistico e della corrispondente forma di mercato.
Quale destino in conclusione per le imprese di Stato? Buona parte di queste imprese sono in passivo ed in generale con un basso aumento della produzione (fra il 2 e il 5%) rispetto al settore collettivo (30%) e privato (80%). Nel 1995 il 40% delle industrie statali ha registrato un bilancio in passivo. Oltretutto se si dovesse riuscire a rallentare il tasso di crescita (nel tentativo di frenare l’inflazione a due cifre) dal 12% all’8%, come pare sia nelle intenzioni (nel ‘95 la crescita del Pil e scesa al 10,2% con un rallentamento del 7% dell’inflazione ora al 14,8), ciò porterebbe alla bancarotta un quarto delle imprese statali. Inoltre queste si troveranno a dover competere sempre più con imprese straniere e private assai più efficienti. Inoltre se la produttività della forza-lavoro è aumentata nel nono decennio del 7,6% annuo, secondo i dati della Banca Mondiale, quella del settore statale e aumentata “solo” del 5,2%. Per quanto riguarda le privatizzazioni sono necessarie alcune condizioni: le riforme dei prezzi devono avere pieno sviluppo, l’inflazione deve essere sotto controllo, sono necessari efficienti mercati azionari. Ora la dirigenza cinese sta proprio puntando a realizzare queste premesse.
Settore collettivo. La proprietà collettiva ha conosciuto uno sviluppo significativo soprattutto nel terziario e ancora di più nelle industrie rurali non occupate nell’agricoltura. Ad incrementare questo numero vanno poi le piccole aziende di stato cedute a collettivi o privati. Questo settore sta svolgendo un ruolo importante nel processo di “mercatizzazione” delle imprese di stato. Queste imprese, come sancito dalla Costituzione del 1993, non devono più accettare il piano. Come abbiamo già visto anche questo sistema tende a creare una gerarchizzazione ed una differenziazione di redditi e di classe. Per quanto riguarda le aziende rurali esse si appoggiano agli enti locali (villaggio, provincia, ecc.), ma, come già detto, operano completamente al di fuori di eventuali regolazioni di piano ed operano per conseguire e massimizzare profitti che vengono intascati dai membri. Anche in questo settore, tenendo soprattutto presente la pressione della disoccupazione, si verificano spesso abusi nei confronti dei lavoratori.
Il settore privato. Sviluppatosi inizialmente soprattutto nel terziario e nei servizi si sta diramando ora in ogni direzione. Abbiamo già detto delle imprese di Stato privatizzate (il 75% del settore commerciale) e dell’agricoltura. Ma quella che è importante è la legge, in vigore dal luglio 1994, che introduce le strutture tipo del mondo capitalistico (spa e srl) e che ha così sbloccato la via ad un’ampia estensione dell’attività privata. E questo vale, come già detto, anche per molte imprese statali. Si stanno avviando forme di privatizzazione, in conseguenza dell’abbandono del sistema della danwei , delle pensioni e delle assicurazioni individuali, già più avanti per quanto riguarda le abitazioni (e i mezzi di trasporto), per completare la rassegna con la fioritura anche di scuole private.
La disoccupazione e l’emigrazione dalle provincie interne (soprattutto di lavoratori dequalificati) formano un eccellente esercito di riserva per il settore privato (sia cinese, sia delle joint-ventures) che può così assumere, senza contratto di solito, e licenziare liberamente, impiegando manodopera minorile [11], con turni di lavoro fra le dodici e le sedici ore e la completa assenza di misure di sicurezza. A proposito comunque dei turni di lavoro, fissati nel maggio 1994 in otto ore al giorno per un massimo di 44 ore settimanali, il ministro del Lavoro Li Bayong ha dichiarato che non sara possibile estendere il provvedimento della settimana lavorativa di cinque giorni alle imprese private (che puntano invece a massimizzare i ritmi produttivi) [12]. Assenti i sindacati.
