Antiper | Effetto John Belushi
“Non ti ho tradito, dico sul serio, ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio…” [2]
The Blues Brothers. Siamo alla sera del concerto. Jake viene raggiunto dalla ex-fidanzata che lo vuole ammazzare perché lui non si è presentato all’altare (dove lei lo aspettava in “trepida” e “virginale” attesa). Jake sfodera una serie di spiegazioni, una più improbabile dell’altra. Lei si fa abbindolare.
Un analista ha usato questa allegoria – definendola “effetto John Belushi” – per descrivere come ci è stata raccontata l’esplosione della “crisi finanziaria” del 2008: una serie di spiegazioni, una più improbabile dell’altra. Certo, alcune di queste spiegazioni descrivono effettivamente particolari fenomeni connessi alla crisi, ma nessuna di esse è capace di coglierne le cause profonde.
Tanto per fare un esempio, è piuttosto comune sentir dire che la crisi è scoppiata nel settembre 2008 a causa del fallimento della banca di investimenti Lehman Brothers e poi si è propagata alla cosiddetta “economia reale” [3]. E già questa semplice affermazione è – a dir poco – fuorviante.
Giovanni Arrighi scrive
“Il capitalismo finanziario […] costituisce invece un fenomeno ricorrente che ha caratterizzato l’epoca capitalistica sin dai suoi primi passi nel tardo medioevo e nell’Europa della prima età moderna. Nel corso di tutta l’era capitalistica le espansioni finanziarie hanno segnato la transizione da un regime di accumulazione su scala mondiale a un altro. Esse costituiscono aspetti integranti della periodica distruzione dei ‘vecchi’ regimi e della simultanea creazione di ‘nuovi’ regimi” [4]
Si tratta di uno dei temi che Arrighi riprende da Fernand Braudel e che introduce nella propria teoria dei “cicli sistemici di accumulazione”. Ma già Marx ed Engels, nel 1850, scrivevano
“Quelli dal 1843 al 1845 furono gli anni della prosperità industriale e commerciale, conseguenza necessaria della depressione quasi ininterrotta dell’industria negli anni 1837-42. Come sempre, con la prosperità si sviluppò molto rapidamente la speculazione. La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione” [5]
Esiste forse in modo più semplice e al tempo stesso più efficace di questo per rappresentare (con 160 anni di anticipo) quello che sta accadendo oggi sotto i nostri occhi? Evidentemente no. Ma nessuno dei grandi esperti che pontificano nelle trasmissioni televisive, sui giornali o nelle università ci dirà mai parole altrettanto semplici ed altrettanto espressive della realtà.
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Rispetto all’attuale crisi finanziaria, il cui inizio viene in genere identificato sbrigativamente con il fallimento della banca di investimenti Lehman Brothers [6] l’“effetto John Belushi” si è materializzato in mille tra spiegazioni e combinazioni di spiegazioni, ciascuna caratteristica di un particolare contesto politico-culturale.
Se negli ambienti “liberisti” si è snocciolata qualche ipocrita riflessione sull’etica, negli ambienti “anti-neo-liberisti” sono fioccate spiegazioni di ogni genere, la maggior parte delle quali, tuttavia, può essere ricondotta alla combinazione di due [7] presunte cause “neo-liberiste” principali: 1) la riduzione dei redditi da lavoro con la “conseguente” riduzione dei consumi; 2) la “deregulation” dei mercati finanziari con la “conseguente” proliferazione di finanza derivata, strutturata, ecc…
Ovviamente dalle spiegazioni facili alle soluzioni facilone il passo è breve: più soldi ai lavoratori (sostegno alla domanda), più regole al mercato (c’è troppa avidità), qualche “tassetta” sulla speculazione (à la Tobin) et voilà, les jeux sont faits…
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La “soluzione” sotto-consumistica della crisi (“prendiamo risorse dalla finanza per trasformarle in reddito da lavoro e dunque in consumi dei lavoratori e dunque in domanda di beni e servizi e dunque in crescita dell’offerta e dunque in maggiori profitti per le imprese e dunque in sviluppo economico e dunque in uscita dalla crisi”) sono certamente errate (come il marxismo e l’esperienza storica stessa hanno ben messo in evidenza); ma ove anche esse non lo fossero sarebbero comunque ben difficili da realizzare perché presuppongono rapporti di forza che, almeno attualmente, non paiono essere visibili neppure con ALMA [8]. Ne consegue che, ben difficilmente, potrebbero essere utili alla fuoriuscita dall’attuale crisi.
