Antiper | Il Sudafrica e la fine di un apartheid
Antiper, Il Sudafrica e la fine di un apartheid, PDF, 4 pag., 2012
Nei giorni scorsi ci è capitato di leggere un articolo [1] di Maurizio Matteuzzi dedicato alla recente strage di minatori in Sudafrica. Matteuzzi, che scrive talvolta articoli interessanti, qui sembra non aver ben colto il cuore del problema. Come spesso accade vengono affastellati sbrigativamente tanti diversi elementi senza segnalarne nessuno come principale e senza spiegare affermazioni e giudizi politici piuttosto discutibili.
Secondo Matteuzzi il problema fondamentale del Sudafrica sarebbe quello che a 20 anni dalla “fine dell’apartheid” stanno venendo al pettine i nodi di come quella fine si è realizzata ovvero attraverso la rimozione dell’epoca dell’apartheid – l’amnesia – e la rinuncia a perseguirne i responsabili – l’amnistia -: un “piccolo” limite al “miracolo politico” di Nelson Mandela
“Il Sudafrica, grazie a Nelson Mandela, a suo tempo ha fatto il miracolo politico di passare da un sistema nazi-segregazionista a un sistema democratico a-razziale in modo relativamente indolore, una transizione mirabile ma fondamentalmente basata anch’essa, come quella troppo lodata della Spagna dopo la morte di Franco, e nonostante la «Commissione per la verità» guidata dal prestigio dell’arcivescovo Desmond Tutu, sul binomio amnesia-amnistia. Dopo quasi 20 anni, i nodi vengono al pettine” [1].
A Matteuzzi non passa neppure per l’anticamera del cervello che il “miracolo politico” e la “transizione mirabile” si siano potuti realizzare proprio in virtù dell’“assoluzione” che il dispensatore di miracoli Nelson Mandela ha elargito ai “nazi-segregazionisti” in cambio del ruolo che questi gli hanno concesso di svolgere dentro il processo politico che ha permesso il passaggio “indolore” dal regime “nazi-segregazionista” afrikaner al sistema democratico “a-razziale” sotto il paterno sguardo della sua più illustre ex-vittima.
Il tutto condito della retorica del messaggio, diffuso a livello planetario, secondo cui i “nazi-segregazionisti”, in fondo, non erano poi così terribili [3] e la forza arcobalena “della pace e dell’amore” non poteva che vincere, anche perché spinta in modo formidabile dai concertoni del “buon Bono” e dagli hits delle “menti semplici”.
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Ma il problema fondamentale del Sudafrica non è quello della rimozione della “fase coloniale”; è, piuttosto, quello della rimozione della “fase post-coloniale”. E’ il fatto che la fine dell’apartheid non solo non ha posto fine alle disuguaglianze economico-sociali, ma le ha ulteriormente approfondite. Il problema del Sudafrica è quello che la fine dell’apartheid ha consegnato la sovrastruttura del paese ai “negri da cortile” e la struttura agli ex “nazi-segregazionisti” fingendo di cambiare tutto affinché nulla dovesse cambiare.
Può sembrare incredibile (e in effetti quasi nessuno, Matteuzzi e Manifesto inclusi, ha fatto granché per evidenziarlo), ma il “Sudafrica dei miracoli” rappresenta l’espressione di un paese in cui i salariati di oggi vivono relativamente peggio degli “schiavi” di ieri. Per sincerarsene basta scorrere un recente rapporto dell’OCSE nel cui abstract si legge
“Questo report presenta un’analisi dettagliata dei cambiamenti nella povertà e nella disuguaglianza sociale dopo la caduta dell’apartheid e ciò che può aver condotto a tali sviluppi”
I dati
“…mostrano che il livello di disuguaglianza di reddito in Sud Africa è aumentato tra il 1993 e il 2008. Lo stesso vale per le disuguaglianze all’interno di ciascuno dei quattro principali gruppi razziali del Sud Africa. La povertà è leggermente diminuita nel complesso, ma persiste a livelli acuti per i gruppi razziali African e Coloured” [4]
In sostanza, le disuguaglianze (in termini aggregati, cioè in generale) sono aumentate tra il 1993 e il 2008. E lo stesso è accaduto per gruppi razziali (cioè i neri si sono ulteriormente impoveriti relativamente ai bianchi).
Ecco dunque in cosa è consistito il “miracolo politico” di cui parla Matteuzzi: nell’usare il “prestigio immenso di Mandela” per far passare il Sudafrica dal “nazismo” alla “democrazia” in modo indolore ossia per realizzare il sogno delle classi dominanti: dominare senza bisogno di dover reprimere e addirittura facendo in modo, come in Sudafrica, che della repressione dei neri si occupino i neri medesimi, sia in quanto espressione dei massimi vertici istituzionali, sia in quanto massa delle forze di polizia.