Se in alcuni casi i lavoratori (specializzati) delle imprese private guadagnano più di quelli del settore statale, bisogna tener presente che poco più della metà della retribuzione è costituita dal salario base, il resto sono premi di produttività. Coerentemente con l’estensione mondiale del processo di flessibilizzazione del lavoro. Resta comunque che la legge sul lavoro prevede che il datore di lavoro sia assolutamente libero di determinare i livelli e i metodi retributivi, ivi compreso il cottimo [13].
Il settore privato si va sempre più espandendo: secondo le statistiche ufficiali fra il ‘93 e il ‘95 e intervenuto per l’80% nella crescita economica totale. Ma ciò che è più importante sottolineare è la diversificazione di percentuali da provincia a provincia. Nei settori sudorientali e nelle Zes, dove questo settore è concentrato, la percentuale è molto più ampia e queste regioni sono proprio quelle che stanno svolgendo un ruolo trainante.
Investimenti stranieri. Gli investimenti stranieri sono saliti dai 27,5 mrd $ del 1993 ai 28,8 del 1994 ai 37 del 1995. È quindi evidente come la Cina faccia parte di quell’insieme di paesi asiatici a cui guarda, con grande interesse, il capitale monopolistico finanziario transnazionale. L’operazione di finanziamento dell’Asia è uno dei più grandi affari della storia dell’economia. Nel solo 1994 più di cento banche a capitale straniero (succursali) e compagnie finanziarie hanno iniziato ad operare nella Rpc con una disponibilità finanziaria di 11,8 mrd $; i prestiti sono saliti a 7,5 mrd $ alla fine del 1994, la maggior parte dei quali destinati a joint-ventures. Gli istituti finanziari stranieri hanno ottenuto un profitto netto di 92,6 mln $ nel 1994. Ma gli investimenti stranieri si stanno dirigendo anche verso il settore statale per quanto riguarda lo sfruttamento dei giacimenti di minerali, petrolio, carbone. È significativo che ciò non avvenga solamente nelle Zes, ma nelle regioni dello Xinjiang e della Mongolia interna.
Meno del 10% delle joint-ventures ha permesso la costituzione di rappresentanze sindacali e bisogna comunque ricordare come la legislazione riguardante gli investimenti stranieri sia molto generosa nel concedere ampie autonomie in materia di lavoro. Questo all’interno di quel processo di riallocazione produttiva che caratterizza la fase attuale del sistema capitalistico mondiale. Si è venuta ad instaurare una gerarchia di ruoli dirigenti e decisionali che vede ai primi posti i dirigenti stranieri, seguiti da quelli locali (meno pagati), per chiudere all’ultimo posto con la manovalanza cinese.
La borsa e il mercato azionario. Un ultimo punto che vorremmo richiamare per quanto riguarda le forme di proprietà sviluppatesi nella Rpc riguarda la comparsa di un settore estremamente importante in un’economia capitalistica: stiamo parlando del settore borsistico segnato dall’apertura delle borse di Shanghai e Shenzhen rispettivamente il 19 dicembre 1990 e il 3 luglio 1991.
La risposta degli acquirenti è stata eccellente e i mercati azionari cinesi si stanno aprendo velocemente agli stranieri (che acquistano in valuta estera. Si sta dunque realizzando un altro di quei prerequisiti per lo sviluppo di un efficiente mercato capitalistico e una delle precondizioni per un’eventuale privatizzazione senza un crollo economico come nei paesi dell’est europeo. Questi mercati azionari svolgono il fondamentale compito di allocare razionalmente gli alti risparmi, localizzati soprattutto nelle regioni costiere, in usi produttivi.
4. Regioni trainanti e zone economiche speciali
Fra il 1978 e il 1981 sono state create le prime quattro Zes di Shantou, Shenzhen, Xiamen e Zhuhai, nelle province del Guangdong e del Fujian (alle quali si e aggiunta nel 1988 l’isola di Hainan e nel 1989 Pudong, nella municipalità di Shangai) con lo scopo di favorire l’investimento di capitali stranieri. I tassi di crescita sono elevatissimi, paragonabili a quelli delle quattro tigri (Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del Sud). È nelle Zes e nelle città aperte che sono state applicate (e sperimentate) le norme speciali che sono poi state estese gradualmente ed in buona parte al resto del paese.