Invece, quella che si pone di fronte a noi, è una situazione ben diversa:
1) Le banche si tengono le “proprie” [9] risorse. E’ possibile che si realizzi, attraverso la fiscalità, un trasferimento diretto di risorse dal sistema finanziario a quello produttivo per sgonfiare la sovraccomulazione di capitale fittizio e per diminuire l’indebitamento delle imprese, ma certo senza passare per la strada del sostegno ai redditi da lavoro. 2) Al contrario, lo Stato si prende risorse dalle tasche dei lavoratori per darle alle banche (sotto forma di fondi di salvataggio) e alle imprese (sotto forma di commesse, finanziamenti diretti, de-fiscalizzazioni, de-contribuzioni, ecc).
Per quanto drammatico questo scenario possa essere per i lavoratori, non si tratta che della normalità del modo di produzione capitalistico. Ed è proprio perché normalmente sono i lavoratori a pagare le crisi create dai capitalisti che i lavoratori dovrebbero lottare contro questo intero modo di produzione e non solo per qualche micragnoso miglioramento transitorio.
Invece di rincorrere impossibili “soluzioni” della crisi interne al modo di produzione capitalistico o, peggio ancora, agitare parole prive di qualsiasi credibilità (“noi la crisi non la paghiamo”, “noi il debito non lo paghiamo”, “nazionalizziamo le banche e le imprese sotto il controllo dei lavoratori”, “nessuno deve essere licenziato”, “occupiamo qui, occupiamo là”…) forse sarebbe il caso di porsi il problema in termini più generali e, soprattutto, seri.
Posto il capitalismo è assolutamente inevitabile che le crisi le paghino i proletari e non i capitalisti [10]; altrimenti, che capitalismo sarebbe? La società in cui non sono più i lavoratori a pagare “costi sociali” di crisi prodotte da qualcun altro (con riduzione del salario, aumento della disoccupazione, ecc…) non si chiama capitalismo, ma comunismo. Socialismo, nella sua prima fase.
E allora se si vuole davvero che le crisi del modo di produzione capitalistico non si scarichino – come sempre – sulle spalle dei lavoratori c’è solo una ed un sola possibilità: passare dal capitalismo al socialismo/comunismo. Invece, dire ai lavoratori che, anche nel capitalismo, è possibile scaricare gli effetti della crisi su chi l’ha provocata (banche, imprese…) vuol dire truffarli, i lavoratori.
Note
[1] Antiper, WEB: www.antiper.org, EMAIL: antiper@antiper.org
[2] Jake (John Belushi), The Blues Brothers.
[3] “Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale”. In Duccio Cavalieri, Neoliberismo, interventismo, keynesismo, 19 gennaio 2009.
[4] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, NET, pag.10.
[5] K.Marx-F.Engels, Neue Rheinische Zeitung Revue, Maggio-Ottobre 1850.
[6] Mentre invece c’è un catena molto più lunga di crisi finanziarie (più di 100 dall’inizio degli anni ’70) che, solo per restare agli ultimi 15 anni, inizia con Brasile, Russia e “tigri asiatiche” alla fine degli anni ’90 e prosegue con la bolla “dot.com” nei primi anni 2000.
[7] Cfr. Felice Roberto Pizzuti, La “Grande crisi del 2008” in Su la testa. Materiali per la Rifondazione Comunista, n.1, febbraio 2010: “Tra le motivazioni della crisi se ne segnalano particolarmente due: in primo luogo l’aumento dell’incertezza e il suo ruolo contraddittorio nelle economie di mercato; in secondo luogo, i peggioramenti nella distribuzione del reddito e i loro effetti negativi sulla crescita”.
[8] ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) il più potente telescopio al mondo.
[9] Ed anzi, se i cosiddetti “risparmiatori” dovessero pretendere in massa di ritirare i propri risparmi, probabilmente le banche si terrebbero anche le nostre, di risorse (come è avvenuto nel 2001 in Argentina).
[10] Non i capitalisti in quanto classe perché invece molte imprese capitalistiche, nella crisi, sono destinate a chiudere i battenti.