E questo dimostra come una decennale lotta anti-razzista e anti-coloniale possa sfociare in un sistema “a-razziale” (come lo definisce Matteuzzi) nel quale gli sfruttati (neri) e gli sfruttatori (bianchi) sono ancora gli stessi del periodo “razziale”, con una parte di ex-sfruttati a fare da cane da guardia e un altra parte a ben nutrirsi sotto la tavola del padrone.
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Beverly Silver [5] mostra che le progressive de-localizzazioni delle attività produttive si portano dietro una parallela de-localizzazione (se così si può dire) delle lotte operaie la quale, a sua volta, determina un parziale miglioramento delle condizioni di reddito e di vita dei lavoratori che vivono nei paesi di destinazione di queste de-localizzazioni o, per meglio dire, l’aumento della massa di capitale variabile ovvero di reddito globale a disposizione dei lavoratori. Naturalmente, questo aumento avviene a discapito del reddito dei lavoratori che vivono nei paesi di origine delle de-localizzazioni, in modo che il saldo netto possa essere intascato dai capitalisti.
La maggiore richiesta di forza-lavoro fa aumentare il suo prezzo al di sopra del puro costo di (ri) produzione e migliora tendenzialmente i rapporti di forza tra le classi a vantaggio dei lavoratori. Il Sudafrica avrebbe pienamente confermato la regola
“Le corporations erano inizialmente attratte da particolari località semiperiferiche perché queste sembravano offrire lavoratori docili e a basso costo (ad esempio Spagna, Brasile, Sud Africa, Corea del Sud). Il conseguente afflusso di investimento straniero (diretto ed indiretto) contribuì a una serie di “miracoli economici” semiperiferici negli anni ’70 e ’80. Ma l’espansione delle industrie di produzione di massa ad alta intensità di capitale che accompagnò questi “miracoli economici” creò anche nuove classi operaie militanti, con un rilevante potere dirompente. I lavoratori espressero questo potere in cicli di lotta che si estesero in tutta la semiperiferia negli anni ’70 e ’80 – dal Brasile al Sud Africa negli anni ’70, fino alla Corea del Sud negli anni ’80 (Silver, 1995:182)” [6].
se non fosse sopraggiunto un “miracolo” a rimettere le cose a posto (per il capitale).
Cos’è dunque accaduto? E’ accaduto che la “miracolosa” transizione democratica ha cercato di mettere un tappo alle lotte operaie ed è riuscita ad impedire la traduzione di quelle lotte in un miglioramento significativo delle condizioni materiali delle masse sudafricane.
Grazie ai bassi redditi garantiti dalla gestione concertativa [7] della fase post-coloniale è stato possibile un forte afflusso di capitali ed una discreta crescita economica che proprio a partire dal 1993, anno della fine ufficiale dell’apartheid e dell’avvio della presidenza Mandela, ha cominciato ad avere una tendenza stabile, in linea con quella mondiale (dopo anni di forte volatilità e di alti e bassi [8]).
A questo punto la domanda, come si dice, sorge spontanea: chi si è intascato la crescita? E sorge spontanea anche una seconda domanda. A chi serve la fine di un apartheid (politico-istituzionale) se ne resta un altro (economico-sociale)?
Note
[1] Maurizio Matteuzzi, Ombre sull’arcobaleno, Il Manifesto, 18 agosto 2012.
[2] Maurizio Matteuzzi, ibidem.
[3] Meritando infatti addirittura quell’ennesimo, infame, Premio Nobel per la Pace che Frederik Willem de Klerk ha infatti condiviso con Mandela.
[4] Leibbrandt, M. et al. (2010), Trends in South African Income Distribution and Poverty since the Fall of Apartheid, OECD Social, Employment and Migration Working Papers, No. 101, OECD Publishing: “This report presents a detailed analysis of changes in both poverty and inequality since the fall of Apartheid, and the potential drivers of such developments. Use is made of national survey data from 1993, 2000 and 2008. These data show that South Africa’s high aggregate level of income inequality increased between 1993 and 2008. The same is true of inequality within each of South Africa’s four major racial groups. Income poverty has fallen slightly in the aggregate but it persists at acute levels for the African and Coloured racial groups. Poverty in urban areas has increased. There have been continual improvements in non-monetary well-being (for example, access to piped water, electricity and formal housing) over the entire post-Apartheid period up to 2008”.
[5] Beverly J. Silver, Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori, Milano 2008 (1a ed. Cambridge University Press 2003), pp. 312.
[6] Giovanni Arrighi, I lavoratori del mondo alla fine del secolo, Articolo tradotto con l’assenso dell’autore da Annamaria Vitale. La versione inglese è apparsa sulla rivista “Review”, estate 1996, volume XIX, numero 3 con il titolo “Workers of the World at Century’s End”, Da “InterMarx”
[7] Espressa come meglio non si sarebbe potuto fare dall’alleanza politica del 1999 tra l’African National Congress di Nelson Mandela (66,4% dei voti) ed il Nuovo Partito Nazionale, erede del Partito Nazionale di De Klerk (6.9%).
[8] Nella figura, la linea gialla rappresenta il Sudafrica; la linea grigia, il Mondo.