È nel Guangdong che si è venuto così a delineare il modello più avanzato del capitalismo cinese. Qui gli investimenti stranieri rappresentano il 40% di tutta la Rpc, la maggior parte dei quali provenienti da Hong Kong che, approfittando delle condizioni (flessibili) sopra ricordate in cui opera la forza-lavoro, ha impiantato industrie labour intensive. Nel Guangdong vi è stato un tasso di crescita annuo del 14,4% dal 1983 e già nel 1992 il 90% dei prezzi era determinato dal mercato.
Fondamentale è sottolineare l’inserimento della Cina nel mercato mondiale e come questo rappresenti sempre più uno stretto collegamento con gli strumenti del capitalismo mondiale (Fmi, Banca Mondiale). Il valore delle importazioni (220 mrd $) e delle esportazioni (119 mrd $) nel 1995 è aumentato del 24% rispetto all’anno precedente. Decisivo è il rapporto coi paesi dell’Asean e soprattutto col Giappone che è il principale partner commerciale. È utile ricordare come la Rpc aspirasse a diventare uno dei soci fondatori dell’erede del Gatt: il Wto, ma come ciò non sia stato possibile a causa della politica mercantilistica effettutata dalla Cina e dallo scarso rispetto che essa ha per il copyright; si veda il recente scontro con gli Usa che ha minacciato di portare ad una guerra economica. Quello che è importante notare è il ruolo preponderante delle province meridionali, in particolare il Guangdong, in questo rapporto col commercio estero e col mercato dei capitali.
L’importanza delle Zes e delle regioni economicamente più avanzate sta, secondo la nostra analisi, in questo: è qui sviluppato un modo di produzione compiutamente capitalistico e perfettamente integrato col mercato mondiale. La storia dello sviluppo capitalistico ci ha spesso mostrato l’importante ruolo di avanguardia che svolgono alcune zone inizialmente limitate, alcune regioni, dotate delle caratteristiche necessarie per permettere il decollo e lo sviluppo di un nuovo modo di produzione. All’interno di una formazione sociale complessa ed estesa come quella cinese, possono convivere diversi aspetti e diversi gradi di sviluppo (nonché diversi modi di produzione). Le Zes, per i rapporti di proprietà e produttivi che le caratterizzano, per le relazioni internazionali da cui sono attraversate, hanno avuto la possibilità, e l’hanno adeguatamente sfruttata, di generare cambiamenti in tutto il sistema.
5. Economia socialista di mercato
È questa la formula con la quale è stata designata dal XIV Congresso del Pcc, nell’ottobre 1992 [14], l’ultimo stadio a cui sono per ora pervenute le riforme della struttura economica. Decisione ribadita e rafforzata dalla Terza sessione plenaria nel novembre 1993: “La ristrutturazione economica nelle aree rurali continua a svilupparsi in profondità; le imprese statali stanno passando ai nuovi meccanismi di gestione; il ruolo del mercato nell’allocazione delle risorse si sta espandendo rapidamente; scambi economici e tecnologici e la cooperazione con gli altri paesi sono generalmente diffusi; e la struttura dell’economia pianificata viene gradualmente rimpiazzata dalle struttura dell’economia socialista di mercato” [15]. Contrariamente a quanto sostenuto da Mao sulla possibilità di utilizzare strumenti capitalistici per i fini del socialismo, si sostiene ora che il mercato non porta al capitalismo e che anche nelle economie occidentali compaiono forme di pianificazione: “se il socialismo vuole vincere deve avere l’audacia di assorbire ed imparare tutti i successi della civilizzazione umana e tutte le forme avanzate di operazioni e di meccanismi di gestione che riflettono le leggi che governano la moderna produzione socializzata praticata oggi in diversi paesi del mondo, ivi incluse le nazioni a capitalismo sviluppato” [16].
Il discorso su mercato e pianificazione rischia però di essere fuorviante se non si stabilisce che questi non sono elementi naturali soprastorici, ma sono invece costruzioni storiche, forme di interrelazionalità sociale che si dispiegano in modo differente all’interno dei diversi modi di produzione. Ha quindi in parte ragione Deng quando dice che: “l’economia pianificata non e l’equivalente del socialismo poiché vi è pianificazione anche sotto il capitalismo, e l’economia di mercato non è sinonimo di capitalismo in quanto vi è un mercato anche sotto il socialismo. Sia la pianificazione che i mercati sono strumenti economici. La natura fondamentale del socialismo sta nell’emancipazione e nello sviluppo delle forze produttive… Sono i titoli e le borse valori buone o cattive?… Può il socialismo farne uso?” [17]. In un modo di produzione capitalistico ad esempio il possesso da parte dello Stato di parte dei mezzi di produzione è una forma di proprietà capitalistica. Ciò che conta è il modo di produzione .
L’espressione “economia di mercato”, utilizzata come equivalente di struttura economica capitalistica, ingenera confusione in quanto si elidono le caratteristiche storicamente determinate dalle diverse forme della produzione sociale, ponendo tutta l’attenzione sull’elemento della circolazione ed obliterando così il momento produttivo. Ci si ferma alla categoria generalissima e storicamente indefinita di produzione di valori d’uso, realtà presente anche nel modo di produzione capitalistico, e si nasconde che in quest’ultima decisivo è, a livello della circolazione, l’acquisto della forza-lavoro, dell’unica merce cioè il cui valore d’uso abbia “la peculiare qualità d’esser fonte di valore” [18].
Ora una formula come “economia socialista di mercato”, rispetto alla formula precedente di “economia mercantile pianificata” pone l’accento sul mercato e non sulla pianificazione, rispecchiando cioè, in termini ambigui e potenzialmente distorcenti, la situazione di fatto per cui gli agenti economici e la dirigenza statale operano all’interno dell’economia (di mercato) capitalistica e delle sue leggi. Le scelte economiche sono quindi determinate sulla base della legge del valore ed uno storicamente determinato tipo di pianificazione rischia di entrare in contraddizione con questi meccanismi, mentre un altro determinato tipo di “pianificazione”-“programmazione” (capitalistico) può essere armonizzato con questi. Da qui la necessità di nuovi strumenti per la gestione e il controllo di un efficiente mercato dei capitali e della forza-lavoro: pensiamo da un lato al tentativo della Banca centrale di delineare un controllo efficace sulle filiali (difficoltà di controllo che concorre allo sviluppo dell’inflazione), pensiamo al bisogno di creare un mercato interbancario di valuta estera ed al ruolo che rivestono gli istituti finanziari stranieri nel fornire fondi per gli investimenti; dall’altro lato giocano un ruolo fondamentale la flessibilità della manodopera, il cottimo, la libertà dei licenziamenti, l’esercito di riserva, ecc.
Per restare a queste forme di superficie non solo non crediamo che la pianificazione sussuma il mercato (e semmai è pianificazione in funzione di un modo di produzione capitalistico), ma crediamo anche che questo mercato sia di tipo specificamente capitalistico. Il lavoro è una merce, il lavoratore e un attore del gioco di domanda e offerta. Ora è proprio l’uso che si fa della forza-lavoro che costituisce l’elemento caratterizzante il modo di produzione capitalistico. La lotta di classe all’interno di questo utilizzo è questione dirimente, ma ora come ora per la dirigenza cinese la lotta di classe non è più la contraddizione principale. Il problema non è allora il mercato genericamente inteso, ma questo mercato e le sue relazioni e dipendenze da questo modo di produzione ; in cui non solo i rapporti di produzione sono capitalistici, ma si delinea coerentemente anche un mercato dei capitali e della forza-lavoro. “Sono le azioni e le borse valori buone o cattive?”. Sono di sicuro sintomo di capitalismo avanzato. Questo piano è uno strumento complementare e sussunto ad un modo di produzione capitalistico, come avviene in alcuni pesi occidentali. La transizione ad un capitalismo pienamente sviluppato si sta secondo noi verificando sia nelle forme di superficie (mercato e piano, per dirla con Bettelheim), sia nella corrispondente dialettica della sostanza costituita dai rapporti di produzione.
In questo processo la priorità centrale è stata data allo sviluppo delle forze produttive rispetto all’evoluzione dei rapporti di produzione, questi ultimi considerati troppo avanzati in paragone al corrispondente sviluppo delle prime: “questa impresa costituisce una vera rivoluzione, il cui obiettivo consiste nel mutare fondamentalmente le strutture economiche che hanno bloccato lo sviluppo delle forze produttive” [19] e ancora: “Il culmine della questione è se questa strada sia “capitalista” o “socialista”. Il criterio per effettuare tale distinzione dovrebbe principalmente essere quello di vedere se promuove lo sviluppo delle forze produttive in una società socialista … le zone economiche speciali praticano il “socialismo” non il “capitalismo”” [20]. Si tratta dunque della negazione dell’intuizione maoista sull’inanità della costruzione del socialismo in due fasi (a parte il fatto che qui si sta costruendo qualcosa di ben diverso) per cui prima si sviluppano le forze produttive e poi si modificano i rapporti sociali e della critica al feticismo dello sviluppo delle forze produttive stesse. Certamente il confronto si veniva a stabilire con lo sviluppo delle forze produttive del mercato mondiale capitalistico ed il punto di partenza dell’edificazione maoista del comunismo era determinato dall’arretratezza della Cina prerivoluzionaria. Resta il fatto che la dialettica di forze produttive e rapporti di produzione resta in grande misura vincolante ed è sempre possibile interrogarsi sulle modalità di quel tentativo di costruzione del comunismo perseguita da Mao e se questa non abbia portato a sottovalutare il problema delle forze produttive [21]. Il fatto pero è che mentre la linea di Mao puntava al comunismo quella di Deng ne è la netta antitesi [22].
Se è corretta l’interpretazione di una formazione economica della società come compresenza di più modi di produzione ci pare evidente la presenza nella Rpc di un modo di produzione capitalistico (coi suoi diversi aspetti e diversi gradi di sviluppo). Noi riteniamo che questo modo di produzione tenda a diventare dominante in quanto i rapporti di produzione e le forme di proprietà che lo caratterizzano tendono a subordinare anche i rapporti degli altri modi di produzione (basti vedere quello che succede nel settore statale e cooperativo con l’introduzione dei cottimi, di premi di produttività, mercato del lavoro, ecc.) ed a generalizzarsi. Questo pur mantenendosi una disomogeneità ad esempio nello sviluppo delle forze produttive e della produttività nei diversi settori. Non crediamo dunque che si possa parlare per la Rpc di una molteplicità di modi di produzione sotto l’egemonia di un settore di economia pubblica [23].
Prosegue dunque a vele spiegate la tendenziale unificazione del mercato mondiale all’insegna dell’egemonia internazionale e neocorporativa dell’imperialismo.
Nota bibliografica
I dati cui abbiamo fatto riferimento sono tratti da pubblicazioni della Banca Mondiale e dai seguenti periodici: Beijing Review, Business Week, China Daily Business Weekly, Cina notizie, Far Eastern Economic Review, Financial Times, The Economist, Le Monde Diplomatique. Per alcune pubblicazioni in lingua italiana rinviamo a Rapporto Cina, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1995; G. Regis, Riforme economiche e sviluppo in Cina, Cespi, Milano 1993; Relazioni Internazionali, Numero speciale Cina, settembre 1994; E. Collotti Pischel (a cura), Cina oggi, Laterza, Roma-Bari, 1991.
Note
[1] K.Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1983, p.32.
[2] Ci limitiamo a richiamare qui una formula che ci pare tuttora valida, ma che richiederebbe comunque ulteriori chiarimenti e approfondimenti. Il discorso sul “lessico” marxiano non è certo chiuso.
[3] Quando parliamo di questo concetto ci riferiamo soprattutto all’analisi che ne ha fatto Lenin, Che cosa sono gli “Amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici, in Opere scelte, Editori Riuniti-Edizioni Progress, Roma-Mosca 1973, vol.I, soprattutto pp.50-59.
[4] V. I. Lenin, Sull’infantilismo “di sinistra” e sullo spirito piccolo-borghese , in Opere scelte, cit., vol.IV, p.700.
[5] Per una periodizzazione che condividiamo rinviamo a Rita Bedon, La Cina è sempre più vicina“, in La Contraddizione, no.43, agosto 1994, e Maria Weber, Crescita economica e stabilità politica, in Relazioni internazionali, settembre 1994.
[6] Communiqué of the third plenary session of the 11th Central committee of the Communist party of China, in Peking Review (ora Beijing Review), No.52, Dec.1978.
[7] Zhao Ziyang, Advance along the road of socialism with chinese characteristics, in Beijing Review , Vol.30, No.45, 9 Nov. 1987, p.V.
[8] Cfr. Jiang Zemin, Accelerating reform and opening-up, in Beijing Review, Vol.35, No.43, 26 Oct.1992.
[9] Del resto esplicitamente citato nella prima legge nazionale cinese sul lavoro approvata dall’VIII sessione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale il 5 luglio 1994.
[10] Cfr. Zhao Zijang, op. cit., pp. XIV-XV.
[11] Violando così la legge nazionale sul lavoro che prescrive il divieto dell’assunzione dei minori di sedici anni, salvo alcuni casi. Legge che comunque opera una protezione circoscritta delle categorie più deboli, puntando piuttosto a favorire la mobilità dei lavoratori. Cfr. R. Cavalieri, Unificata la legislazione sul lavoro, in Cina notizie, n.6, 1994, p.15.
[12] Quando del resto nelle stesse aziende di Stato si verificano irregolarità. Nello Shandong su 48 imprese controllate 42 non applicano la legge. Cfr. Cina notizie, n.5, 1994, p.11.
[13] «La differenza nella forma del pagamento del salario non muta nulla alla sua natura, benché una forma possa essere più favorevole di un’altra allo sviluppo della produzione capitalistica… [il cottimo] offre al capitalista una misura ben definita dell’intensità del lavoro … il salario a cottimo è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico… esso serve di leva per il prolungamento del tempo di lavoro e per la riduzione del salario». (K. Marx, Il capitale, VIII ed., Editori Riuniti, Roma 1980, libro I, pp. 604-5 e 608-9).
[14] Cfr. Jiang Zemin, op. cit.
[15] Decision of the Cpc Central Committee on some issues concerning the establishment of a socialist market economic structure, in Beijing Review, Vol.36, No.47, 22 Nov.1993, p.12.
[16] Deng Xiaoping, Gist of speeches made in Wuchang, Shenzhen, Zhuhai and Shanghai, in Beijing Review , Vol.37, Nos.6-7, 7 Feb.1994, p.12.
[17] Ivi, pp.11-12.
[18] K. Marx, Il capitale, cit., libro I, p.200.
[19] Jiang Zemin, op. cit., p.10.
[20] Deng Xiaoping, op. cit., p.10.
[21] È forse però meglio chiedersi se il dilemma per lo sviluppo delle forze produttive debba per forza rinchiudersi all’interno dell’alternativa capitalismo o stalinismo (per lo meno per quanto riguarda uno sviluppo estensivo).
[22] Inoltre è da tenere ben presente che: «Non è vero che Mao non fosse un modernizzatore: era un modernizzatore accanito, forse disperato, ma non cessava mai di chiedersi “Per chi? Per quanti?”». (E.Collotti Pischel, Cina oggi, Laterza, Roma-Bari 1991, p. XII).
[23] Crediamo che gli sviluppi attuali della Cina contemporanea abbiano poco a che vedere anche col Mao che, per dirla in modo sintetico, aveva in buona parte adottato il modello stalinista di sviluppo nella prima metà degli anni Cinquanta e ciò proprio per il tipo di rapporti di produzione che si instaurano all’interno di quel settore pubblico che è destinato secondo noi a perdere la sua predominanza.